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La guerra cercata
Nel momento in cui l’Unione Europea annuncia ai quattro venti un piano di riarmo epocale e la NATO incassa la promessa di un aumento delle spese militari al 5% del PIL per gli stati membri, sta mostrando l’arma ai suoi avversari ma soprattutto al suo pubblico, quello che la dovrà pagare. Il copione prevede che queste armi dovranno essere usate, se non altro a scopo deterrente, in futuri conflitti con nemici sempre più potenti. L’antagonista è fondamentale nello sviluppo di una narrazione, non se ne può fare a meno. L’antagonista è essenziale anche nella costruzione dell’identità, le guerre rinsaldano la comunità nazionale attorno ai leader, anche ai peggiori. Continua a leggere→
Chi controlla le terre rare controlla il mondo
Immagine in evidenza da Unsplash Quando a fine anni ’80 Deng Xiaoping affermò che “il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina le terre rare”, in pochi diedero il giusto peso alla dichiarazione dell’allora leader della Repubblica Popolare cinese. Come invece sempre più spesso accade, il Dragone asiatico dimostrò di avere la capacità di immaginare e mettere in atto strategie di lungo termine: le terre rare, infatti, rappresentano oggi uno dei maggiori motivi di frizione geopolitica nel mondo, a causa dell’elevata richiesta e del loro complesso approvvigionamento, di cui la Cina detiene il monopolio. Praticamente nessun settore industriale ad alta tecnologia può farne a meno, da quello militare – per missili guidati, droni, radar e sottomarini – a quello medico, in cui sono impiegate per risonanze magnetiche, laser chirurgici, protesi intelligenti e molto altro ancora. Non fa eccezione il settore tecnologico e in particolare quello legato allo sviluppo e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Come spiega Marta Abbà, fisica e giornalista esperta di temi ambientali, le terre rare possiedono qualità magnetiche uniche e sono eccellenti nel condurre elettricità e resistere al calore, e anche per questo risultano essenziali per la fabbricazione di semiconduttori, che forniscono la potenza computazionale che alimenta l’AI, per le unità di elaborazione grafica (GPU), per i circuiti integrati specifici per applicazioni (ASIC) e per i dispositivi logici programmabili (FPGA, un particolare tipo di chip che può essere programmato dopo la produzione per svolgere funzioni diverse).  Sono inoltre cruciali per la produzione di energia sostenibile: disprosio, neodimio, praseodimio e terbio, per esempio, sono essenziali per la produzione dei magneti utilizzati nelle turbine eoliche.  Senza terre rare, quindi, si bloccherebbe non solo lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, ma anche quella transizione energetica che, almeno in teoria, dovrebbe accompagnarne la diffusione rendendola più sostenibile. Insomma, tutte le grandi potenze vogliono le terre rare e tutte ne hanno bisogno, ma pochi le posseggono. TERRE RARE, MINERALI CRITICI E AI Le terre rare (REE) sono un gruppo di 17 elementi chimici con proprietà simili e spesso presenti insieme nei minerali: lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio, ittrio e scandio. Le materie prime critiche, di cui possono far parte anche alcune terre rare, sono invece quei materiali identificati dai vari governi come economicamente e strategicamente essenziali, ma che presentano un alto rischio di approvvigionamento a causa della concentrazione delle fonti e della mancanza di sostituti validi e a prezzi accessibili. Nel 2024 il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato il Regolamento europeo sulle materie prime critiche, elencandone 34, di cui 17 definite “strategiche”, il cui controllo o accesso influisce direttamente su obiettivi di sicurezza, sviluppo tecnologico e autonomia industriale. Le terre rare, in realtà, spiega ancora Marta Abbà, non sono rare, ma la loro presenza nel mondo non è omogenea e l’estrazione e la lavorazione risultano molto costose e inquinanti.  Le maggiori riserve sono possedute dalla Cina, in cui ammontano, secondo le stime, a 44 milioni di tonnellate, con una capacità estrattiva che nel 2024 ha toccato la cifra di 270mila tonnellate all’anno. Altri stati che possiedono significative riserve sono il Brasile (21 milioni di tonnellate, attualmente ancora pochissimo sfruttate), l’Australia (5,7 milioni di tonnellate), l’India (6,9 milioni di tonnellate), la Russia (3,8 milioni di tonnellate) e il Vietnam (3,5 milioni di tonnellate).  A questo gruppo di paesi si è aggiunta di recente la Groenlandia, salita alla ribalta delle cronache per i suoi enormi giacimenti di materie prime critiche e per il conseguente interesse mostrato da Stati Uniti, Unione Europea e Cina. Il sito più rilevante, Kvanefjeld, nel sud dell’isola, è considerato uno dei più promettenti a livello globale e, secondo le stime della società che ne detiene la licenza estrattiva, potrebbe contenere fino al 15% delle riserve mondiali conosciute di terre rare. A far gola alle grandi potenze tecnologiche sono in particolare l’alluminio, derivato della bauxite, e il silicio, necessari per la produzione dei wafer (la base di silicio su cui vengono costruiti i microchip) e per l’isolamento dei chip, il niobio, utilizzato nei cavi superconduttori, il germanio, necessario per i cavi in fibra ottica utilizzati per la trasmissione di dati ad alta velocità, cruciale per l’AI, e ancora gallio, tungsteno, neodimio, ittrio, tutti componenti essenziali per l’industria dei microchip.    Per via delle loro applicazioni nell’industria high tech, molti di questi materiali ed elementi sono stati identificati come strategici sia dall’Unione Europea che dagli Stati Uniti e sono per questo oggetto di accordi e trattati bilaterali con i paesi produttori.  Nonostante la presenza di alcune riserve di terre rare in entrambe le regioni, il fabbisogno risulta infatti di gran lunga superiore alla capacità produttiva domestica, obbligando di fatto sia Washington che Bruxelles a importare le materie dall’estero, prima di tutto dalla Cina e in secondo luogo, per quanto riguarda l’Unione Europea, dalla Russia.  Per questo motivo, Dewardric L. McNeal, direttore e analista politico della società di consulenza Longview Global, ha affermato alla CNBC che “gli Stati Uniti devono ora trattare le materie prime critiche non come semplici merci, ma come strumenti di potere geopolitico. Come la Cina già fa”. IL POTERE DEL DRAGONE ASIATICO E LE RISPOSTE USA Dopo settimane di tensioni e accuse reciproche per i dazi imposti dall’amministrazione Trump, il governo di Pechino ha deciso di rallentare l’export di terre rare tra aprile e maggio, come già fatto in precedenza sia nel 2023 che nel 2024, quando alla scrivania dello studio ovale sedeva ancora Joe Biden e il tema caldo di discussione era l’isola di Taiwan. Per farsi un’idea della portata di questa mossa, basti pensare che, come stimato dal Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS), se la Cina imponesse un divieto totale sulle esportazioni dei soli gallio e germanio, minerali utilizzati in alcuni semiconduttori e in altre produzioni high tech, il PIL statunitense potrebbe diminuire di 3,4 miliardi di dollari. Anche per questo, il tono di Washington da inizio giugno è diventato più conciliante e il rapporto tra le due potenze si è andato normalizzando, fino ad arrivare il 28 giugno al raggiungimento di un accordo tra i due paesi. Nonostante i dettagli siano ancora scarsi, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, ha dichiarato che la Cina ha accettato di facilitare l’acquisizione da parte delle aziende americane di magneti, terre rare cinesi e altri materiali fondamentali per l’industria tecnologica.  Quella che Trump ha festeggiato come una sua grande vittoria diplomatica, ha però reso ancor più evidente come le catene di approvvigionamento dei minerali critici siano molto concentrate, fragili e soprattutto troppo esposte all’influenza e al controllo di Pechino. Come abbiamo visto, la Cina è il paese in cui si trovano le maggiori riserve mondiali di terre rare, ma non è solo questo elemento a spostare l’ago della bilancia geopolitica a favore del dragone asiatico. L’influenza della Cina abbraccia infatti anche i paesi “amici”, come la Mongolia e il Myanmar, secondo produttore mondiale di terre rare pesanti (più scarse e più difficili da separare), le cui principali operazioni minerarie sono significativamente partecipate da Pechino, estendendo ulteriormente il controllo effettivo della potenza asiatica. La posizione dominante della Cina è determinata anche dal fatto di possedere il monopolio di fatto della raffinazione, cioè la complessa operazione metallurgica per trasformare la materia prima grezza in materiali utilizzabili. Un processo non solo complesso, ma altamente inquinante e di conseguenza quasi impossibile da eseguire in Europa o negli Stati Uniti, a causa dei più elevati standard di compliance ambientale che ne farebbero schizzare il costo alle stelle.  Il processo di raffinazione richiede infatti un uso estensivo di sostanze chimiche, in particolare acidi forti (come l’acido solforico, nitrico o cloridrico) per separare le terre rare dai minerali a cui sono legate, creando delle scorie tossiche molto difficili da smaltire, se si seguono, appunto, standard elevati di tutela ambientale. Un esempio del devastante impatto ambientale di questo processo è particolarmente visibile nella città di Baotou, nella vasta area industriale della regione cinese della Mongolia Interna, dove il panorama è dominato da un lago artificiale del diametro di circa 9 chilometri, composto interamente da fanghi neri e sostanze chimiche tossiche, risultato degli sversamenti di rifiuti di scarto derivanti dall’estrazione e raffinazione delle terre rare. L’Occidente, in pratica, ha scelto di esternalizzare le negatività ambientali derivanti dall’estrazione di terre rare in Cina e questa, da parte sua, ha accettato di buon grado, dando priorità al potere economico e geopolitico che ne deriva rispetto alla salute dei suoi cittadini e alla tutela del proprio ambiente naturale. La dipendenza delle catene di approvvigionamento occidentali diventa ancor più evidente se si prende come esempio la miniera di Mountain Pass in California, una delle maggiori operazioni statunitensi nel settore delle terre rare. Nonostante produca circa il 15% degli ossidi di terre rare a livello globale, si trova a dover inviare l’intera produzione in Cina per le fasi di separazione e raffinazione.  Per questo motivo, il Pentagono nel 2020 ha assegnato 9,6 milioni di dollari alla società MP Materials per la realizzazione di un impianto di separazione di terre rare leggere a Mountain Pass. Nel 2022, sono stati investiti ulteriori 35 milioni di dollari per un impianto di trattamento di terre rare pesanti. Questi impianti, spiega il Center for Strategic and International Studies, sarebbero i primi del loro genere negli Stati Uniti, integrando completamente la catena di approvvigionamento delle terre rare, dall’estrazione, separazione e lisciviazione (un processo chimico che serve a sciogliere selettivamente i metalli desiderati dal minerale) a Mountain Pass, fino alla raffinazione e produzione di magneti a Fort Worth, in Texas. Tuttavia, anche quando saranno pienamente operativi, questi impianti saranno in grado di produrre solo mille tonnellate di magneti al neodimio-ferro-boro entro la fine del 2025 — meno dell’1% delle 138mila tonnellate prodotte dalla Cina nel 2018. Non sorprende, dunque, che gli Stati Uniti, come vedremo, stiano cercando strade alternative in grado di diversificare maggiormente la propria catena di approvvigionamento di questi materiali. Ne è un esempio l’accordo fortemente voluto dall’amministrazione USA con l’Ucraina che, dopo un tira e molla di diverse settimane, culminato con la furiosa lite di fine febbraio nello studio ovale tra Donald Trump e JD Vance da una parte e Volodymyr Zelensky dall’altra, ha infine visto la luce a inizio maggio. L’accordo, in estrema sintesi, stabilisce che l’assistenza militare americana sarà considerata parte di un fondo di investimento congiunto dei due paesi per l’estrazione di risorse naturali in Ucraina. Gli Stati Uniti si assicurano inoltre il diritto di prelazione sull’estrazione mineraria pur lasciando a Kiev l’ultima parola sulle materie da estrarre e l’identificazione dei siti minerari. L’accordo stabilisce infine che la proprietà del sottosuolo rimarrà all’Ucraina, cosa non scontata date le precedenti richieste da parte di Washington in tal senso. Quello con l’Ucraina è solo uno dei tanti tavoli di trattativa aperti dalle diverse amministrazioni statunitensi con paesi ricchi di materie critiche: dall’Australia al vicino Canada, passando per il Cile, ricchissimo di litio, e poi ancora il Brasile, dove si estrae il 90% del niobio utilizzato per la produzione di condensatori, superconduttori e altri componenti ad alta tecnologia, e il Vietnam, con cui l’allora presidente Joe Biden ha siglato un accordo di collaborazione nel settembre 2023. È evidente come gli Stati Uniti, da diversi anni, stiano mettendo in campo tutte le risorse economiche e diplomatiche a disposizione per potersi assicurare il necessario approvvigionamento di materie critiche e terre rare, senza le quali la Silicon Valley chiuderebbe i battenti in pochi giorni. LA GLOBAL GATEWAY EUROPEA In Europa la situazione è anche peggiore rispetto agli Stati Uniti. Non solo l’Unione Europea importa oltre il 98% delle terre rare raffinate, con la Cina ovviamente nel ruolo di principale fornitore, ma è anche sprovvista di giacimenti importanti. Uno dei pochi siti promettenti è stato individuato nel 2023 a Kiruna, nella Lapponia svedese, e secondo l’azienda mineraria di stato svedese LKAB potrebbe arrivare a soddisfare, una volta a pieno regime, fino al 18% del fabbisogno europeo di terre rare.  C’è però un enorme problema, oltre a quello già descritto dell’impatto ambientale: è difficile pensare che possa entrare in produzione prima di almeno una decina di anni. Troppi, considerato che le battaglie per la supremazia tecnologica e per la transizione energetica si stanno combattendo ora. Un discorso a parte merita la Groenlandia, territorio autonomo posto sotto la Corona danese, ricchissima di materie prime critiche, terre rare e anche uranio, ma dove le leggi attuali sono molto restrittive in termini di estrazione e che, per di più, è entrata nel mirino dell’amministrazione Trump, diventando oggetto di forti frizioni politiche.  L’interesse dell’Unione Europea nei confronti della grande isola artica è sancito dall’accordo firmato nel novembre del 2023 tra le due parti, che dà il via a un nuovo partenariato strategico tra i due soggetti, il cui cuore pulsante è rappresentato dallo sfruttamento congiunto delle materie prime. Anche in questo caso, però, come per il giacimento di Kiruna, si tratta di un progetto a lungo termine che difficilmente potrà vedere la luce e dare risultati concreti in tempi brevi. L’Unione Europea ha quindi deciso di muoversi sulla scia degli Stati Uniti e della “Nuova Via della Seta” cinese, cercando di chiudere accordi bilaterali di investimento e scambio commerciale con diversi paesi ricchi di materie prime critiche. La strategia “Global Gateway” lanciata nel 2021 rappresenta uno dei più grandi piani geopolitici e di investimento dell’Unione, che ha messo sul tavolo oltre 300 miliardi di euro fino al 2027, con l’obiettivo dichiarato, tra gli altri, di diversificare le fonti di approvvigionamento delle materie critiche. La Global Gateway, a cui si è aggiunto nel 2023 il Critical Raw Material Act, che pone obiettivi specifici di approvvigionamento al 2030, ha portato a diversi accordi fondamentali per la sopravvivenza dei piani di transizione digitale ed energetica del continente: Argentina, Cile e Brasile in America Latina; Kazakistan, Indonesia e Mongolia in Asia; Namibia, Zambia, Uganda e Rwanda in Africa sono alcuni dei paesi con cui la Commissione Europea ha già siglato delle partnership strategiche o ha intavolato delle discussioni di alto livello per agevolare degli investimenti comuni nell’estrazione di terre rare, proprio come fatto dagli Stati Uniti con l’Ucraina.   Considerata la volontà dell’Unione Europea di competere nel settore dell’intelligenza artificiale, quantomeno per ciò che riguarda l’espansione dei data center sul territorio, una robusta e diversificata rete di approvvigionamento delle materie prime critiche è fondamentale. Come si legge infatti sul sito della Commissione Europea, “nel corso del 2025, la Commissione proporrà il Cloud and AI Development Act, con l’obiettivo almeno di triplicare la capacità dei data center europei nei prossimi 5-7 anni e di soddisfare appieno il fabbisogno delle imprese e delle pubbliche amministrazioni europee entro il 2035. La legge semplificherà l’implementazione dei data center, individuando siti idonei e snellendo le procedure autorizzative per i progetti che rispettano criteri di sostenibilità e innovazione. Allo stesso tempo, affronterà la crescente domanda energetica promuovendo l’efficienza energetica, l’adozione di tecnologie innovative per il raffreddamento e la gestione dell’energia, e l’integrazione dei data center all’interno del sistema energetico più ampio”. Il piano non solo è ambizioso in termini di obiettivi, ma tiene strettamente legate le due facce della strategia generale europea, ovvero lo sviluppo tecnologico e la transizione verde entro il quale deve essere inquadrato. Impossibile pensare di fare l’uno o l’altra, tantomeno entrambi, senza le materie prime necessarie.  AFRICA, VECCHIA E NUOVA TERRA DI CONQUISTA In questo quadro geopolitico già di per sé complesso, un discorso a parte meritano i paesi del Sud Globale e in particolare quelli africani, che come si è visto sono quelli in cui si trovano le maggiori riserve di materie prime critiche e terre rare.   Il timore, come già raccontato nel reportage dall’AI Summit di Parigi, è che ancora una volta si vada a configurare un modello di estrattivismo colonialista, in cui i paesi più ricchi, dove avviene la produzione di tecnologia, si arricchiranno ancor di più, mentre i paesi più poveri, da dove vengono prelevate le materie prime, subiranno i devastanti impatti sociali e ambientali di queste politiche. Il rapporto “Rare Earth Elements in Africa: Implications for U.S. National and Economic Security”, pubblicato nel 2022 dal Institute for Defense Analyses, una società senza scopo di lucro statunitense, è molto esplicito nel prevedere un aumento dell’influenza del continente africano nel settore e le problematiche che ciò può comportare. “Man mano che le potenze globali si rivolgono ai mercati africani per rafforzare la propria influenza”, si legge nell’executive summary del rapporto, “è probabile che l’estrazione delle terre rare nel continente aumenti. In Africa si contano quasi 100 giacimenti di terre rare, distribuiti in circa la metà dei paesi del continente. Cinque paesi — Mozambico, Angola, Sudafrica, Namibia e Malawi — ospitano da soli la metà di tutti i siti di giacimento di terre rare in Africa. Attualmente, otto paesi africani registrano attività estrattiva di REE, ma a gennaio 2022 solo il Burundi disponeva di una miniera operativa in grado di produrre a livello commerciale. Tuttavia, altri paesi potrebbero raggiungere presto capacità produttive simili”. La parte che più interessa in questo frangente è però il punto in cui i ricercatori sottolineano come “la gestione delle risorse naturali in Africa e gli indicatori di buona governance devono migliorare, se si vuole garantire che i minerali di valore non portino benefici solo alle imprese americane, ma anche ai cittadini africani”. Considerando che la “Academy of international humanitarian law and human rights” dell’Università di Ginevra ha mappato 35 conflitti armati attualmente in corso nell’Africa subsahariana, di cui molti hanno proprio come causa il possesso delle risorse minerarie, sembra difficile prevedere che questa volta la storia prenda una strada diversa da quella già percorsa in passato. ROTTE ALTERNATIVE In virtù delle complessità descritte per l’approvvigionamento delle terre rare e, più in generale, delle materie prime critiche, alcune società stanno sperimentando delle vie alternative per produrle o sostituirle. La società britannica Materials Nexus, per esempio, ha dichiarato a inizio giugno di essere riuscita a sviluppare, grazie alla propria piattaforma di AI, una formula per produrre magneti permanenti senza l’utilizzo di terre rare. La notizia, ripresa dalle maggiori testate online dedicate agli investimenti nel settore minerario, ha subito destato grande interesse, non solo perché aprirebbe una strada completamente nuova per i settori tecnologico ed energetico, ma perché sarebbe uno dei primi casi in cui è l’intelligenza artificiale stessa a trovare una soluzione alternativa per il suo stesso sviluppo. Secondo Marta Abbà, se anche la notizia data da Material Nexus dovesse essere confermata, ci vorrebbero comunque anni prima di arrivare alla messa in pratica di questa formula alternativa. Sempre che – cosa per nulla scontata – la soluzione non solo funzioni davvero, ma si dimostri anche sostenibile a livello economico e a livello ambientale. È più realistico immaginare lo sviluppo di un’industria tecnologicamente avanzata in grado di riciclare dai rifiuti sia le terre rare che gli altri materiali critici, sostiene Abbà. Prodotti e dispositivi dismessi a elevato contenuto tecnologico possono in tal senso diventare delle vere risorse, tanto che l’Unione Europea ha finanziato 47 progetti sperimentali in questa direzione. Tra questi, c’è anche un promettente progetto italiano: Inspiree, presso il sito industriale di Itelyum Regeneration a Ceccano, in provincia di Frosinone. È il primo impianto in Europa per la produzione di ossidi e carbonati di terre rare (neodimio, praseodimio e disprosio) da riciclo chimico di magneti permanenti esausti. L’impianto di smontaggio, si legge nel comunicato di lancio del progetto, potrà trattare mille tonnellate all’anno di rotori elettrici, mentre l’impianto idrometallurgico a regime potrà trattare duemila tonnellate all’anno di magneti permanenti ottenuti da diverse fonti, tra cui anche hard disk e motori elettrici, con il conseguente recupero di circa cinquecento tonnellate all’anno di ossalati di terre rare, una quantità sufficiente al funzionamento di un milione di hard disk e laptop, e di dieci milioni di magneti permanenti per applicazioni varie nell’automotive elettrico. Nonostante questi progetti, l’obiettivo europeo di coprire entro il 2030 il 25% della domanda di materie prime critiche, tra cui le terre rare, grazie al riciclo, appare ancora molto distante, considerando che a oggi siamo appena all’1%. La strada dell’economia circolare è sicuramente incerta, lunga e tortuosa, ma allo stesso tempo più sostenibile di quella estrattivista e in grado di garantire una strategia di lungo periodo per il continente europeo. L'articolo Chi controlla le terre rare controlla il mondo proviene da Guerre di Rete.
CURAMI – PRIMA DI TUTTO LA SALUTE: “IL FUNERALE DEL WELFARE IN EUROPA”
La puntata di sabato 5 luglio, intitolata “Il funerale del welfare in Europa”, ospita Marco Bersani, socio fondatore e coordinatore di Attac Italia. Conducono la puntata Antonino Cimino e Donatella Albini. Curami è una trasmissione di Radio Onda d’Urto in onda il sabato mattina dalle 12.00 alle 12.30 di Donatella Albini, medica del centro studi e informazione sulla medicina di genere, già delegata alla sanità del Comune di Brescia, e di Antonino Cimino, medico e referente di Medicina Democratica – Movimento di lotta per la salute- di Brescia. La trasmissione viene replicata mercoledi prossimo alle 12.30. La puntata di sabato 5 luglio. Ascolta o scarica
“Europa a mano armata”, il libro contro il riarmo curato da Futura D’Aprile per Sbilanciamoci.info
È uscito oggi, 16 giugno 2025, l’ebook curato da Futura D’Aprile per Sbilanciamoci.info sul riarmo dell’Europa, in cui si focalizza l’attenzione sulle spese in UE dal 2017 ad oggi, un tema che come Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università cerchiamo di approfondire, giacché è da lì che scaturisce l’investimento italiano in armi, ma anche in termini di reclutamento esperto e giovane per l’utilizzo di quelle sofisticate e moderne armi di distruzione di massa. Scrive, infatti, Futura D’Aprile della presentazione del volume: «Maggiori spese militari, tuttavia, alimentano la corsa al riarmo e i conflitti regionali e, sul piano interno, sottraggono risorse ad altre voci di spese nazionali e comunitarie, mettendo in secondo piano il welfare e il benessere dei cittadini», comprese tutte le risorse che servirebbero al funzionamento della scuola e della sanità, come sosteniamo da tempo. L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, del resto, ha già avuto modo di apprezzare il lavoro di inchiesta di Futura D’Aprile durante il convegno nazionale del 16 maggio a Roma presso Spin Time Lab e qui riportiamo il suo intervento video incentrato proprio sugli investimenti dell’Italia in armi in ottemperanza alle indicazione che giungono dall’Unione Europea e della NATO, l’alleanza militare a direzione USA. Futura D’Aprile è una giornalista freelance iscritta all’O.d.g. Puglia, collabora con Il Fatto Quotidiano, Domani, Altraeconomia ed è autrice di Crisi globali e affari di piombo, Seb27, 2022. Clicca qui per scaricare gratuitamente il libro curato da Futura D’Aprile.
InternationalistStandpoint: The spectre of militarism is haunting Europe
BY MARCO VERUGGIO PUBLISHED ON WWW.INTERNATIONLISTSTANDPOIND.ORG ON MAY 29, 2025 Ospitiamo con piacere sul nostro sito l’interessante articolo pubblicato da Marco Veruggio sulla Rivista internazionale Internationalist Standapoint, il 29 maggio 2025 in cui viene ribadito quanto l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università denuncia da due anni a questa parte, vale a dire un pericolosissimo processo di occupazione degli spazi del sapere e della formazione da parte delle Forze Armate e di strutture di controllo. «The Observatory against the Militarization of Schools and Universities, created by grassroots unions together with Pax Christi (a group of peace activists with a catholic background) after the invasion of Ukraine in 2022, has brought together hundreds of teachers and activists. It has been denouncing the intervention of the military in classrooms on a daily basis and promoting debates across Italy and has become an important point of reference for those fighting against militarist propaganda among the youth...continua a leggere su www.internationaliststandpoint.org.
ROARS.it: Sull’attenti e competenti! Arriva l’Unione delle competenze
DI ANNA ANGELUCCI PUBBLICATO SU WWW.ROARS.IT IL 7 APRILE 2025 Ospitiamo con piacere sul nostro sito l’interessante contributo scritto da Anna Angelucci, relatrice al Convegno “Scuole e università di pace. Fermiamo la follia della guerra“, pubblicato su ROARS.it il 7 aprile 2025 in cui viene ribadito quanto l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università denuncia da due anni a questa parte, vale a dire un pericolosissimo processo di occupazione degli spazi del sapere e della formazione da parte delle Forze Armate e di strutture di controllo. «In una scuola in cui già da tempo i dettami performativi e competitivi dell’Ue hanno imposto la visione funzionalista e economicista delle competenze trasversali, della valutazione standardizzata, dell’orientamento al lavoro, del tutoring e del customer care, da oggi si impongono le nuove competenze di resilienza, di preparazione, di pronta risposta alle crisi e ai conflitti, considerate come “condizione abilitante” per gli sventurati abitanti di questa nuova Europa guerrafondaia in cui “l’Unione delle competenze propone un nuovo approccio, che combina le politiche dell’istruzione, della formazione e dell’occupazione, unite intorno a una visione comune della competitività”. Civile o militare (sotto questo profilo, si segnala l’importantissimo lavoro dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università), poco importa: business is business…continua a leggere su www.roars.it.
PORTOGALLO: I CONSERVATORI VINCONO LE ELEZIONI ANTICIPATE. CROLLANO I PARTITI DI SINISTRA, AVANZA L’ESTREMA DESTRA DI “CHEGA!”
In Portogallo le elezioni politiche anticipate confermano il centrodestra del premier uscente Luis Montenegro. Le novità, rispetto a 14 mesi fa, sono però il crollo dei socialisti, dal 28 al 23%, oltre che di tutte le liste o partiti di sinistra, e l’avanzata della destra nazionalista e xenofoba di “Chega!” (“Basta!”), guidata dal commentatore sportiva André Ventura, che di fatto raggiunge il Partito socialista al 23%. Sulle frequenze di Radio Onda d’Urto abbiamo raccolto i commenti di: * Franco Tomassoni, ricercatore di Colador in collegamento da Lisbona. Ascolta o scarica. * Simone Tulumello, compagno italiano che vive e lavora a Lisbona. Ascolta o scarica.  [Foto: manifestazione antifascista a Porto, in Portogallo]
Europa, Palestina, Sudafrica: viaggio al termine del colonialismo
Il sito dell’Unione Europea dichiara “Ogni anno il 9 maggio si celebra la Festa dell’Europa, che celebra la pace e l’unità in Europa”. Come ormai la maggior parte delle istanze internazionali l’Unione Europea, da sei anni sotto la direzione di quella che fu la ministra della difesa di Angela Merkel, Ursula von der Leyen, imbarazza e disgusta nella sua mancanza di volontà politica nel prendere una posizione radicale contro il genocidio del popolo Palestinese a Gaza e nella sua insensata – se non alla luce dei profitti che ci stanno dietro – corsa all’armamento.   In Italia la richiesta di manifestare appoggio e indignazione contro il massacro, sia online sia per le strade, risulta quasi sterile. Malgrado ciò, a chi ha ancora la forza di andare in strada, malgrado la stagnante aria di fallimento che si respira in Europa, va tutta la mia stima. Come uno dei partecipanti della manifestazione di Milano del 25 Aprile, ricorda in un video: «È importante ogni tanto stare insieme, e vedere che siamo ancora in tanti». Online si vede circolare un manifesto, portato in corteo in diverse manifestazioni pro-Palestina, in diverse città europee che dice «You know what also died in Gaza? The myth of western Humanity and Democracy» (Sapete cos’è morto anche a Gaza? Il mito dell’umanità e della democrazia occidentale). Quel mito è morto, se mai ha avuto ragione per nascere, da molto tempo. È basato sulla ripetuta incapacità dell’Europa di fare autocritica, di guardare alla propria storia fatta sul sacrificio e lo sfruttamento degli altri, una storia che continua tuttora nella forma che le e i migranti, le donne, coloro che non rientrano nelle regole dei padri fondatori, maschi etero bianchi, sono trattate e perseguitate. Nel suo Discorso sul Colonialismo (1950) Césaire, commentando la differente risposta della società occidentale alle atrocità dell’olocausto e della schiavitù, già lo fece notare parecchio tempo fa: «hanno tollerato quel nazismo prima che fosse loro inflitto, lo hanno assolto, hanno chiuso gli occhi su di esso, lo hanno legittimato, perché, fino ad allora, era stato applicato solo ai popoli non europei». Esistono gradi diversi di applicare le universali europee norme di umanità e democrazia. La guerra in Ucraina, contemporanea alla guerra in Palestina, lo ha reso ancora più palese. Secondo Van Bever Donker, della University of Western Cape, «Ciò che la civiltà [europea] ha raggiunto, il punto a cui è giunta, non equivale ad altro che alla sua morte». E forse per questo tollera la morte ovunque. In contrasto allo stato di asfissia europeo e di reazione programmata come strategia di sopravvivenza, la quotidianità della solidarietà al popolo Palestinese da parte del popolo sudafricano impressiona nella sua naturalezza, nel suo non bisogno di spettacolarità. Innumerevoli sono le iniziative in solidarietà e concreto sostegno. Lo si vede nei muri delle case, dove messaggi in sostegno al popolo Palestinese sono continui, negli adesivi nelle autovetture, nelle molte bandiere presenti nei festeggiamenti di Eid al-Fitr, o semplicemente Eid, la festa in cui musulmani di tutto il mondo celebrano la fine del mese di digiuno dall’alba al tramonto del Ramadan. Domenica 27 aprile in occasione del Freedom Day, una dozzina di nuotatori hanno organizzato una staffetta percorrendo a nuoto il tratto di 7,4 km da Robben Island a Bloubergstrand, nelle acque gelide di Cape Town. Lo hanno fatto per raccogliere fondi necessari per l’assistenza umanitaria a Gaza e per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’impossibile situazione dei palestinesi. «I nuotatori sono semplici sudafricani che si tuffano in acque simbolo della nostra storia di lotta e prigionia in solidarietà con chi soffre sotto l’oppressione», hanno dichiarato gli organizzatori che si proponevano di raccogliere almeno 500mila euro e ne hanno raccolti 600.000, circa 30.000 euro in poche ore. I fondi sono stati ripassati a Gift of the Givers una versione sudafricana di Emergency, fondata nel 1992 da un medico sudafricano, Imtiaz Ismail Sooliman, per offrire soccorso in caso di calamità e assistenza umanitaria in tutto il mondo, a gennaio 2025 l’organizzazione ha dichiarato di impiegare oltre 600 persone con uffici in nove aree, tra cui Somalia, Yemen e Palestina. Con finanziamenti da aziende sudafricane e donazioni private, l’organizzazione ha distribuito oltre 6 miliardi di Rand (319 milioni di dollari) in aiuti in 47 Paesi in 32 anni, ed è la più grande agenzia di risposta ai disastri di origine africana. La prossima settimana a Johannesburg si terrà il Jozi Palestinian Film Festival, due serate di film e dibattiti sulla situazione palestinese organizzate da South Africa BDS Coalition. I biglietti sono esauriti dopo due giorni dall’annuncio del festival, anche quelli delle overflow seating, sedie di plastica, da aggiungere in sala ovunque ci sia spazio. Il documentario Al-Nakba: The Palestinian Catastrophe (2024) di Rawan Damen apre la rassegna il giorno – 15 maggio – in cui la Nakba (catastofe) viene commemorata ogni anno. Tra il 1947 e 1949, 531 città e paesi furono distrutti dalle milizie israeliane. Dei 1,4 milioni di abitanti palestinesi dell’epoca si stima che ci siano oltre 9 milioni di rifugiati palestinesi sparsi in tutto il mondo. Alla luce del genocidio di 2,3 milioni di abitanti della Striscia di Gaza oggi la Nakba assume un nuovo significato. Nel corso del festival verranno presentati Eyes of Gaza (2024) di Mahmoud Atassi, sull’indicibile numero di giornalisti uccisi in un anno nella guerra tra Israele e Gaza, più alto in qualsiasi altro conflitto da quando il Comitato per la Protezione dei Giornalisti ha iniziato a raccogliere dati nel 1992. Mercoledì 21 l’University of Johannesburg insieme alla Birtzeit University Occupied Palestine, ospiterà la terza lezione pubblica , dal titolo Genocidio e apartheid: terra e identità in Palestina e Sudafrica, in memoria di Shireen Abu Akleh, la giornalista palestinese statunitense uccisa nel 2022 da un soldato israeliano mentre seguiva un raid nel campo profughi di Jenin, nella Cisgiordania occupata da Israele nel 2022. Sarà possibile seguire l’evento online. Segue Al-Shifa Hospital: The Crimes They Tried to Bury (2024), un breve documentario prodotto da Al Jazeera che mira a scoprire la verità dietro le atrocità commesse durante l’assedio dell’ospedale Al-Shifa da parte dell’occupazione israeliana. Il documentario funge da contro-narrativa alle distorsioni e garantisce che le voci delle vittime e dei testimoni vengano ascoltate. La proiezione sarà seguita da una sessione di domande e risposte con gli Healtchcare Workers 4 Palestine. HW4P, è stata co-fondata in Inghilterra da un gruppo di medici nel 2023 per combattere la censura e difendere i diritti degli operatori sanitari palestinesi e il diritto dei palestinesi all’assistenza sanitaria. Il sabato Nathi Ngubane, scrittore e illustratore del libro da colorare From the River to the Sea, i cui ricavati della vendita sono devoluti al popolo palestinese tramite Penny Appeal South Africa, terrà un laboratorio per bambine e bambini mentre chiuderà il festival il documentario girato in Libano e nella Palestina occupata, The Last Sky (2024) di Nicholas Hanna’, avvocato libanese-australiano, seguito da una sessione di domande e risposte con il regista. Tutte le immagini sono di Laura Barucco SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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“L’ULTIMO GIORNO DI GAZA”. GIORNATA DI AZIONE CONTRO LE COMPLICITÀ DELL’EUROPA NEL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE
“L’ultimo giorno di Gaza”. E’ questo lo slogan che ha lanciato oggi, venerdì 9 maggio, nel Vecchio Continente una giornata di azione per Gaza e il popolo palestinese. Un appuntamento di piazza e online, con appuntamenti sul web e flash mob in strada, in occasione di quella che è oggi la Giornata dell’Europa, anniversario della sua unificazione. Azioni per chiedere che l’Ue e i suoi vertici prendano posizione sul genocidio a Gaza e pongano fine ai rapporti con Israele. A Brescia presidio alla Tenda dei Sanitari per Gaza, allestita da martedì fuori dagli Spedali Civili. Appuntamento pubblico alle 18 di oggi per sensibilizzare le migliaia di persone che ogni giorno entrano al principale nosocomio bresciano di fronte alla mattanza in corso a Gaza. Centiania i firmatari dell’appello, da giornalisti a intellettuali, sotto l’hashtag #ultimogiornodigaza e #gazalastday. Tra i firmatari, Luisa Morgantini, fondatrice e presidente di Assopace Palestina. Ascolta o scarica.
Ritorno della leva obbligatoria in tutta Europa: cosa aspettarsi dalla corsa al riarmo
Sul finire del secolo scorso, l’esigenza dei paesi NATO era quella di costruire un nuovo modello di difesa con militari di professione, giudicando la leva un antico, e ormai inutile, retaggio del passato. Serviva, insomma, un esercito addestrato, con numeri decisamente inferiori al passato, ma capace di intervenire con efficacia e tempestività. La scarsa motivazione dell’esercito di leva, venuto meno quel clima da opposti schieramenti, anche ideologici, sancito dal lungo secondo dopo guerra, l’evoluzione della tecnologia militare e duale, a partire dalle guerre spaziali degli anni Ottanta, andavano mutando scenari e  priorità. Già 30 anni fa giravano vari studi atti a dimostrare che la leva obbligatoria era fonte di inutile spesa pubblica, non servivano soldati poco motivati e obbligati a mesi nelle caserme, ma forze di pronto intervento rapido da utilizzare negli scenari di guerra e dopo alcuni anni da ricollocare, con corsie preferenziali, negli uffici pubblici. E a quel punto qualche anno da militare di professione spianava la strada anche ad un successivo impiego sicuro, questi erano i presupposti con i quali partiva la campagna per l’esercito professionale 25 anni or sono. Con la fine della Guerra Fredda, nell’arco di pochi anni, quasi tutti i paesi eliminano la leva obbligatoria scegliendo la strada (suggerita dagli USA) delle forze di difesa professionali, iniziano Belgio (1995) e Paesi Bassi (1997) seguiti da innumerevoli paesi per arrivare poi, nel nuovo secolo, ad altre nazioni ossia Germania (2012), Ucraina (2014), Lituania (2015), Lettonia (2023). La leva in realtà nel nostro paese non è stata cancellata, ma solo sospesa e di questo l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università ha ampiamente parlato e scritto negli ultimi mesi, nel frattempo registriamo spinte importanti che vanno nella direzione di ripristinare la obbligatorietà della leva, prevedendo in alcuni casi una scelta tra addestramento militare e un servizio civile. E nazioni come Germania e Polonia da due anni parlano di pianificare l’addestramento militare per i civili per far fronte alla minaccia russa. E questi due paesi sono quelli che maggiormente nel vecchio continente hanno accresciuto le spese belliche in rapporto al loro stesso PIL e nel caso renano sta partendo la riconversione di interi settori dell’economia civile a fini militari, un progetto di economia di guerra sul quale stanno lavorando da un anno. Meno di un anno fa la Polonia annunciava un piano straordinario di addestramento militare a “tutti gli uomini adulti” nell’ottica di costruire un esercito di 500 mila uomini inclusi i riservisti che, sul modello israeliano, diventano sempre più importanti nei futuri scenari militaristi. Se la guerra in Palestina è condotta con ampio utilizzo di tecnologie di ultima generazione e con sistemi all’avanguardia, il conflitto ucraino, per quanto presenti ampio utilizzo di droni e missili, di aerei a guida senza pilota, ha richiesto quantitativi di soldati decisamente maggiori a quelli disponibili, la Russia ha inviato al fronte ex detenuti in cambio della promessa, una volta tornati dalla guerra, di non espiare la pena, in Ucraina i reclutatori dell’esercito costringono giovani ad andare al fronte battendo villaggio per villaggio. In Germania, nel frattempo, si parla di reintroduzione del servizio militare obbligatorio entro la fine dell’anno, in Spagna invece, dove le posizioni sono diametralmente opposte, è iniziata una aspra discussione sulla cultura della sicurezza e della difesa che in soldoni potrebbe portare a rivalutare la leva obbligatoria (con qualche modifica rispetto al passato) da qui a pochissimi anni. Ritorno del servizio militare obbligatorio: più dubbi che certezze – Lavoce.info Servizio militare obbligatorio: Spagna e altri Paesi europei potrebbero ripristinare la leva | EuronewsIl Belgio rilancia il servizio militare volontario: obiettivo 20mila riservisti | Euronews Federico Giusti, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università