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ASCOLI PICENO: MIGLIAIA IN CORTEO IN SOLIDARIETÀ CON LA FORNAIA ANTIFASCISTA IDENTIFICATA PER L’AFFISSIONE DI UNO STRISCIONE
Si è svolta sabato 3 maggio ad Ascoli Piceno la manifestazione antifascista organizzata a seguito della doppia visita delle forze di polizia al panificio “L’assalto ai forni”, la cui titolare aveva esposto uno striscione per celebrare gli ottant’anni dalla Liberazione in occasione del 25 aprile. “25 aprile buono come il pane, bello come l’antifascismo” era la scritta incriminata riportata sul pezzo di stoffa affisso di fianco alla forneria. Almeno 2mila le persone presenti in piazza per portare solidarietà alla fornaia ascolana Lorenza Roiati, che ha definito la partecipazione all’evento come “una risposta spettacolare perchè gli antifascisti sono spettacolari”. Indetta alle 15.30 da piazza Cecco D’Ascoli “contro ogni forma di fascismo e repressione” la manifestazione, partecipata da Anpi e realtà politiche del territorio, comitati, studenti, cittadini e collettivi, si è conclusa in piazza Ventidio Basso. Il bilancio della manifestazione con Cecilia, del collettivo Caciara di Ascoli Piceno. Ascolta o scarica.
ASCOLI PICENO A FIANCO DEL PANIFICIO SCENDE IN PIAZZA CONTRO FASCISMO, REPRESSIONE E INTOLLERANZA
È stata annunciata una manifestazione ad Ascoli Piceno per sabato 3 maggio alle ore 15 “contro ogni forma di fascismo e repressione”, dopo l’ennesimo striscione d’odio fascista sotto il periodo del 25 aprile. Gli antifascisti e le antifasciste marchigiane denunciano un clima irrespirabile nella città che, nella settimana del 25 aprile, si è ritrovata sui media di tutta Italia in seguito alla doppia visita delle forze di polizia al panificio “L’assalto ai forni”, la cui titolare aveva esposto uno striscione per celebrare gli ottant’anni dalla Liberazione. Immediatamente dopo la seconda visita della polizia, Lorenza Roiati, aveva ricevuto la pronta solidarità di una parte della cittadinanza. Sucessivamente i neofascisti marchigiani avevano affisso due striscioni contro la titolare del panificio. La città, denunciano dal Collettivo Caciara, subisce da anni le intimidazioni dell’estrema destra, seguita a ruota dalle istituzioni della città. Non è ancora definito il punto di partenza del corteo. Attivisti e attivisti raccomandano di seguire gli aggiornamenti sulle pagine social del  Collettivo Caciara o inviando un messaggio all’indirizzo: collettivocaciara@gmail.com. Presentiamo il corteo e le ragioni dei movimenti marchigiani con Cecilia del Collettivo Caciara, che ci riporta anche i fatti avvenuti in città nella settimana del 25 aprile. Ascolta o scarica
L’attualità dei “Pensieri di un Partigiano”
In occasione delle iniziative dedicate all’80° anniversario della liberazione, ieri lunedì 28 aprile 2025 alle ore 16, presso il Circolo Culturale Auser Empoli “Filo D’Argento”  si è tenuta ad Empoli la presentazione del libro, di Rolando Fontanelli, ultimo partigiano scomparso di Empoli,  Pensieri Di Un Partigiano, La Mia Biografia, edito dalla casa editrice Setteponti. La presentazione è avvenuta all’interno della rassegna: Persone, Solidarietà e Territorio, “Incontri del Lunedì”. La presentazione è stata introdotta da Marisa La Vecchia, e sono intervenuti Andrea Vitello, storico e curatore, e Iacopo Nappini, scrittore e curatore. Il libro è curato da Andrea Vitello e Iacopo Nappini, con la prefazione del primo e la postfazione di Gianfranco Pagliarulo Presidente Nazionale ANPI, inoltre ha il patrocinio culturale del comitato provinciale ANPI Pisa. Tutto il ricavato proveniente dai diritti d’autore, per volere dei curatori e della famiglia di Rolando Fontanelli, sarà devoluto interamente all’ANPI. La presentazione ha rappresentato un’occasione di dibattito e di ricordo dell’importanza della resistenza empolese allo lotta al nazifascismo e alla liberazione dell’Italia. Di seguito la  prefazione al libro: “Questo libro racconta la storia del partigiano Rolando Fontanelli nel periodo del fascismo e della seconda guerra mondiale. Tuttavia Rolando, pur essendo naturalmente il protagonista della sua autobiografia, dedica ampio spazio alla figura di suo padre, attraverso la quale ci porta nelle trincee della prima guerra mondiale. Raccontando la prima guerra mondiale, tramite i racconti del padre, e la seconda guerra mondiale attraverso la sua testimonianza, l’autore mette in evidenza quanto lo scenario del teatro della guerra sia un vero e proprio “Inferno”. È una storia particolare quella di Rolando, un ragazzo che all’epoca, a rischio della sua stessa vita, decise di diventare un partigiano per combattere contro i tedeschi nazisti e invasori e contro i fascisti. Già i fascisti, perché non si trattò di combattere semplicemente per liberare l’Italia dai tedeschi, ma si trattò anche di una guerra civile contro i fascisti italiani desiderosi di poter ripristinare la loro dittatura nel paese. E al fine di impedire ciò persone con ideologie politiche diverse si ritrovarono a combattere unite sotto la direzione del Comitato di Liberazione Nazionale. Oggi ormai diamo per scontato che la scelta più ragionevole per l’epoca fosse opporsi al fascismo e al nazismo, diventandone oppositori o in questo caso un partigiano. In verità non era affatto così, infatti si viveva in un periodo in Italia dove la maggioranza delle persone era disposta ad essere fascista a causa della propaganda e dell’educazione che i ragazzi assorbivano in quel periodo; di conseguenza era difficile poter maturare una coscienza critica ed essere degli anti-fascisti perché si sarebbero perse varie opportunità sociali ma soprattutto lavorative. Rolando in quel periodo fece la scelta più coraggiosa e meno scontata che si potesse fare essere anti-fascista ancor prima che il regime rischiasse di cadere. Per lui fu una conseguenza quasi naturale quando arrivò il momento di prendere una decisione decidere di diventare un partigiano e combattere per la resistenza. In queste dense pagine Rolando racconta con le sue parole la sua personalissima esperienza che lo portò a combattere per difendere i suoi ideali contro i nazi-fascisti. Si tratta di una testimonianza molto importante per la storia dell’antifascismo empolese, ma non solo, che può ispirare e far capire alle generazioni successive che nonostante il periodo che si viveva e che speriamo non si debba più vivere si poteva comunque scegliere e maturare una coscienza critica per combattere i nazi-fascisti e non diventarne dei complici. Infine questo libro è di fondamentale importanza sia per i giovani di oggi, che per le future generazioni, ai fini di far capire l’importanza di mantenere attiva la propria coscienza e il nostro impegno nella società per restare vigili su quei diritti e quelle libertà che diamo troppo per scontate, ma che scontate non sono e la storia ci insegna che ci possono essere sottratte in qualsiasi momento. Per questo dobbiamo preservare la nostra costituzione, facendo anche una pressione democratica in modo che possa essere davvero attuata per costruire una società fondata sui valori dell’umanesimo e della tolleranza. Tuttavia questo libro deve farci riflettere anche sulle altre guerre sparse nel mondo, perché non basta guardare soltanto al nostro orticello, ma come cittadini europei e del mondo dobbiamo anche interessarci, senza rimanere indifferenti, delle violazioni di libertà e diritti nel mondo, che spesso colpiscono minoranze etniche o di un determinato orientamento sessuale, al fine di stimolare e spingere le comunità internazionali a vere cooperazioni volte ad evitare i conflitti ed a preservare i diritti di tutti per un’umanità migliore”. Redazione Toscana
L’80° anniversario della Liberazione: suggerimenti alle storiche e agli storici del futuro
Come valuteranno le storiche e gli storici del futuro il 25 aprile in Italia quando per caso o in virtù di un disegno a noi oscuro le manifestazioni per l’80° anniversario della Liberazione si sono congiunte a un evento di portata mondiale come la morte di Francesco, il Papa di tutti e non solo il Papa di Roma? Naturalmente la possibile risposta alla domanda non è, né avrebbe senso che fosse il tema di questo articolo che piuttosto vuole raccomandare alle storiche e agli storici del futuro di non limitarsi alle cronache ufficiali delle varie manifestazioni e commemorazioni della Resistenza che si sono svolte un po’ dappertutto in Italia. Il mio osservatorio privilegiato è Torino dove, tra numerose altre iniziative, come ogni anno si è svolta la fiaccolata serale del 24 aprile che da sempre si snoda da Piazza Arbarello a Piazza Castello, attraversando Via Cernaia e Via Pietro Micca. Se le storiche e gli storici del futuro poggeranno le loro analisi sulle cronache non riusciranno a cogliere le ragioni profonde e vere che dividono la piazza istituzionale dalla piazza dei giovani riformisti che vogliono l’esercito europeo e dalla piazza dei giovani radicali che in guerra non ci vogliono andare. Le piazze dove si manifestano i dissensi sono una prova della vitalità della democrazia che “se è reale, non sta mai zitta e dà fastidio per sua natura” (Davide Ferrario, Nella piazza del 25 aprile meglio divisioni che silenzio “sobrio”, “Corriere della Sera, Torino, sabato 26 aprile 2025, p. 8). Per comprendere le ragioni dei giovani bisogna saper guardare nelle pieghe di questo tempo malato che vive di guerra e alimenta intenzionalmente la guerra. Come non vedere che “la devastazione è già qui”? Che l’Apocalisse è tra noi? (Antonio Spadaro, Quale Apocalisse, “Il Fatto Quotidiano”, domenica 27 aprile 2026, p. 13). Se, come è probabile, tra le storiche e gli storici del futuro ci sarà chi adotterà una chiave di lettura pacifista o antipacifista, può essere utile che resti una traccia della 165° Presenza di pace che si è svolta sabato 26 aprile 2025 a Torino in Piazza Carignano promossa dal Coordinamento AGITE. La piccola agorà di pace che da tre anni viene svolgendo ed elaborando un pensiero collettivo di pace ha saputo unire nel segno della ricerca della pace la gioia per la ricorrenza della Liberazione e il cordoglio per la scomparsa di una figura profetica del nostro tempo: “Più dei concetti e delle volontà, conta il sentirsi umani insieme. Francesco, un uomo buono, un uomo di tutti e per tutti, ha fatto incontrare molti nel riconoscere e coltivare la nostra umanità. Ha sempre insegnato e raccomandato a tutti di riconoscere che siamo un’unica umanità, unita nelle belle differenze, e che la guerra è offesa a tutti, tutti, tutti, ed è il più grave fallimento umano. L’ultimo suo grido, con l’ultima sua voce, è stato la necessità del disarmo per fondare la pace” (Enrico Peyretti). Da questa agorà di pace è venuta una critica seria e severa della scelta del governo di mettere in contrapposizione i due eventi, prolungando il lutto per Francesco oltre la manifestazione nazionale di Milano del 25 aprile e “invitando” a festeggiare in modo “sobrio”. Per agevolare le storiche e gli storici del futuro giova registrare qui alcuni effetti prodotti dalla sobrietà governativa che sarebbero esilaranti se non fossero inquietanti e significativi di un futuro possibile da scongiurare e contrastare. Forse il caso più clamoroso è quello di Ascoli Piceno dove la signora Lorenza Roiati, nipote di due partigiani decorati: Renzo e Vittorio, è stata identificata dalla polizia per avere a suo modo celebrato la festa della Liberazione, affiggendo fuori dal suo negozio, il pluripremiato panificio “L’Assalto ai forni”, uno striscione con queste parole: “25 aprile. Buono come il pane. Bello come l’Antifascismo”. Come se ricordare la Resistenza fosse (ri)diventato un reato. A futura memoria registriamo che il Sindaco di Ustica, Salvatore Militello (Fratelli d’Italia), ha cancellato del tutto la Festa della Liberazione nell’isola simbolo dell’antifascismo: un insulto alla memoria di Gramsci e degli altri confinati antifascisti. Il richiamo a essere sobri è stato applicato se non imposto vietando di cantare Bella ciao in vari comuni (Cinisello Balsamo, Romano di Lombardia, Cividade Camuno, Ono San Pietro ecc.). Ma come sempre l’inno della Liberazione è risuonato ovunque: per esempio nella sede storica del Centro studi Piero Gobetti, a Torino, in via Fabro 6, è stato intonato dal gruppo di ViaArtisti insieme ai presenti alla fine di uno spettacolo teatrale tratto dal Diario partigiano di Ada Prospero Marchesini Gobetti. L’agorà di Piazza Carignano ha proposto un’altra idea di sobrietas coerente con il significato originario della parola che è stato ripreso tra gli altri da Piero Gobetti: misura nel senso di equanimità che è il contrario di unanimità; moderazione da non confondersi con moderatismo; essenzialità nello stile di vita. Ebbene la moralità pubblica e privata, il rigore sociale nel senso di critica dello spreco (Danilo Dolci), la politica come equilibrio e ricerca del bene comune, sono l’eredità più resistente della Resistenza. “La sobrietà non è soltanto una virtù di cui il sistema economico e produttivo basato sulla crescita del prodotto interno lordo ha voluto cancellare accuratamente ogni traccia perché non se ne serbasse nemmeno la memoria nel giro di una generazione, ma è, soprattutto una manifestazione di intelligenza e di autonomia di pensiero” (Maurizio Pallante). I valori della Liberazione corrispondono ai tre grandi ideali che da sempre accompagnano la storia dell’umanità: 1. la restaurazione delle principali libertà civili e l’affermazione del diritto dell’individuo a essere riconosciuto come persona; 2. l’attuazione di una maggiore giustizia sociale; 3. il ritorno a uno stato di pace dopo una lunga guerra devastatrice. Questi ideali sono espressi in modo esemplare e commovente nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea, a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, prefazione di Thomas Mann, prima edizione Einaudi, Torino 1954. Della libertà, il partigiano italiano, Giordano Cavestro (Mirko), scrive: “La mia giovinezza è spezzata, ma sono sicuro che servirà da esempio. Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà”. Della giustizia, la partigiana montenegrina Anka Knezevic scrive: “Con le nostre ossa e i nostri cadaveri edifichiamo un nuovo mondo, nel quale gli uomini vivranno da eguali e avranno tutti i diritti”. Della pace, il partigiano ucraino, Oleks Bokaniuk scrive: “La guerra è la più grande sciagura dell’umanità. Speriamo che dopo questa guerra venga una pace che renda possibile per molto tempo, e forse per sempre, la felicità. Congedandomi da voi, mi auguro di vedere la pace e una vita felice”. Su questi principi si regge la nostra Costituzione. L’ideale della libertà personale è affermato nell’art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”; l’ideale della giustizia sociale nell’art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”; l’ideale della pace nell’art. 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. I valori di libertà, giustizia e pace non sono andati in soffitta.  Non sappiamo quali valutazioni faranno le storiche e gli storici del futuro. Ci auguriamo che potranno guardare al nostro come a un tempo che ha saputo sia prevenire una nuova guerra devastatrice sia sottrarsi al “potere ipnotico” dell’insorgere di nuove dittature. Come diceva la grande scrittrice, “abbiamo vicino l’esempio istruttivo degli Stati fascisti: se non esiste un modello di ciò che desideriamo essere, abbiamo però, ed è forse altrettanto prezioso, il modello quotidiano e illuminante di ciò che non desideriamo essere” (Virginia Woolf, Le tre ghinee, introduzione di Luisa Muraro, traduzione di Adriana Bottini, Feltrinelli, Milano 2024, p. 171). Pietro Polito Coordinamento AGiTe
Perchè la Brigata Ebraica viene contestata ogni 25 aprile?
Nei giorni scorsi si è parlato molto di un fantomatico gruppo partigiano chiamato “Brigata Ebraica”, che da una ventina d’anni partecipa alla festa del 25 aprile. Da anni ormai, nelle grandi città italiane, la partecipazione della cosiddetta “Brigata Ebraica” alle manifestazioni del 25 aprile viene contestata. A Roma anche quest’anno ai piedi della Piramide di Caio Cestio si sono contrapposti gli antifascisti filo-palestinesi e quelli filo-israeliani. Una contestazione che nasce dalla polarizzazione tra filo-israeliani e filo-palestinesi, dal diritto all’autodeterminazione e alla liberazione del popolo palestinese e dall’acuirsi del conflitto a Gaza e dell’atroce sistema di apartheid razzista, occupazione coloniale e “genocidio incrementale” che lo Stato d’Israele attua nei confronti della popolazione gazawi e della Cisgiordania. Eppure c’è un’altra ragione per cui la Brigata Ebraica è sempre stata contestata e di cui oggi si è persa un po’ di memoria: ovvero il suo ruolo controverso nella Resistenza antifascista. Per entrambe le ragioni, serve conoscere a fondo la storia della Brigata Ebraica. L’economista e giornalista Alberto Fazolo, in una lettera aperta al Presidente della Comunità Ebraica Fadlun, ha scritto: Egregio Presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun, il 25 aprile sono stato allontanato dal presidio romano della Brigata Ebraica e quindi non ho potuto documentarlo. Dopo la Cerimonia, Lei si è trattenuto con i giornalisti, in quel frangente sarei stato felice di potergli porre le seguenti due domande relative alle sue dichiarazioni appena rilasciate. Gliele propongo, confidando che mi voglia rispondere. La prima è nel merito del suo intervento, in cui ha detto che “la Brigata Ebraica sbarcò a Napoli nel settembre del 1943”. Noi però sappiamo che nacque un anno dopo (come si evince anche dai vostri gonfaloni). Non si tratta di un dettaglio da poco, dato che la polemica sulla Brigata Ebraica si incentra per lo più sulle tempistiche. Come arriva a sostenere che fosse operativa addirittura prima della propria fondazione? Rispondendo a una domanda sulla presenza nella medesima piazza dei filo-palestinesi ha detto “a Gerusalemme il Gran Mufti prendeva il caffè con Hitler”. Nel giudizio su Amin al-Husseini, non si può non concordare che si trattò di uno dei tanti maledetti nazisti che dopo il 1945 se la cavarono troppo bene. Ma nelle sue parole c’è un elemento che non torna, infatti a me non risulta che Hitler visitò Gerusalemme, che oltretutto era sotto il controllo degli Inglesi. O io non so di qualche viaggio di Hitler a Gerusalemme, o nelle sue affermazioni c’è un qualcosa che potrebbe essere o una svista, o qualcosa di ben peggiore. Lei dicendo che Hitler stava a Gerusalemme finisce a criminalizzare l’intero popolo palestinese per via delle azioni di un singolo fantoccio degli inglesi. Quindi le domando, quando Hitler avrebbe visitato Gerusalemme? Se a queste due domande non arrivassero risposte valide, sarebbe davvero difficile dire di non trovarsi di fronte ad una grossa e grave operazione revisionista. In attesa di una risposta, le invio i miei saluti Alberto Fazolo La Brigata Ebraica infatti non nasce all’interno del movimento della Resistenza italiana, ma bensì nacque su impulso dell’Agenzia Ebraica per Israele (chiamata anche Sochnut (agenzia) o JAFI, dall’acronimo inglese Jewish Agency for Israel), che era il prodromo dello Stato d’Israele. La Brigata Ebraica rappresenta il contributo militare degli ebrei coloni e Yishuv di Palestina nella Seconda Guerra Mondiale i quali rimasero inattivi fino a praticamente la fine del conflitto, lasciando che si consumasse l’orrore della guerra e della Shoah, senza intervenire. Dopo decine di milioni di morti, si mobilitarono solo quando vi fu concretamente la possibilità di costituire lo stato d’Israele e per farlo serviva partecipare alla guerra. Per questo venne mandato un numero simbolico di uomini ad arruolarsi nelle fila dell’esercito inglese. Non è un caso che la bandiera della Brigata Ebraica è la bandiera dello Stato d’Israele. Costoro arrivarono al fronte quando la guerra stava finendo, dopo la liberazione del campo di Auschwitz. Non contribuirono alla fine del nazismo, ma si limitarono ad inseguire i tedeschi in ritirata, combattendo per un mese. Pur non facendo quasi nulla, si intestarono la vittoria e la memoria. Ciò si pone in evidente antitesi con i valori della Resistenza, eppure in tempi recenti – nonostante le ombre che la coprono – la Brigata ebraica viene spacciata per la principale paladina della lotta antifascista e in difesa degli ebrei. Ovviamente si tratta di una strumentale manovra revisionista finalizzata a legittimare l’azione passata e presente d’Israele. Nella Germania nazista la persecuzione contro gli ebrei iniziò il 15 settembre 1935 con la promulgazione delle cosiddette “Leggi di Norimberga”. Il 18 settembre 1938 Mussolini annunciò l’adozione delle “Leggi razziali” in Italia. In Germania, il primo atto di violenza sistematica contro gli ebrei da parte dei nazisti ci fu il 9 novembre 1938, in quella che è passata alla storia come “La notte dei cristalli”. A quel punto, fu palese a tutto il mondo che l’odio professato dai nazisti si era già trasformato in sterminio. Eppure, le affermazioni orribili e ciniche di Ben Gurion sul destino dei bambini tedeschi, arrivarono circa un mese dopo. Ben Gurion, “padre della patria” d’Israele, infatti dichiarò: “se sapessi di poter salvare tutti i bambini della Germania portandoli in Inghilterra o soltanto la metà di loro portandoli in Palestina, opterei per la seconda soluzione” (Ben Gurion al CC del Mapai, 7 dicembre 1938.) Questa frase deve essere sempre tenuta a mente per capire il ruolo e l’obiettivo della Brigata ebraica: non lottare per la libertà e salvare le vite (nemmeno degli ebrei), ma favorire la nascita dello Stato d’Israele. Come scrisse Segev, uno dei più affermati storici israeliani nato a Gerusalemme il primo marzo 1945 proprio da profughi tedeschi che vi erano arrivati nel 1935: “Ben Gurion, temendo che ‘la coscienza umana’ potesse spingere alcuni paesi ad aprire le porte agli ebrei tedeschi ammonì: ‘Il sionismo è in pericolo’”(Segev T., (2001), Il Settimo milione, Mondadori. Pag. 27.) Il pericolo che lui vedeva era che non si riuscisse a formare lo Stato d’Israele, ma non che decine di milioni di persone – tra cui alcuni milioni di ebrei – morissero per colpa dei nazisti. Solo quando questi due temi si intrecciarono, Ben Gurion utilizzò in chiave strumentale il secondo a favore del primo. Ogni tentativo di riabilitare Ben Gurion e il suo progetto, deve passare attraverso questa considerazione. Il primo gesto concreto per cercare di creare una unità combattente formata esclusivamente da ebrei di Palestina durante la Seconda Guerra Mondiale ci fu il 3 settembre 1939, due giorni dopo l’invasione della Polonia. La domanda fu formalmente rivolta alle autorità coloniali britanniche che controllavano quei territori dal capo del dipartimento politico dell’Agenzia Ebraica, ma la richiesta fu respinta perché gli inglesi non si fidavano ad armare le popolazioni locali, temendo una conseguente lotta per l’autodeterminazione. In Inghilterra l’idea di coinvolgere delle unità di ebrei nella lotta contro il nazismo piaceva alla politica per l’impatto mediatico che poteva offrire la cosa (Churchill era cautamente favorevole), mentre il Colonial Office e il War Office erano decisamente contrari. Il sospetto era alimentato dal fatto che la proposta dell’Agenzia Ebraica fosse volta ad ottenere il controllo armato del territorio palestinese, non di fermare il nazismo. Così nel 1940, dopo un incontro tra Churchill e Chaim Azriel Weizmann (presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale), gli inglesi diedero agli ebrei coloni di Palestina la possibilità di arruolarsi in formazioni ausiliarie del proprio esercito, per contribuire alla lotta contro il nazismo, cosa che però  in pochi fecero davvero. Ciò probabilmente alimentò i sospetti degli inglesi sul fatto che magari le rappresentanze sioniste non avevano molto interesse al conflitto, ma si preoccupavano prevalentemente di creare delle formazioni armate da usare per la costruzione dello Stato d’Israele. Un successivo tentativo di far contribuire le popolazioni ebraiche coloniali di Palestina alla lotta contro il nazismo venne effettuato nel 1942, quando gli inglesi costituirono una formazione combattente mista di arabi ed ebrei, il Palestine Regiment, il quale assorbì coloro che già in precedenza erano arruolati nelle truppe ausiliarie. Complessivamente vi si arruolarono circa 1.600 ebrei e 1.200 arabi. La cosa sollevò l’indignazione di molti ebrei, in particolare di quelli provenienti da Germania e Austria che accusarono “l’Agenzia ebraica di miopia politica, di non vedere cioè come la guerra contro Hitler fosse da ritenersi prioritaria rispetto alla difesa degli insediamenti ebraici di Palestina”. Le autorità inglesi constatarono la sparizione di molte armi, munizioni ed esplosivi dai depositi del Palestine Regiment: i soldati ebrei rifornivano così gli arsenali del futuro Stato d’Israele. Dopo la vittoria di Stalingrado per mano sovietica, il 18 aprile 1943 ci fu una delle più gloriose pagine di Resistenza della Seconda Guerra Mondiale, la Rivolta del ghetto di Varsavia, in cui con poche armi e tanta determinazione, si condusse “una lotta senza speranza, in grado di offrire soltanto una morte dignitosa”6. Il 10 luglio del 1943 gli americani e gli inglesi sbarcarono in Sicilia e per gli ebrei di Palestina si presentò concretamente l’opportunità di poter andare a contribuire alla liberazione degli ebrei europei dalle persecuzioni nazifasciste. Ma ciò non venne fatto, se non molto tempo dopo, nel marzo 1944, quando si riaprirono le trattative tra Agenzia Ebraica per Israele e il Governo britannico per formare una unità combattente di soli ebrei coloni di Palestina. Nel luglio 1944, si trovò una lunga trattativa in cui si parlò della possibilità di costituire uno Stato ebraico in Palestina alla fine della guerra. La decisione di creare la Brigata Ebraica “può essere quindi vista come prova che già nell’estate del 1944 esponenti dell’establishment britannico, e in particolare Winston Churchill, stavano rivalutando positivamente l’idea della partizione della Palestina mandataria”. Il 28 settembre 1944 Churchill comunicò ufficialmente alla Camera dei Comuni la creazione della Brigata Ebraica, che nel frattempo aveva già iniziato a formarsi in Egitto. Gli ebrei coloni di Palestina non risposero in massa alla chiamata per lottare contro il nazismo e non perché non ci fossero soldati già addestrati pronti a farlo. “Si stima che alla fine del 1944 gli uomini su cui l’Agenzia ebraica poteva davvero contare per impiego immediato […] fossero circa 37 000”, ma di questi davvero in pochi si arruolarono unendosi alla Brigata Ebraica. “Il numero di suoi effettivi ebrei era di circa 4.000 uomini e non tutti erano ebrei palestinesi”. C’erano poi anche dei non ebrei. I soldati erano provenienti da 54 diversi Paesi e avevano un’estrazione sociale molto eterogenea. La Brigata era organizzata in tre battaglioni da circa 750 uomini ciascuno e qualche altra compagnia aggregata. Tenendo presente che ci sono stati casi di persone che hanno militato nella Brigata ebraica, ma vi si sono uniti dopo la fine delle ostilità e non hanno quindi mai combattuto, ad oggi non è chiaro quanti ebrei coloni di Palestina abbiano effettivamente combattuto nella Seconda Guerra Mondiale. Si tratta comunque di numeri irrisori. Si ha quindi un riscontro al sospetto che nell’interesse della maggioranza dei sionisti di Palestina non vi fosse come priorità quella di sconfiggere Hitler e di fermare la Shoah, bensì quella di formare lo Stato d’Israele. Quindi, partecipare simbolicamente al fianco di quelli che ormai erano i vincitori della guerra, avrebbe dato il diritto alla Brigata Ebraica di avanzare pretese per il dopoguerra. Su questa simbolica partecipazione si sarebbe costruita la legittimità e la pretesa di costituire lo Stato d’Israele. Il 5 novembre 1944 la Brigata venne trasferita dall’Egitto a Taranto che, con l’Italia divisa in due dalla guerra, era nelle retrovie e ben lontana dai luoghi di combattimento. Dopo cinque giorni fu inviata a Fiuggi. Il quartier generale si insediò alle terme, mentre il comando si sistemò al Grand Hotel Palazzo della Fonte. A Fiuggi la Brigata passò quattro mesi ad addestrarsi, seppur “non potevano certo dirsi i soldati più efficienti dell’esercito britannico”. Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa liberò Auschwitz. Lo sterminio degli ebrei in qualche modo andò ancora avanti per quattro mesi, ma quella viene generalmente indicata come la conclusione della Shoah. All’epoca la Brigata Ebraica stava ancora alle terme di Fiuggi e il suo contributo nel porre fine a quell’orrore è stato quindi nullo. Il 26 febbraio 1945 la Brigata lasciò Fiuggi diretta in Romagna. Venne aggregata al Quinto corpo d’armata, che era un contenitore in cui confluirono diverse truppe straniere. La Brigata Ebraica fu messa sotto al comando dell’Ottava divisione indiana. Lì vi erano anche una divisione neozelandese, uno squadrone corazzato nordirlandese e militari italiani arruolatisi volontari con gli Alleati. Dieci anni dopo l’inizio delle persecuzioni contro gli ebrei, a guerra praticamente finita, la Brigata ebraica divenne operativa e si presentò al fronte per tallonare per qualche giorno i tedeschi in ritirata: “La Brigata arrivò in Italia quando le sorti della guerra erano ormai decise. Partecipò soltanto a qualche scaramuccia” (Segev (2001) p. 136). Il primo vero scontro a fuoco della Brigata ebraica con i tedeschi ci fu il 14 marzo 1945, l’ultima azione di guerra fu il 14 aprile 1945. Gli ebrei coloni di Palestina che caddero nelle fila della Brigata Ebraica furono 30 e a questi vanno aggiunti 27 ebrei inglesi (non volontari, ma coscritti) Combattendo per un mese con qualche migliaio di uomini (a conflitto praticamente finito) e avendo qualche decina di morti, gli ebrei coloni di Palestina si poterono collocare tra i vincitori della Seconda Guerra Mondiale. Ma si intestarono la vittoria e poi pure la memoria. Scrive Fantoni che per Moshe Shertok (direttore del dipartimento politico dell’Agenzia ebraica), il contributo degli uomini della Brigata Ebraica “alla vittoria contro il nazifascismo era secondario, quello che contava davvero era che la loro presenza avrebbe propiziato la nascita dello Stato ebraico. […]. L’obiettivo ultimo e di maggiore importanza […] doveva però essere la creazione d’Israele”. Gli altri, concentrati solo sulla costruzione del proprio Stato, rimasero indifferenti alla sorte delle decine di milioni di persone morte durante la guerra, soprattutto di coloro che lottarono per la vita e la libertà di tutti, nonché per costruire un mondo migliore. Scrive Segev che a Gerusalemme “Un monumento onora i 200.000 soldati ebrei caduti combattendo con l’Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale. Il memoriale, situato tra le tombe dei soldati israeliani, sembra quasi voler rivendicare un’appartenenza postuma delle vittime all’esercito israeliano e al movimento sionista. Proclama, in un certo senso, che quegli uomini e quelle donne sono caduti non per difendere l’Unione Sovietica nella sua guerra contro i nazisti, bensì per difendere il popolo ebraico e per realizzare la fondazione dello Stato d’Israele” (Segev (2001) p. 387.). Segev fa intendere che si tratta di sciacallaggio storiografico al fine di alleviare il senso di colpa e di vergogna per non aver cercato d’impedire l’orrore della Seconda Guerra Mondiale e della Shoah. L’Agenzia Ebraica e la quasi totalità degli ebrei coloni di Palestina non intervennero tutta la Seconda Guerra Mondiale e, mentre morivano decine di milioni di persone e l’incubo dello sterminio flagellava gli ebrei europei, se ne stavano tranquilli al riparo sotto il protettorato britannica. A questo episodio di ignavia si deve aggiungere anche il collaborazionismo di gran parte delle autorità ebraiche allo sterminio degli stessi ebrei. “Non potevamo immaginare che i tedeschi sarebbero riusciti a coinvolgere nelle loro azioni anche elementi ebraici, e cioè che gli ebrei avrebbero condotto alla morte altri ebrei” – così dichiarò Yitzhak Zuckerman, uno dei capi della eroica rivolta ebraica del ghetto di Varsavia (19 aprile – 16 maggio 1943), nel libro A Surplus of Memory (Oxford, 1993, p. 210). Fu la stessa Hannah Arendt che in “La banalità del male” prese di mira e criticò aspramente il collaborazionismo dell’élite ebraica nello sterminio della massa degli ebrei. > Dossier “No alla memoria a senso unico”, 5. H. Arendt sul collaborazionismo > dell’élite ebraica nello sterminio della massa degli ebrei Non dobbiamo dimenticarci infatti che sionismo e nazismo ebbero rapporti molto ravvicinati fin dal 1933 con gli Accordi di Haavara, accordo firmato il 25 agosto 1933 dopo tre mesi di colloqui tra la Federazione Sionista Tedesca, la Banca Anglo-Palestinese (sotto la direttiva dell’Agenzia Ebraica) e le autorità economiche della Germania nazista. Fu un fattore importante nel rendere possibile la migrazione di circa 60.000 ebrei tedeschi in Palestina tra il 1933 ed il 1939 per colonizzare il territorio palestinese. Israele nacque nel 1948, ma già da prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale gli ebrei coloni di Palestina si erano dati una loro forma di statualità con delle forze armate (milizie clandestine o simili) che potevano contare su decine di migliaia di uomini. Tra tutti questi, solo in pochi decisero di arruolarsi volontari per andare a lottare contro il nazismo e per cercare di porre fine all’Olocausto. Quello della Brigata Ebraica è stato un atteggiamento opportunistico e strategico, contrario allo spirito di liberazione che ha animato tutti quelli che hanno combattuto per la Resistenza antifascista e anti-nazista. Mentre in ogni parte del mondo partivano per il fronte milioni di persone, anche volontariamente, qualcun altro si teneva da parte, indifferente. Un atteggiamento in antitesi rispetto ai valori della Resistenza, fatta da volontari partigiani che hanno lottato per sconfiggere il nazismo e per porre fine alle sue ingiustizie e le persecuzioni che conduceva contro ebrei, rom, sinti, omosessuali, partigiani, Testimoni di Geova, oppositori politici, comunisti, etc… . Chi si è tenuto da parte è in qualche misura corresponsabile e come tale va condannato. La Brigata Ebraica non ha contribuito all’esito della guerra e si è affacciata al fronte solo quando la vicenda si stava chiudendo, a differenza dei tantissimi altri ebrei italiani e non degli di nota che hanno lottato nella Resistenza partigiana fin da subito. In tal senso va riconosciuta anche la totale differenza tra la Brigata Ebraica e l’insurrezione anti-nazista degli ebrei del Ghetto di Varsavia. Per questo non c’è motivo d’essere riconoscenti alla Brigata Ebraica: quel poco che hanno fatto non era per la libertà e la giustizia, ma solo per legittimare la fondazione del proprio Stato coloniale. Ma soprattutto il loro atteggiamento è da stigmatizzare, in particolar modo di fronte alle nuove generazioni, perché sia chiaro che quella condotta ha favorito il nazismo. L’azione della Brigata Ebraica fu estremamente positiva per Israele poichè in cambio di una piccola comparsata a fine guerra, riuscì ad ottenere lo Stato. Non si può concludere una trattazione sulla Brigata ebraica senza far riferimento alle attività condotte dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, cioè fino a quando non venne sciolta, nell’estate del 1946 (si noti che fu operativa per più tempo dopo la guerra, piuttosto che durante). La narrativa dominante ci racconta esclusivamente dell’opera svolta per dare assistenza agli ebrei di tutta Europa e del ruolo avuto nel organizzare la migrazione verso Israele. Tuttavia c’è dell’altro che merita d’essere approfondito, in particolare le varie forme di vendetta perpetrate. Dopo la fine della guerra la Brigata si stabilì nei pressi di Tarvisio, una posizione strategica per intercettare i profughi ebrei in arrivo dall’Europa settentrionale e orientale. Questi venivano accolti, rifocillati e poi accompagnati in Israele. Quell’area (su tutti i lati dei confini) era quella in cui risiedevano diversi nazisti, che vi erano ritornati dopo la fine della guerra. Gli uomini della Brigata ebraica iniziarono ad andare a caccia di nazisti uccidendone un numero imprecisato, ma verosimilmente compreso tra alcune decine e i 1.500. Queste esecuzioni fanno emergere una serie di questioni politiche, di cui due sono le principali e più interessanti: 1. Negli ultimi venti anni abbiamo assistito ad un processo di glorificazione della Brigata ebraica. Questo ha investito la società e le istituzioni, sono state fatte celebrazioni ed eretti monumenti. Però in questo processo di glorificazione vengono omesse tante cose, tra cui il fatto che l’attività principale della Brigata ebraica fu di fare vendette dopo la guerra andando a caccia di nazisti e fascisti. Segev (2001) riporta che per alcuni suoi membri era “la vendetta il compito più importante per la Brigata”. Quindi, con questo processo si riconoscerebbe la legittimità di uccidere nazisti e fascisti anche dopo la guerra. Chi scrive non vuole giudicare a tal riguardo, ma non può non notare un’evidente contraddizione: i più grandi sostenitori della Brigata Ebraica sono anche i maggior detrattori della Resistenza italiana; coloro che ancora oggi lanciano le più feroci condanne delle vendette successive alla Liberazione (per esempio, Giuliano Ferrara); coloro che chiamano “vendette” le azioni della resistenza antifascista jugoslava e italiana sul “confine orientale” avvenute dal 1943 in poi, ovvero nel bel mezzo della Resistenza e non postume; coloro che chiamano “martiri delle foibe” gerarchi nazisti e dirigenti del PNF che avevano contribuito all’occupazione e all’italianizzazione fascista delle terre slave, oltre alla reclusione di 200.000 slavi in campi di concentramento dal 1941. 2. La seconda questione che sollevano queste esecuzioni riguarda la finalità di tali gesti. Come già esposto, gli ebrei coloni e Yishuv di Palestina non lottarono per fermare la Shoah, ma arrivarono sul campo di battaglia a cose fatte, dieci anni dopo l’inizio delle persecuzioni contro gli ebrei, perché avevano come priorità la costruzione dello Stato d’Israele e non salvare le vite. Chi era rimasto a guardare per dieci anni senza intervenire, senza cercare d’impedire, dopo la fine della guerra andò a compiere delle vendette. Quale giudizio politico andrebbe espresso al riguardo? Chi non ha fatto nulla per impedire è complice, quindi non è che con quelle azioni si cercasse una riabilitazione? Anche per questo va rimarcata la differenza tra gli aderenti alla Brigata Ebraica e i partigiani che fecero azioni a guerra finita. Il giudizio politico si intreccia con quello morale, che si formula guardando anche ad altre azioni che, se non ascrivibili direttamente alla Brigata ebraica – in quanto verosimilmente condotte solo da alcuni elementi – la coinvolgono in episodi terrificanti. Scrive Segev che tra i membri della Brigata Ebraica “Alcuni sfogarono la propria rabbia sui prigionieri di guerra tedeschi e devastarono le proprietà dei civili”, e prosegue più avanti dicendo che “alcune azioni erano puri e semplici atti di teppismo”, come il giorno in cui i vendicatori “si nascosero ai margini di una strada e cominciarono a sparare su tutto quello che si muoveva, o come quell’altra volta che uccisero anche un’ebrea scampata all’Olocausto”. Segev liquida come “teppismo” ciò che sarebbe più corretto chiamare “terrorismo”: ammazzarono persone a caso senza una logica e un motivo, senza che venissero mai puniti. Questa modalità d’azione ricorda il modus operandi dell’Irgun Tzvai Leumi (ארגון צבאי לאומי), un gruppo paramilitare terroristico di stampo sionista-revisionista d’estrema destra che operò nel corso del mandato britannico della Palestina dal 1931 al 1948, facendo strage di palestinesi con il fine di de-arabizzare la Palestina. Come già detto, la Brigata Ebraica salì sul carro dei vincitori a guerra praticamente finita, combatté per un mese tallonando i tedeschi in ritirata, si pose in antitesi con i valori della Resistenza, alla fine della guerra alcuni suoi membri si macchiarono di orribili crimini per i quali non vennero puniti; ma alla luce di tutto ciò, lo Stato italiano ha deciso di premiarla con la medaglia d’oro al valor militare. La motivazione sa di farsa: “operò durante la seconda guerra mondiale e offrì un notevole contributo alla liberazione della Patria e alla lotta contro gli invasori nazisti”. Non può sfuggire il fatto che si sia trattato di un’operazione politica di revisionismo storico per istituzionalizzare il supporto ad Israele e per delegittimare le contestazioni. Fermo restando il rispetto per i morti, certe pagine di storia forse è meglio consegnarle all’oblio, perché c’è ben poco di cui andar fieri. Ma se qualcuno rispolvera degli eventi per usarli in maniera strumentale in un processo revisionista di legittimazione e di occultamento dei crimini d’Israele, si assume la responsabilità dell’aspra critica che poi si solleva. È da credere che la presenza delle bandiere della Brigata Ebraica (che coincidono con quella di Israele) nelle piazze del 25 aprile sia solo strumentale e abbia poco a che fare non solo con la lotta partigiana, ma persino con le operazioni militari degli alleati. Articolo ispirato dall’articolo  I millantati crediti della “Brigata Ebraica”. Un po’ di storia che va conosciuta del giornalista Alberto Fazolo per Contropiano.org, riportando ampie citazioni. Ringraziamo Alberto Fazolo per la profondità delle fonti storiche che porta nella sua argomentazione. Lorenzo Poli
A Biella un giorno prima
Biella, così come Genova, altra città medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza, si è liberata un giorno prima del 25 aprile. Non ha dovuto attendere gli alleati. Già all’alba del 24 aprile i tedeschi lasciavano la città. Il CLN concordava con il maggiore Zanotti del battaglione “Pontida” la resa e l’abbandono di Biella da parte dei suoi 400 uomini. Attraverso la mediazione di don Antonio Ferraris, luminosa figura di prete antifascista, si otteneva anche la resa a Cossato del “Montebello”. Alle 18 i partigiani della II Brigata Garibaldi entravano in città e venivano sommersi di fiori dalla popolazione che applaudiva, urlava la propria gioia, esponeva i tricolori. Nel suo discorso del 24 aprile il sindaco di Biella, città medaglia d’oro per la Resistenza, ha espresso due auspici che potrebbero essere anche condivisibili, solo che mancano ad oggi le condizioni, a cominciare dal suo stesso intervento. Il primo auspicio formulato dal sindaco è di superare le divisioni guardando al futuro “uniti come Paese e come italiani”. Insomma un 25 aprile che non sia più divisivo ma trovi tutti concordi nel festeggiare la Liberazione. Questo è possibile solo a patto che si condanni da parte dell’estrema destra in modo fermo e chiaro il fascismo mettendone in luce non solo gli aspetti più eclatanti come le leggi razziste ma anche la profonda natura criminale manifestatasi soprattutto tra il 1943 e il 1945: l’eliminazione della democrazia, le torture e le uccisioni degli oppositori, la sciagurata entrata in guerra a fianco dei nazisti. Il fascismo è nato con il preciso intento di eliminare in modo violento gli avversari. Ha fatto bene l’oratrice dell’ANPI nazionale Michela Cella il 24 aprile e Biella a ricordare che Mussolini sosteneva che se c’è il consenso bene, altrimenti c’è la forza. Non c’è stato bisogno del resto di attendere la RSI per rendersi conto della natura violenta del regime. Già nel 1919 avevano dimostrato di che pasta erano fatti, mettendo a ferro e fuoco le sedi di sindacati, partiti e giornali di opposizione, ucciso e picchiato e torturato. E poi la soppressione della libertà e della democrazia. Non sarebbe stato superfluo il 24 aprile ricordare tutto ciò ed esprimersi in modo chiaro in proposito. Poi c’è quella fiamma presente nel simbolo di Fratelli d’Italia che potrebbe essere spenta è invece ancora lì, nel simbolo del partito, a ricordare la continuità con l’MSI, il partito con evidenti legami con l’esperienza fascista nato per volontà di personaggi che venivano diritti dal regime e che certo non lo avevano rinnegato. Giorgio Almirante segretario per decenni dell’MSI che come capogabinetto RSI aveva diramato la direttiva ai prefetti del 17 maggio 1944 “Alle ore 24 del 25 maggio scade il termine stabilito per la presentazione ai posti militari e di Polizia Italiani e Tedeschi agli sbandati ed appartenenti a bande. Tutti coloro che non si saranno presentato saranno considerati fuori legge e passati per le armi mediante fucilazione nella schiena.” Pino Romualdi, vicesegretario e poi presidente MSI, nel 1944 in risposta alla uccisione in battaglia di due squadristi aveva prelevato sette prigionieri politici facendoli fucilare in piazza in sua presenza. Scriveva il 6 giugno 1944 “Procedere subito alla incarcerazione di qualche migliaio di persone ed al loro invio in campo di concentramento. Formare anzi un vasto campo di concentramento nella nostra provincia o in qualche provincia viciniore. Sopprimere il massimo numero di persone sospette”. E poi Rodolfo Graziani, anch’egli per un periodo presidente MSI, massacratore di decine di migliaia di libici e etiopi nelle guerre coloniali da lui dirette con uso anche di armi chimiche. Junio Valerio Borghese, sepolto come papa Francesco a Santa Maria Maggiore, la guida della famigerata X Mas, presidente nel 1951 del MSI, partito da cui poi si stacca per avvicinarsi alle frange eversive extraparlamentari e tentare il golpe del dicembre 1970 insieme a pezzi di apparati statali e delle forze armate. Anche con la presa di distanza dalla stagione missina si farebbe un passo decisivo verso quanto auspicato dal sindaco per una destra capace di fare i conti con il passato e tener fede ai propri intenti. Il secondo auspicio espresso dal sindaco è relegare fascismo e antifascismo al contesto storico evitando di usare questi termini in modo improprio nella dialettica politica contemporanea. Anche in questo caso mancano i presupposti. Se il regime fascista, come afferma il sindaco, è finito con la morte di Mussolini così non è stato per i tanti fascisti che anche se compromessi con il regime sono stati prontamente amnistiati per i crimini commessi, reintegrati nel sistema giudiziario, nelle forze dell’ordine, nella politica, fin dall’immediato dopoguerra, usati in chiave anticomunista dai servizi USA e dai servizi segreti deviati del nostro Paese. Per non parlare di trame nere e stragi e tentativi golpisti che hanno caratterizzato decenni di storia italiana. Insomma, come ha affermato di recente il prof. Charlie Barnao alla manifestazione di Lace di Donato, il grosso problema del dopoguerra è stata la palingenesi del fascismo che ha reso tutto molto complicato. Il sindaco ha ricordato che “la guerra civile si protrasse ancora per mesi dopo la fine del conflitto”. In realtà possiamo parlare anche di un paio d’anni nel corso dei quali si consumarono vendette e rappresaglie a carico di fascisti o presunti tali. Una fase iniziata già con lo scempio dei corpi di Mussolini e dei suoi a piazzale Loreto. Ma quando scoppia una guerra civile il cui motore è alimentato dall’ odio e dal desiderio di vendetta tutto può succedere e nulla si può più controllare. E’ chiaro che naturalmente con la lucidità di analisi che consente il distacco temporale di 80 anni da allora non si può che esprimere orrore anche per questa fase della guerra civile. Si può concordare con il sindaco quando afferma che non ha senso appioppare l’epiteto di fascista a chiunque manifesti un indirizzo politico o sostenga un’idea conservatrice. In questo modo si rischia anche di abusare del termine, banalizzarlo e alla fine svuotarlo di significato. Se considerassimo ad esempio fascista la sbagliata politica ostile ai migranti dovremmo iscrivere a questa categoria anche l’ex ministro PD Minniti col suo memorandum Italia-Libia. Ma è un fatto che chiaro rigurgiti neofascisti oggi sono sotto agli occhi di tutti, fenomeni nostalgici, le violenza squadrista che in varie occasioni si è manifestata nella società, usando a volte come arena anche gli stadi, le selve di braccia tese nel saluto romano in situazione disparate, il fascino di miti e riti del fascismo che coinvolge giovani e giovanissimi, i tricolori ben in vista ai balconi di Biella con il simbolo della Repubblica di Salò, iniziative preoccupanti delle istituzioni come quella del Comune di Affile . In questo Comune vicino a Roma nel 2012 è stato realizzato, con soldi pubblici, addirittura un mausoleo dedicato a Graziani, “il più sanguinario assassino del colonialismo italiano” come lo definì Angelo Del Boca. Ma neppure questo è sufficiente per configurare il reato di apologia di fascismo. Evidenti sono le colpe e lacune della scuola, e un grosso peso lo riveste l’ignoranza della storia, ma è comunque un dato di fatto di cui tenere conto. E quindi se il fascismo, almeno come elemento culturale non pare accantonato, anche l’antifascismo è bene che non sia messo in soffitta o confinato in biblioteca. Come ha affermato Sergio Mattarella “E’ sempre tempo di resistenza, sempre attuali i suoi valori”. E speriamo il prossimo 25 aprile che il Presidente voglia celebrarlo magari proprio a Biella un giorno prima. Giuseppe Paschetto
Alcune riflessioni sulla fiaccolata del 24 aprile
La fiaccolata del 24 aprile a Torino è stata raccontata dei media locali (ed anche da alcuni nazionali) concentrandosi sui due episodi di tensione che si sono svolti all’inizio ed alla fine del corteo, come se la serata potesse essere ridotta a quei dieci minuti di scontro. Alla fiaccolata ero presente, ma molto lontano da quei due episodi e tra me e quegli scontri c’erano migliaia di persone. Mi sono domandato se potessi scrivere qualcosa su quella serata visto che non avevo testimonianza diretta di quelli che universalmente sono stati considerati gli eventi “fondamentali” e qui mi sono posto una questione deontologica: la manifestazione del 24 aprile era quella a cui ho partecipato io, piena di gente persino più dell’anno scorso, o quella raccontata dai giornali? Sono convinto che, nel mio andare avanti ed indietro per il corteo, ho colto meglio lo spirito di chi era in piazza anche se mi sono perso la testa (che è arrivata in piazza prima che potessi arrivarci io), gli interventi dal palco e quei due minuti di tensione tra manifestanti e forze dell’ordine. Il corteo è partito verso le 20 da piazza Arbarello. Suppongo che la testa sia arrivata a destinazione verso le 21; suppongo perché la coda del corteo è arrivata a destinazione dopo le 22 e la gente in fondo ha avuto lo spazio di stare in piazza solo perché chi è arrivato prima stava già tornando a casa ed alcuni gruppi si sono spostati in piazza Palazzo di Città. Quest’anno si celebrava l’ottantesimo anniversario del 25 aprile 1945; gran parte dei testimoni diretti di quella straordinaria stagione ci stanno lasciando e l’infinita documentazione disponibile di quegli anni[1] ha una potenza immensamente minore della testimonianza diretta, lasciando spazio alla revisione ed alla riedizione aggiornata di quelle idee per cui i partigiani hanno deciso di cominciare la resistenza. Ho attraversato il corteo per tutto il suo percorso, in ogni caso non sono riuscito a vederne l’inizio ed essenzialmente quando sono arrivato in piazza Castello ho percorso soltanto quello che viene chiamato lo spezzone sociale che comunque considero più vitale perché guardo con interesse tutti coloro che cercano di attualizzare la resistenza dandogli nuove gambe e nuove teste, facendo breccia nelle coscienze dei giovani che, biograficamente, sono così lontani dalla Resistenza “originale”. Ammirevole da questo punto di vista il lavoro che diversi circoli ANPI stanno facendo localmente. Altri gruppi si ispirano agli ideali della resistenza trasportandoli negli scenari contemporanei; la situazione a Gaza ed in Cisgiordania si presta molto a questa attualizzazione per il parallelo tra “popoli che resistono e che scrivono la storia” ed infatti lo spezzone di Torino per Gaza era tra i più partecipati e le bandiere palestinesi numerosissime. Altra tematica presente nello spezzone sociale è quella della resistenza alla guerra ed al neo-militarismo europeo secondo il concetto che i partigiani hanno combattuto per cacciare fascismi e guerra al di fuori della storia e per evitare ai loro figli e nipoti di dover combattere ancora; in questo inquadramento hanno trovato spazio nel corteo tante bandiere della pace e altrettanti riferimenti negli striscioni. Tutte queste istanze trovano difficoltà a trovare spazi di espressione e rappresentatività nelle istituzioni e nei media, le cui belle e condivisibili parole spesso non corrispondono ad atti coerenti; da qui nasce il desiderio di alcuni di “occupare” il palco e gli scontri con le forze dell’ordine. [1] A Torino esiste il Museo diffuso della resistenza, che consiglio a tutti di visitare, in cui si cerca di rendere vivo questo ricordo con tutto i mezzi multimediali oggi disponibili (foto, video, audio) Giorgio Mancuso
Pensieri per aprile 2025
Una bella iniziativa, bellissimi interventi. Cose che avremmo perso se avessimo dovuto seguire le indicazioni del Governo per festeggiare gli 80 anni della Liberazione dal nazifascismo. Seguire le indicazioni poi di chi non ci ha aiutato a liberarci. Indicazioni che servivano ad altro e inopportune a ricordare Papa Francesco che ha esortato la sua gente a “agitarsi” e ribellarsi. Lui diceva: bisogna assumere la storia per non riprodurla. In queste settimane nelle tante e utili iniziative organizzate per l’80°della Liberazione sono emerse alcune relazioni tra la situazione di allora e quella attuale. Ne elenco tre. 1.     Il regime fascista decise di raccogliere un ingente finanziamento per costruire e comprare armi. La campagna oro per cannoni dove raccolsero gli averi della gente per recuperare risorse economiche.  Era il 1935, pochi anni dopo quelle armi vennero usate. Oggi l’Unione Europea chiede di raccogliere 800 miliardi per comprare e costruire armi. E una parte delle risorse sta discutendo di prenderle dai risparmi delle persone. Non c’è il rischio reale di una invasione russa a giustificarlo, esiste invece il rischio, come dicono diversi economisti europei, che una spesa così elevata in armi sarà efficiente solo se poi quello che si è prodotto viene utilizzato. 2.     La seconda relazione sono le condizioni di vita in peggioramento e le prospettive di futuro chiuse. L’Italia su 35 paesi europei nella misurazione della qualità della sanità è al 20° posto, ben lontana dai paesi sviluppati. Siamo gli ultimi, in fondo alla lista, per la spesa per l’istruzione. Siamo l’unico paese europeo dove il potere d’acquisto delle retribuzioni e delle pensioni è rimasto fermo a 17 anni fa. Siamo ultimi in Europa come percentuale di persone che hanno un lavoro, siamo al 67%, la media europea è del 75%. Settimana scorsa l’INPS ha dichiarato che il condono di Salvini e Meloni ha provocato un danno di 15 miliardi nel suo bilancio, per pagare le pensioni mancheranno 6 miliardi e mezzo che lo Stato dovrà fornire. Soldi delle tasse che però serviranno per le armi. Ora la minaccia e l’applicazione dei dazi statunitensi ridurrà il numero delle persone che lavorano e aumenterà il prezzo di prodotti indispensabili. Siamo il paese che ha ricevuto dall’ONU due avvisi con l’invito ad abrogare il recente decreto sicurezza perché include disposizioni non in linea con il diritto internazionale in materia di diritti umani. 3.     Il terzo richiamo parte dalle parole, recentemente ricordate, di Giovanni Bianchi sulla Resistenza a Sesto. Qua la Resistenza fu possibile per la formazione di un fortissimo  sentimento popolare di ostilità al nazifascismo e alla guerra, non ci fu solo la Resistenza armata ma ci fu anche il peso di una diffusa contrarietà al potere e alla situazione di allora e il contributo di una vigorosa e estesa solidarietà con chi si opponeva al regime. Le tante attività della Resistenza senza fucile. Anche oggi c’è questo sentimento, recenti indagini confermano che esiste un diffuso e importante giudizio popolare di ostilità alla guerra e all’aumento delle spese militari. Ci stanno preparando alla guerra. Pensate a quello a cui hanno tentato di abituarci. Iniziano tempo fa con la costruzione del nemico esterno: i migranti. C’è la normalizzazione della violenza contro di loro, del programmare per loro soprusi e morte. C’è la desiderata guerra in Ucraina che diventa lo strumento per l’impoverimento dell’Europa, il potenziamento del legame con gli USA, lo svuotamento di arsenali obsoleti  e la necessità di riempirli nuovamente con armi nuove, la propagazione della paura dell’invasore e la costruzione dell’eroe in divisa invincibile e immortale. C’è la guerra di Israele in Palestina e Medio Oriente. Con l’evidente mancato rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, la sfacciata esibizione della violenza e della sopraffazione, la descrizione di crimini ingiustificabili e la visione dell’orrore. Abbiamo esaurito le parole, comprese quelle più estreme e significative, per esprimere l’insopportabilità, l’indignazione e la condanna per quello che sta facendo Israele. L’Europa e gli Stati Uniti continuano a evitare di fermarlo.  Su questo raccolgono la misura della nostra reazione per capire se sono diventate normalità. C’è la costruzione della normale distrazione sulle altre guerre, ad esempio quella tremenda in Sudan. C’è la sperimentazione di crudeltà, di armi e tecnologie nuove, di metodi decisionali nuovi per compiere stragi. Servono armi, servono soldi per questo, un cappio economico che ci strozzerà. Per andare in guerra e per instaurare un regime repressivo servono condizioni di vita difficili e serve consenso. Le condizioni di vita difficili le hanno create. Per ora il consenso popolare non ce l’hanno. Le persone e la società civile per ora tengono, restano ostili alla possibilità di una guerra estesa e alla corsa al riarmo a discapito dei servizi sociali. Resistiamo. Resistiamo oggi come allora. Abbiamo perso un forte e autorevole compagno di cammino su questo tema, una voce che raccoglieva e portava un passo più avanti le nostre, spesso la sola che lo faceva, che gli dava risonanza e spessore. Una persona che sentivamo a fianco, dichiarante sulla Pace senza ambiguità. Abbiamo perso Papa Francesco. A maggior ragione dobbiamo resistere. Come scrive la Rete Pace e Disarmo: la Resistenza oggi passa dalla non violenza e la liberazione dal disarmo. Roberto Zanotto, Presidio Pace Sesto San Giovanni Redazione Italia
Il 25 aprile in Italia spiegato al resto del mondo
Forse non tutti sanno che il 25 aprile è una data fondamentale nel calendario italiano. Si festeggia la liberazione dal nazi-fascismo avvenuta nel 1945. Quella data in particolare segna l’insurrezione definitiva che avvenne a Milano, con la presa della città da parte delle brigate partigiane. Quel giorno è festa nazionale, vi sono manifestazioni in tutta Italia e, da sempre, quella più importante è a Milano. Già nel passato in momenti delicati della storia di questo Paese, il 25 aprile ha fatto vedere a tutti e tutte la forza del popolo italiano memore di quella resistenza dalla quale nacque la Costituzione, una tra le più belle al mondo (mai applicata fino in fondo…). Quest’anno ricorreva l’80esimo anniversario, con il governo di destra, capeggiato da Giorgia Meloni, che macina leggi liberticide volte a colpire ogni forma di dissenso. Manifestazioni, presidi, occupazioni, sostegno alle lotte, saranno da qui in avanti puniti con anni di carcere, mentre i diritti alla salute, alla casa, alla giusta informazione, al lavoro e all’istruzione di qualità vengono sempre più ridotti. In questi ultimi mesi si sono moltiplicate le iniziative contro il decreto-legge che stabilisce queste nuove norme che preoccupano tantissimi, vecchi attivisti, ma soprattutto giovani. A tutto ciò si somma la stretta contro gli immigrati, la terribile novità di due centri di detenzione per immigrati aperti in Albania, oltre ai 10 presenti sul suolo italiano, centri giudicati peggiori delle carceri e nei quali si finisce solo perché in assenza del permesso di soggiorno. Insomma, il vento di destra, alimentato dalla stragrande parte dei media principali e dalla debolezza dei partiti di opposizione e dei sindacati storici, ha fatto scendere in piazza centinaia di migliaia di italiani ed italiane. A tutto questo si aggiunge la fondamentale questione palestinese, dove ancora una volta si vede lo scartamento tra il governo e una grandissima parte degli italiani, fortemente contrari ai massacri in Palestina, a tutte le guerre, a una corsa agli armamenti che fa davvero paura e favorevoli invece a una pace con giustizia sociale, ovunque nel mondo. E poi c’è la “vicinanza” tra il nostro governo e quello di Trump, oltre che di Orban e, (perché no?) di Putin, che fa venire i brividi. La morte di Papa Francesco ha tolto un’importantissima voce che si alzava contro i potenti del mondo, contro la corsa agli armamenti, contro le ingiustizie crescenti, in favore dei popoli che resistono alla violenza del potere, di coloro che si battono per la salvezza del pianeta. Questa voce mancherà ovunque, ma in primis in Italia. Il governo italiano, con la scusa dei cinque giorni di lutto per la morte di Papa Francesco, ha cercato di “attutire” la forza e la vivacità delle manifestazioni per il 25 aprile, chiedendo “sobrietà”. Invece queste sono state più partecipate del solito, più forti e determinate. A Milano hanno sfilato per ore circa 150mila persone, in tante altre città si è manifestato. Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha parlato in piazza a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, invitando a non abbassare la guardia contro i fascismi, ricordando la centralità della Resistenza nella storia italiana e dei frutti che diede per la democrazia e la libertà in questo Paese. Come è avvenuto altre volte, il 25 aprile è stato un’occasione perché sfilassero nei cortei altre lotte di resistenza internazionali: da quella palestinese, a quella ucraina, kurda, turca (contro un governo che ha incarcerato il sindaco di Istambul, principale candidato a scalzare Erdogan), a quelle sudamericane che denunciano le ingiustizie nei rispettivi Paesi. Questo articolo è stato scritto per coloro che vedono l’Italia da fuori e rischiano di avere un quadro incompleto della realtà sfaccettata di un Paese che grida ancora forte: “Ora e sempre Resistenza”. Andrea De Lotto
La festa della ” Liberazione” a Firenze: le foto
Come da tradizione il 25 aprile è per Firenze giorno della festa della “Liberazione”, non solo come celebrazione della Resistenza Partigiana al nazifascismo, ma come una festa popolare : un momento gioioso di primavera  dopo un lungo inverno. Così non certo sobriamente  come avrebbero voluto le istituzioni , in due piazze cittadine in Piazza Poggi  ai piedi del colle su cui sovrasta il Piazzale Michelangelo, e successivamente  in Piazza Santo Spirito in Oltrarno luogo simbolo della resistenza popolare antifascista, si è radunata una folla soprattutto giovane , straordinariamente  numerosa. Pranzo all’aperto organizzata da una delle ultime Case del Popolo rimaste nel centro storico cittadino , il “Circolino” di San Niccolò, con vino rosso ( in abbondanza)   e gente stesa sui prati  sotto un sole caldo  che a tratti  appariva fra le nuvole dense di una giornata incerta ma che ha comunque graziato   i numerosi eventi    istituzionali e non che hanno caratterizzato la giornata. Piazza Santo Spirito  in Oltrarno con  i banchini degli Antifascisti stracolma,  è stata raggiunta nel pomeriggio dal corteo che  è partito da Piazza Poggi attraversando  tutto l’Oltrarno,  per poi proseguire per rendere omaggio ai caduti Partigiani in Piazza Tasso . Un corteo  inevitabimente aperto dallo striscione che ricorda come a Gaza prosegue  una nuova Resistenza.  A distanza di ottanta anni da quando il mondo pensava  di aver risolto il problema dei nazionalismi competitivi ed aver finalmente imposto la pace e la cooperazione, i tempi non sono cambiati e il suprematismo occidentale  un fascismo più subdolo e pervasivo sta nuovamente minacciando l’umanità. Foto Cesare Dagliana Fi 25 aprile Fi 25 aprile Fi 25 aprile Fi 25 aprile Fi 25 aprile Fi 25 aprile Fi 25 aprile Fi 25 aprile Fi 25 aprile Fi 25 aprile   Redazione Toscana