Essere cittadini italiani senza essere considerati italiani: il peso invisibile delle originiYULEISY CRUZ LEZCANO 1
In Italia, acquisire la cittadinanza non basta per sentirsi davvero cittadini.
Per chi ha origini straniere, essere italiano resta un’identità fragile, spesso
negata dal quotidiano. Nonostante documenti in regola, padronanza della lingua,
anni di studio e di lavoro onesto, l’appartenenza resta sospesa.
È una realtà che migliaia di cittadini naturalizzati vivono ogni giorno: persone
che si alzano presto per lavorare, che pagano le tasse, che partecipano alla
vita pubblica, ma che vengono ancora guardate come ospiti, estranei, “gli
altri”.
Molti di questi cittadini hanno più di una laurea, parlano tre o quattro lingue,
sono cresciuti in Italia o ci vivono da decenni. Eppure, nel mondo del lavoro,
si trovano spesso incastrati nei ruoli più umili, nelle mansioni che altri
rifiutano, nei turni peggiori, negli ambienti meno riconosciuti. Non per
mancanza di competenze, ma perché le loro origini contano più del loro
curriculum.
È ciò che sociologi come Maurizio Ambrosini chiamano “integrazione subalterna”
2: la società accetta il contributo degli immigrati quando si tratta di lavori
faticosi, poco retribuiti, essenziali ma invisibili, negando però l’accesso a
ruoli di responsabilità o riconoscimento.
Anche chi ha studiato in Italia, chi ha superato concorsi, spesso si ritrova
escluso dai percorsi di carriera. L’ascensore sociale funziona solo per alcuni.
E se hai un cognome straniero o la pelle scura, le porte si aprono più
lentamente, se si aprono.
Questa esclusione ha conseguenze profonde.
Uno studio ISTAT condotto su oltre 12.000 immigrati ha dimostrato che la
discriminazione percepita, specialmente nei luoghi di lavoro, ha un impatto
diretto sulla salute mentale. L’umiliazione sistematica, la sensazione di essere
costantemente sotto osservazione, il sospetto degli altri, producono ansia,
stress, isolamento.
Essere trattati con diffidenza anche quando si è cittadini italiani significa
vivere in una continua condizione di giustificazione: devi sempre dimostrare di
essere “meritevole”, “diverso da quelli che si comportano male”, sempre più
integerrimo degli altri.
Un’altra ricerca, pubblicata sul Journal of Ethnic and Migration Studies,
evidenzia il paradosso dell’integrazione: più una persona immigrata si integra
nella società, lavorando, imparando la lingua, contribuendo, più diventa
consapevole delle disuguaglianze che subisce. In altre parole, non è l’ignoranza
delle regole a far male, ma la loro applicazione selettiva. È proprio chi si
sente parte della comunità a soffrire maggiormente la sua esclusione.
Nel quotidiano, questa discriminazione prende forme sottili e persistenti. Basta
salire su un autobus o su un treno per rendersene conto: il controllore va per
primo da chi ha la pelle più scura, da chi ha un nome straniero.
Non importa se hai il biglietto, l’accento, la carta d’identità italiana: sei
comunque il primo sospettato. E nei negozi, negli uffici pubblici, negli
ospedali, il tono cambia a seconda della faccia che hai.
Se chiedi qualcosa e non capisci, ti parlano più forte, come se fossi sordo, non
straniero. E se qualcuno del tuo stesso paese commette un errore, il giudizio è
collettivo: “siete tutti così“.
È un’esperienza che molti cittadini italiani non autoctoni conoscono fin troppo
bene. Anche tra colleghi italiani, nonostante anni di lavoro insieme, il
rispetto pieno non arriva.
Si rimane “quelli inaffidabili“, “quelli che fanno bene il lavoro sporco“, ma
difficilmente si diventa leader, punti di riferimento, professionisti di pari
valore. Il soffitto di cristallo non è solo un’astrazione teorica: è un muro
opaco che si incontra ogni volta che si cerca di avanzare.
A rendere tutto ancora più amaro è il fatto che spesso, dopo tanti sacrifici, ci
si sente dire: “Tornatene a casa tua”.
Un’espressione violenta, ingiusta, che cancella tutto ciò che si è costruito.
Perché quella che dovrebbe essere casa tua, l’Italia, continua a essere vissuta
da molti come un luogo in affitto, dove puoi abitare solo finché non dai
fastidio. Eppure, chi subisce questa frase vive qui, lavora qui, cresce i figli
qui. E non ha un altro posto dove tornare.
Approfondimenti
VOCABOLARIO MINIMO SULLA CITTADINANZA ITALIANA
Una prospettiva generazionale
20 Maggio 2025
La sociologia italiana ha analizzato questo fenomeno da tempo. Studi di Fullin e
Reyneri mostrano che, a parità di competenze, i lavoratori stranieri, anche
naturalizzati, continuano a ricevere salari più bassi, meno offerte di lavoro
qualificato, minore stabilità.
Le barriere non sono solo economiche, ma simboliche.
Il corpo dell’immigrato viene spesso associato a “distanza culturale”,
“inaffidabilità”, “pericolosità”, anche quando questi stereotipi sono del tutto
infondati. È una forma di razzismo culturale strisciante che si annida nelle
istituzioni, nella scuola, nei media, nella politica, nel senso comune.
Costruire un’Italia davvero inclusiva richiede molto più della cittadinanza
formale. Serve un cambiamento profondo nel modo in cui si riconosce l’altro, nel
modo in cui si concepisce l’italianità stessa. Perché non si può continuare a
dividere i cittadini tra “veri” e “tollerati“.
Le istituzioni, la scuola, i media, il mondo del lavoro, devono smettere di
considerare le origini come un difetto. È necessario valorizzare la diversità
come risorsa, non come problema. Fino a quando questo non accadrà, tanti
italiani continueranno a vivere come stranieri nel loro stesso paese.
Non per scelta, ma perché nessuno vuole davvero vederli per quello che sono:
parte integrante di questa società, cittadini a pieno titolo, italiani in tutto,
tranne che nell’occhio di chi li guarda.
Il riconoscimento giuridico della cittadinanza è un atto formale, un documento,
un traguardo ottenuto spesso dopo anni di attese, lungaggini burocratiche e
sacrifici. Ma per molti cittadini italiani di origine straniera, quel pezzo di
carta non si traduce in una piena appartenenza sociale.
È come se la cittadinanza concessa dallo Stato non fosse stata ancora accettata
dalla società. Esiste una distanza tra l’“essere italiani per legge” e l’“essere
italiani per gli altri”, una distanza che si traduce in micro-esclusioni,
umiliazioni quotidiane e in un senso costante di precarietà identitaria.
Questa condizione, spiegano i sociologi, rappresenta una vera e propria mancanza
di cittadinanza sociale, cioè l’accesso diseguale a diritti, risorse e
riconoscimento.
Lo studioso britannico T.H. Marshall 3, già nel Novecento, sottolineava come la
cittadinanza non si esaurisse nel diritto di voto o nella residenza legale, ma
includesse l’uguaglianza nelle opportunità educative, lavorative, culturali. In
Italia, però, questa dimensione resta spesso inaccessibile a chi ha origini
straniere. Anche quando si è “in regola”, si vive come se si fosse sempre sotto
esame.
Una delle contraddizioni più dolorose è che la visibilità dell’immigrato
naturalizzato è continua e ineliminabile. In contesti pubblici, privati,
professionali, il corpo “diverso” parla prima della persona. Se sei nero, arabo,
asiatico o comunque non bianco, la tua presenza viene automaticamente letta come
estranea, sospetta o da spiegare.
Sei tu che devi raccontare la tua storia, chiarire perché sei qui, giustificare
il tuo italiano, il tuo titolo di studio, il tuo comportamento. È una forma di
eterno interrogatorio identitario.
Questa esposizione costante logora. Gli studi di migration studies e psicologia
sociale mostrano che chi è sistematicamente trattato come outsider sviluppa una
forma di identità ferita: si sente parte del paese, ma non viene riconosciuto
come tale. Questo genera frustrazione, senso di esclusione, talvolta rabbia.
E, paradossalmente, sono proprio i cittadini più impegnati, più integrati,
quelli che partecipano alla vita pubblica, che pagano le tasse, che educano i
propri figli all’italianità, a percepire con maggiore intensità il peso del
rifiuto sociale. Sono quelli che hanno investito di più ad avere il cuore
spezzato più spesso.
La politica, in questo quadro, resta spesso ambigua. Da un lato proclama la
necessità dell’integrazione, dall’altro costruisce leggi e discorsi pubblici che
alimentano la distinzione tra “noi” e “loro”. Il continuo rinvio di una riforma
seria della legge sulla cittadinanza – che riconosca i diritti dei figli degli
immigrati nati o cresciuti in Italia – è un esempio lampante.
Le cosiddette seconde generazioni crescono italiane ma vengono trattate come
ospiti temporanei, sospesi in una terra che non li accoglie del tutto né li
lascia andare.
A ciò si aggiungono i media, che spesso rappresentano l’immigrazione come
emergenza o problema, raramente come risorsa. Il volto dell’immigrato viene
associato a cronaca nera, marginalità, degrado urbano. Raramente viene mostrato
l’insegnante, il medico, l’ingegnere, l’imprenditore, il ricercatore. Così si
costruisce una narrazione univoca, che giustifica la paura e alimenta la
distanza.
Eppure, c’è un’Italia diversa che resiste. È fatta di insegnanti che difendono i
loro studenti con origini straniere, di datori di lavoro che promuovono la
diversità, di cittadini che si indignano di fronte al razzismo, anche quello
sottile, quotidiano. È un’Italia giovane, meticcia, che cresce nelle scuole,
nelle periferie, nelle università. Ed è questa Italia che può cambiare le cose.
Ma il cambiamento richiede coraggio politico e culturale. Serve rompere
l’ipocrisia che tollera l’integrazione solo finché resta silenziosa, umile,
invisibile. Serve una narrazione nuova, in cui essere italiano non significhi
avere certi tratti somatici o un certo cognome, ma condividere valori,
esperienze, progetti. Serve una cittadinanza vissuta, reale, che dia dignità
piena a tutti.
Perché finché l’essere cittadini italiani sarà una conquista da difendere ogni
giorno, un privilegio da giustificare, anziché un diritto da vivere,
continueremo a costruire una società divisa. E perderemo, tutti, l’occasione di
essere un paese veramente moderno, aperto e giusto.
Il futuro dell’Italia non può che essere plurale. Ma per diventarlo davvero,
deve prima imparare a guardare i suoi cittadini naturalizzati non come
eccezioni, ma come parte integrante della sua identità collettiva. Solo allora,
chi oggi si sente straniero a casa propria, potrà finalmente sentirsi solo
quello che è: italiano.
1. Yuleisy Cruz Lezcano è una poetessa, scrittrice, attivista e professionista
della salute, nata a Cuba e residente a Marzabotto, in provincia di Bologna.
Laureata in Scienze Biologiche e successivamente in Scienze Infermieristiche
e Ostetriche presso l’Università di Bologna, ha saputo coniugare una solida
formazione scientifica con una profonda sensibilità umanistica ↩︎
2. L’integrazione subalterna persiste: sfide e tendenze del modello italiano di
inclusione degli immigrati nel mercato del lavoro, Maurizio Ambrosini,
Nazareno Panichella (FrancoAngeli Editore 2025) ↩︎
3. Cittadinanza e classe sociale, Thomas Humphrey Marshall a cura di S.
Mezzadra (Edizioni Laterza) ↩︎