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Cittadinanza: il TAR annulla il diniego e riconosce la piena validità della residenza fittizia
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio si esprime su un tema sempre più ricorrente nei procedimenti di cittadinanza: la cosiddetta “residenza fittizia”. Il caso riguarda il diniego per l’inammissibilità dichiarato dalla Prefettura di Roma a un cittadino richiedente cittadinanza ai sensi dell’art. 9, lett. f) della l. 91/1992, ritenendo che l’iscrizione anagrafica presso un indirizzo virtuale non provasse una reale presenza sul territorio né un adeguato livello di integrazione. Inoltre, il diniego fondava un’ulteriore motivazione nella presunta insufficienza dei redditi dichiarati negli anni 2020 e 2021. Il TAR chiarisce anzitutto un punto cruciale: l’utilizzo della residenza fittizia non può essere interpretato come un indizio, di per sé, di mancata integrazione o di assenza dal territorio nazionale. Richiamando il quadro normativo – dalla legge anagrafica alla circolare del Ministero dell’Interno del 18 maggio 2015 – il Tribunale ribadisce che l’iscrizione presso indirizzi virtuali è uno strumento pienamente previsto dall’ordinamento per garantire l’esercizio dei diritti fondamentali alle persone senza fissa dimora, inclusi gli stranieri regolarmente soggiornanti. L’anagrafe, anche quando registra una “via fittizia”, attesta comunque una situazione di legalità della residenza, poiché la legge attribuisce rilevanza proprio all’iscrizione anagrafica come criterio di verifica del radicamento. La “residenza fittizia” pertanto deve ritenersi equiparabile alla residenza “reale” per accedere ai principali diritti derivanti da quest’ultima (diritto al rinnovo del permesso di soggiorno, a rinnovare la carta d’identità, il diritto a prestazioni previdenziali, il diritto di voto etc.). La Prefettura, secondo i giudici, ha introdotto un’interpretazione priva di base normativa, che rischia di creare disparità territoriali e di scardinare la funzione stessa delle residenze virtuali. Il diniego, infatti, ha applicato un automatismo errato, ossia che “la residenza fittizia rappresenti una assenza di integrazione“. Il TAR respinge questo metodo e precisa che eventuali abusi o elusioni devono essere accertati caso per caso, con istruttorie accurate e motivate. Sul profilo reddituale, il TAR rileva un’ulteriore carenza istruttoria. La Prefettura aveva segnalato una presunta insufficienza dei redditi relativi agli anni 2020 e 2021. Tuttavia, nella propria memoria difensiva la stessa amministrazione riconosce che, tenendo conto della composizione del nucleo familiare e compensando i redditi delle diverse annualità, il requisito risulta soddisfatto. Inoltre, la flessione del reddito nel biennio pandemico non può essere considerata un elemento ostativo senza una specifica valutazione del contesto eccezionale. Alla luce di tutto ciò, il TAR accoglie il ricorso e annulla il provvedimento, imponendo alla Prefettura un nuovo esame dell’istanza conforme ai principi espressi. La decisione ha rilievo significativo: afferma la piena legittimità della residenza fittizia come modalità di iscrizione anagrafica e ne vieta l’uso come presunzione negativa automatica nei procedimenti di cittadinanza. Inoltre, richiama le amministrazioni a un dovere di istruttoria rigoroso, soprattutto quando si valutano oscillazioni reddituali legate a eventi straordinari come la pandemia. T.A.R. per il Lazio, sentenza n. 20649 del 19 novembre 2025 Si ringrazia l’Avv. Antonella Consono per la segnalazione. * Consulta altre decisioni relative alla cittadinanza italiana
Cittadinanza negata: le modifiche all’art. 14 L. 91/1992 per i minori nati all’estero e nuove gerarchie della cittadinanza
Promosso da: Spazi Circolari, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione – ASGI, Melting Pot Europa, Italiani senza Cittadinanza, ActionAid Italia. Collegamento tramite piattaforma Zoom e in diretta streaming su canale YouTube di Melting Pot. -------------------------------------------------------------------------------- Le recenti modifiche introdotte dal decreto-legge 28 marzo 2025, n. 36, convertito in legge 23 maggio 2025, n. 74, ridefiniscono in modo significativo le condizioni di accesso alla cittadinanza italiana per i minori stranieri nati all’estero, inclusi quelli che da anni vivono in Italia insieme ai genitori naturalizzati. Si consolida così una gerarchia della cittadinanza non solo tra figli di cittadini italiani per nascita e quelli di naturalizzati, ma anche tra minori appartenenti allo stesso nucleo familiare ai quali la cittadinanza sarà riconosciuta o negata in base al luogo di nascita. Le prime applicazioni delle nuove disposizioni, come emerge dalle circolari ministeriali e dalle prassi amministrative, stanno già producendo effetti concreti di esclusione e precarizzazione giuridica, contribuendo a rafforzare meccanismi di marginalizzazione già esistenti e sollevando rilevanti interrogativi sulla legittimità costituzionale delle norme e sulle possibili strategie di tutela e contrasto da adottare.  Il seminario intende: analizzare, dal punto di vista giuridico, le novità normative in materia di cittadinanza dei minori nati all’estero e residenti in Italia; discutere i primi casi concreti di esclusione della cittadinanza; esplorare le possibili strategie di contrasto, sia sul piano del contenzioso legale, sia su quello politico e di advocacy. Intervengono: * Federica Remiddi – Avvocata  * Salvatore Fachile – Avvocato   * Fioralba Duma – Italiani senza Cittadinanza * Antonio Liguori – Campaign Coordinator ActionAid Modera:  * Chiara Aliberti – Melting Pot Europa PROGRAMMA: * La cittadinanza dei figli minori nati all’estero di chi si naturalizza: analisi dell’art. 14, in combinato disposto con l’art. 3-bis della L. 91/1992, alla luce del quadro normativo vigente e delle prime interpretazioni ministeriali. * Prime applicazioni e criticità emerse: condivisione dei primi provvedimenti di rigetto della cittadinanza per i figli minori nati all’estero ed effetti concreti dell’attuazione delle nuove norme da parte dei Comuni. * Profili di contenzioso e questioni di legittimità: esame delle possibili ipotesi di ricorso e dei potenziali profili di illegittimità costituzionale connessi alla nuova disciplina. * Verso una nuova gerarchia della cittadinanza? Riflessioni sul contesto e sugli effetti sistemici della nuova norma e sugli strumenti di intervento sul piano politico, giuridico e di advocacy. PARTECIPAZIONE E ISCRIZIONI: Il corso è gratuito. La partecipazione è aperta non solo a professionisti/e del settore o persone direttamente coinvolte, ma anche a decisori politici, giornaliste/e e cittadine/i interessati al tema. Le iscrizioni sono aperte fino alle ore 12.00 di mercoledì 19 novembre 2025. Per partecipare è necessario compilare il modulo online disponibile al seguente link: clicca qui Il link Zoom per seguire il seminario sarà inviato la mattina stessa dell’evento. In caso di posti esauriti, sarà possibile seguire la diretta streaming sul canale YouTube di Melting Pot. * Per informazioni: formazione@meltingpot.org
Essere cittadini italiani senza essere considerati italiani: il peso invisibile delle origini
YULEISY CRUZ LEZCANO 1 In Italia, acquisire la cittadinanza non basta per sentirsi davvero cittadini. Per chi ha origini straniere, essere italiano resta un’identità fragile, spesso negata dal quotidiano. Nonostante documenti in regola, padronanza della lingua, anni di studio e di lavoro onesto, l’appartenenza resta sospesa. È una realtà che migliaia di cittadini naturalizzati vivono ogni giorno: persone che si alzano presto per lavorare, che pagano le tasse, che partecipano alla vita pubblica, ma che vengono ancora guardate come ospiti, estranei, “gli altri”. Molti di questi cittadini hanno più di una laurea, parlano tre o quattro lingue, sono cresciuti in Italia o ci vivono da decenni. Eppure, nel mondo del lavoro, si trovano spesso incastrati nei ruoli più umili, nelle mansioni che altri rifiutano, nei turni peggiori, negli ambienti meno riconosciuti. Non per mancanza di competenze, ma perché le loro origini contano più del loro curriculum. È ciò che sociologi come Maurizio Ambrosini chiamano “integrazione subalterna” 2: la società accetta il contributo degli immigrati quando si tratta di lavori faticosi, poco retribuiti, essenziali ma invisibili, negando però l’accesso a ruoli di responsabilità o riconoscimento. Anche chi ha studiato in Italia, chi ha superato concorsi, spesso si ritrova escluso dai percorsi di carriera. L’ascensore sociale funziona solo per alcuni. E se hai un cognome straniero o la pelle scura, le porte si aprono più lentamente, se si aprono. Questa esclusione ha conseguenze profonde. Uno studio ISTAT condotto su oltre 12.000 immigrati ha dimostrato che la discriminazione percepita, specialmente nei luoghi di lavoro, ha un impatto diretto sulla salute mentale. L’umiliazione sistematica, la sensazione di essere costantemente sotto osservazione, il sospetto degli altri, producono ansia, stress, isolamento. Essere trattati con diffidenza anche quando si è cittadini italiani significa vivere in una continua condizione di giustificazione: devi sempre dimostrare di essere “meritevole”, “diverso da quelli che si comportano male”, sempre più integerrimo degli altri. Un’altra ricerca, pubblicata sul Journal of Ethnic and Migration Studies, evidenzia il paradosso dell’integrazione: più una persona immigrata si integra nella società, lavorando, imparando la lingua, contribuendo, più diventa consapevole delle disuguaglianze che subisce. In altre parole, non è l’ignoranza delle regole a far male, ma la loro applicazione selettiva. È proprio chi si sente parte della comunità a soffrire maggiormente la sua esclusione. Nel quotidiano, questa discriminazione prende forme sottili e persistenti. Basta salire su un autobus o su un treno per rendersene conto: il controllore va per primo da chi ha la pelle più scura, da chi ha un nome straniero. Non importa se hai il biglietto, l’accento, la carta d’identità italiana: sei comunque il primo sospettato. E nei negozi, negli uffici pubblici, negli ospedali, il tono cambia a seconda della faccia che hai. Se chiedi qualcosa e non capisci, ti parlano più forte, come se fossi sordo, non straniero. E se qualcuno del tuo stesso paese commette un errore, il giudizio è collettivo: “siete tutti così“. È un’esperienza che molti cittadini italiani non autoctoni conoscono fin troppo bene. Anche tra colleghi italiani, nonostante anni di lavoro insieme, il rispetto pieno non arriva. Si rimane “quelli inaffidabili“, “quelli che fanno bene il lavoro sporco“, ma difficilmente si diventa leader, punti di riferimento, professionisti di pari valore. Il soffitto di cristallo non è solo un’astrazione teorica: è un muro opaco che si incontra ogni volta che si cerca di avanzare. A rendere tutto ancora più amaro è il fatto che spesso, dopo tanti sacrifici, ci si sente dire: “Tornatene a casa tua”. Un’espressione violenta, ingiusta, che cancella tutto ciò che si è costruito. Perché quella che dovrebbe essere casa tua, l’Italia, continua a essere vissuta da molti come un luogo in affitto, dove puoi abitare solo finché non dai fastidio. Eppure, chi subisce questa frase vive qui, lavora qui, cresce i figli qui. E non ha un altro posto dove tornare. Approfondimenti VOCABOLARIO MINIMO SULLA CITTADINANZA ITALIANA Una prospettiva generazionale 20 Maggio 2025 La sociologia italiana ha analizzato questo fenomeno da tempo. Studi di Fullin e Reyneri mostrano che, a parità di competenze, i lavoratori stranieri, anche naturalizzati, continuano a ricevere salari più bassi, meno offerte di lavoro qualificato, minore stabilità. Le barriere non sono solo economiche, ma simboliche. Il corpo dell’immigrato viene spesso associato a “distanza culturale”, “inaffidabilità”, “pericolosità”, anche quando questi stereotipi sono del tutto infondati. È una forma di razzismo culturale strisciante che si annida nelle istituzioni, nella scuola, nei media, nella politica, nel senso comune. Costruire un’Italia davvero inclusiva richiede molto più della cittadinanza formale. Serve un cambiamento profondo nel modo in cui si riconosce l’altro, nel modo in cui si concepisce l’italianità stessa. Perché non si può continuare a dividere i cittadini tra “veri” e “tollerati“. Le istituzioni, la scuola, i media, il mondo del lavoro, devono smettere di considerare le origini come un difetto. È necessario valorizzare la diversità come risorsa, non come problema. Fino a quando questo non accadrà, tanti italiani continueranno a vivere come stranieri nel loro stesso paese. Non per scelta, ma perché nessuno vuole davvero vederli per quello che sono: parte integrante di questa società, cittadini a pieno titolo, italiani in tutto, tranne che nell’occhio di chi li guarda. Il riconoscimento giuridico della cittadinanza è un atto formale, un documento, un traguardo ottenuto spesso dopo anni di attese, lungaggini burocratiche e sacrifici. Ma per molti cittadini italiani di origine straniera, quel pezzo di carta non si traduce in una piena appartenenza sociale. È come se la cittadinanza concessa dallo Stato non fosse stata ancora accettata dalla società. Esiste una distanza tra l’“essere italiani per legge” e l’“essere italiani per gli altri”, una distanza che si traduce in micro-esclusioni, umiliazioni quotidiane e in un senso costante di precarietà identitaria. Questa condizione, spiegano i sociologi, rappresenta una vera e propria mancanza di cittadinanza sociale, cioè l’accesso diseguale a diritti, risorse e riconoscimento. Lo studioso britannico T.H. Marshall 3, già nel Novecento, sottolineava come la cittadinanza non si esaurisse nel diritto di voto o nella residenza legale, ma includesse l’uguaglianza nelle opportunità educative, lavorative, culturali. In Italia, però, questa dimensione resta spesso inaccessibile a chi ha origini straniere. Anche quando si è “in regola”, si vive come se si fosse sempre sotto esame. Una delle contraddizioni più dolorose è che la visibilità dell’immigrato naturalizzato è continua e ineliminabile. In contesti pubblici, privati, professionali, il corpo “diverso” parla prima della persona. Se sei nero, arabo, asiatico o comunque non bianco, la tua presenza viene automaticamente letta come estranea, sospetta o da spiegare. Sei tu che devi raccontare la tua storia, chiarire perché sei qui, giustificare il tuo italiano, il tuo titolo di studio, il tuo comportamento. È una forma di eterno interrogatorio identitario. Questa esposizione costante logora. Gli studi di migration studies e psicologia sociale mostrano che chi è sistematicamente trattato come outsider sviluppa una forma di identità ferita: si sente parte del paese, ma non viene riconosciuto come tale. Questo genera frustrazione, senso di esclusione, talvolta rabbia. E, paradossalmente, sono proprio i cittadini più impegnati, più integrati, quelli che partecipano alla vita pubblica, che pagano le tasse, che educano i propri figli all’italianità, a percepire con maggiore intensità il peso del rifiuto sociale. Sono quelli che hanno investito di più ad avere il cuore spezzato più spesso. La politica, in questo quadro, resta spesso ambigua. Da un lato proclama la necessità dell’integrazione, dall’altro costruisce leggi e discorsi pubblici che alimentano la distinzione tra “noi” e “loro”. Il continuo rinvio di una riforma seria della legge sulla cittadinanza – che riconosca i diritti dei figli degli immigrati nati o cresciuti in Italia – è un esempio lampante. Le cosiddette seconde generazioni crescono italiane ma vengono trattate come ospiti temporanei, sospesi in una terra che non li accoglie del tutto né li lascia andare. A ciò si aggiungono i media, che spesso rappresentano l’immigrazione come emergenza o problema, raramente come risorsa. Il volto dell’immigrato viene associato a cronaca nera, marginalità, degrado urbano. Raramente viene mostrato l’insegnante, il medico, l’ingegnere, l’imprenditore, il ricercatore. Così si costruisce una narrazione univoca, che giustifica la paura e alimenta la distanza. Eppure, c’è un’Italia diversa che resiste. È fatta di insegnanti che difendono i loro studenti con origini straniere, di datori di lavoro che promuovono la diversità, di cittadini che si indignano di fronte al razzismo, anche quello sottile, quotidiano. È un’Italia giovane, meticcia, che cresce nelle scuole, nelle periferie, nelle università. Ed è questa Italia che può cambiare le cose. Ma il cambiamento richiede coraggio politico e culturale. Serve rompere l’ipocrisia che tollera l’integrazione solo finché resta silenziosa, umile, invisibile. Serve una narrazione nuova, in cui essere italiano non significhi avere certi tratti somatici o un certo cognome, ma condividere valori, esperienze, progetti. Serve una cittadinanza vissuta, reale, che dia dignità piena a tutti. Perché finché l’essere cittadini italiani sarà una conquista da difendere ogni giorno, un privilegio da giustificare, anziché un diritto da vivere, continueremo a costruire una società divisa. E perderemo, tutti, l’occasione di essere un paese veramente moderno, aperto e giusto. Il futuro dell’Italia non può che essere plurale. Ma per diventarlo davvero, deve prima imparare a guardare i suoi cittadini naturalizzati non come eccezioni, ma come parte integrante della sua identità collettiva. Solo allora, chi oggi si sente straniero a casa propria, potrà finalmente sentirsi solo quello che è: italiano. 1. Yuleisy Cruz Lezcano è una poetessa, scrittrice, attivista e professionista della salute, nata a Cuba e residente a Marzabotto, in provincia di Bologna. Laureata in Scienze Biologiche e successivamente in Scienze Infermieristiche e Ostetriche presso l’Università di Bologna, ha saputo coniugare una solida formazione scientifica con una profonda sensibilità umanistica ↩︎ 2. L’integrazione subalterna persiste: sfide e tendenze del modello italiano di inclusione degli immigrati nel mercato del lavoro, Maurizio Ambrosini, Nazareno Panichella (FrancoAngeli Editore 2025) ↩︎ 3. Cittadinanza e classe sociale, Thomas Humphrey Marshall a cura di S. Mezzadra (Edizioni Laterza) ↩︎
Cittadinanza per residenza: la valutazione del reddito deve tener conto dell’invalidità e dell’impegno nel reinserimento lavorativo
Il Consiglio di Stato è ritornato a pronunciarsi sui poteri discrezionali della P.a. in merito alla concessione della cittadinanza italiana, ovvero dei criteri che quest’ultima deve tenere in considerazione ai sensi dell’art. 3 d.l. 25 novembre 1989, n. 382, conv. in l. 25 gennaio 1990, n. 8. Nel caso di specie, il cittadino extracomunitario aveva presentato l’istanza a settembre del 2014, allegando – tra l’altro – anche la documentazione relativa ai redditi dell’ultimo triennio. Tuttavia, il Ministero dell’Interno – con il decreto del 7 agosto 2019 – aveva negato la concessione della cittadinanza per carenza dei criteri reddituali, poiché “lo straniero deve dimostrare di possedere una certa stabilità e continuità nel possesso del requisito, che va mantenuto fino al momento del giuramento”. Invero, l’Amministrazione non aveva tenuto in debita considerazione la circostanza che l’istante, in data 3 dicembre 2013, fosse stato giudicato invalido con riduzione permanente della capacità lavorativa dal 74% al 99%, con decorrenza dal 14 giugno 2013, risultando anche iscritto nell’elenco degli aventi diritto all’assunzione obbligatoria. Inoltre, avanzato ricorso avverso il suddetto provvedimento, il Tar – rigettando la domanda -aveva annunciato che “l’erogazione a titolo di pensione di invalidità “non assume rilievo ai fini del calcolo e della formazione del reddito, avendo di contro la funzione solidaristica di sostegno al reddito”. Ebbene, il Tribunale Amministrativo Regionale aveva omesso di considerare nella sua interezza il contenuto del ricorso introduttivo, con il quale si evidenziava che il cittadino – nonostante le condizioni di salute – aveva cercato di inserirsi nel mondo del lavoro, essendo stato iscritto dal 15 maggio 2015 nell’elenco di cui all’art. 8 l. n. 68/1999; difatti, successivamente si era iscritto al Centro d’Impiego; aveva svolto un percorso di tirocinio formativo, fino ad essere nuovamente e regolarmente assunto nel 2020. Il Consiglio di Stato, difatti, ha ritenuta la censura meritevole di accoglimento poiché “l’Amministrazione appellata – ha omesso di attribuire rilevanza, ai fini dell’accertamento del requisito reddituale che concorre ad integrare i presupposti per la concessione della cittadinanza italiana, alla peculiare condizione di inabilità al lavoro concretizzatasi in data antecedente alla presentazione della domanda”. Pertanto, il criterio reddituale di cui all’art. 3 d.l. 25 novembre 1989, n. 382,, se rigidamente applicato senza tenere conto della peculiare condizione di inabilità dell’istante, assumerebbe carattere discriminatorio, in contrasto con il principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, comma 2, Cost. Quindi, il Giudice di Secondo Grado – accogliendo totalmente l’appello – ha evidenziato che “l’Amministrazione avrebbe dovuto vagliare, nel rispetto di un esercizio costituzionalmente orientato del relativo potere e per evitare che il riscontro del dato reddituale si risolva indirettamente in un elemento illegittimamente discriminatorio, la prospettiva di inserimento lavorativo del ricorrente, in specifica relazione alle peculiari condizioni dello stesso”. Consiglio di Stato, sentenza n. 6090 dell’11 luglio 2025 Si ringrazia l’Avv. Gentian Alimadhi per la segnalazione e il commento.