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Discutere e agire con l’intelligenza del cuore
Ho letto il libro “Gandhi ad Auschwitz” di Antonio Minaldi pochi giorni dopo aver letto “La banalità del male” di Hannah Arendt, riflettendo attraverso l’uno e l’altro sul genocidio nazista degli ebrei e sul genocidio del popolo palestinese ad opera del governo israeliano, sulla violenza che inonda un intero popolo, con il sonno della ragione e il rifugio nella follia di un solo uomo che prende il posto della coscienza delle persone: non solo di quelle semplici e ingenue, ma anche di intellettuali e studiosi con posti di responsabilità. Allora come ora, la violenza penetra e infiamma fino a lanciarsi nella guerra, immaginando nuove prospettive del mondo. Minaldi parla in prima persona da quella prospettiva dove non c’è desiderio di dominio sugli altri, ma voglia di rivoluzione, del cambiamento “ora e subito”. E per la rivoluzione dovremmo anche essere disposti a pagare un prezzo di sangue, purché essa sia realizzata al più presto -e comunque nell’arco della nostra vita- liberando il mondo da ogni ingiustizia. Questo prezzo è stato pagato per la rivoluzione francese, per i moti rivoluzionari dell’Ottocento, per la Comune di Parigi, e poi ancora per la Rivoluzione di Ottobre e quella Cinese, fine a quella Cubana e così sarà ancora. Io, se avessi potuto decidere, avrei voluto vivere in uno di quei tempi, anziché penare ora nel tempo del declino del capitalismo con scenari di guerra e senza una via di uscita come quella che pensammo di avere nel ’68. Minaldi, tuttavia, si chiede se è bene domandare a ognuno di essere pronto a rinunciare alla propria vita pur di fare la rivoluzione. E vengono avanti i suoi dubbi. Anche io cominciai a domandarmi, appena quattordicenne nel 1968, perché, se ci fosse stata una rivoluzione vincente, alcuni combattenti non avrebbero potuto vedere il trionfo dei loro ideali e non avrebbero passato il resto della loro in quella società giusta e ugualitaria che avevano contribuito a creare. Mi sono tornati alla mente alcuni esempi, e il più vivo di tutti riguarda “el Vaquerito” un adolescente pastore di mucche che aveva seguito sin dall’inizio il Che fino a Santa Clara. E lì, quando ormai l’esercito di Fulgentio Batista si era arreso, cercò di scovare alcuni cecchini che continuavano a sparare dall’alto di un campanile. Stando dietro un muro, “el Vaquerito” individuò il luogo da cui provenivano gli spari e sollevò un attimo la testa per vedere in faccia chi sparava. Questo gli fu fatale perché in quell’attimo il cecchino lo colpì in fronte. El Vaquerito morì all’istante. E nella sua giovane vita non vide i cambiamenti di Cuba rivoluzionaria. La sua vita se ne andò per la canna di un fucile e l’universo cadde nel nulla con tutte le stelle, il sole e la luna. Molti tra i filosofi da me studiati al liceo dicevano che la vita, l’universo, Dio stesso, esistono se qualcuno li avverte, li vede, li percepisce. Ma se nessuno sente, vede, percepisce, tutto il creato è come se non fosse mai esistito perché l’universo è in noi. E gli esempi potrebbero continuare: con la foto del miliziano che cade per difendere la repubblica spagnola, e perfino con il computer umanizzato di “2001 odissea nello spazio”. Perciò oggi sono d’accordo Minaldi: una rivoluzione è più giusta se fa meno vittime. E non solo fra i rivoluzionari, ma anche fra gli avversari: perché questi potenzialmente passerebbero dalla parte dei rivoluzionari se appena riconoscessero i benefici della rivoluzione. E se negli anni ’60 e ’70, con un certo romanticismo, approvavamo l’idea che per la rivoluzione un prezzo di sangue avremmo potuto versarlo, dopo il riflusso degli anni ’80 sempre meno sono quelli che vorrebbero stare nelle file degli immolati. E dunque abbiamo cominciato a credere in una rivoluzione che cambi il mondo per tutti, senza sacrificare alcuno. Ci siamo ricordati allora della “Rivoluzione dei figli dei fiori”, della “Rivoluzione dei Garofani” nel Portogallo del 1974, e “dei venti rivoluzionari” in America Latina con i governi eletti dal popolo, e del movimento zapatista. Antonio Minaldi arriva a immaginare Gandhi disteso sui binari che portavano ad Auschwitz come l’inizio di una rivoluzione pacifista. La realtà è più fosca, però. E la lunga cronaca del processo ad Eichmann nel libro di Arendt si conclude con tristi considerazioni. Da dove sorge l’immensa violenza della dittatura nazista, e poi: il popolo tedesco è più colpevole degli altri popoli? Oggi dobbiamo dar ragione a quelli che con disincanto rispondevano che la follia nazista poteva ripetersi ancora: perché oggi abbiamo sotto gli occhi il genocidio del popolo palestinese voluto dal governo, dall’esercito e dai coloni israeliani. In un paese che è considerato una democrazia occidentale, la maggioranza degli elettori ha votato Netanyahu, ora ricercato dalla Corte Penale Internazionale come criminale di guerra. Non è solo colpa del funzionamento delle democrazie occidentali dove i cittadini hanno parola una volta ogni 5 anni e non possono mandare a casa anzitempo chi tradisce la loro fiducia. Alzando lo sguardo, scopriamo che la violenza della guerra genocida alligna nel desiderio forte di eliminare quelli che non sono della nostra razza, della nostra religione, delle nostre tradizioni. Lo sterminio degli ebrei maturò nel progetto imperialista e colonialista dei nazisti, che arrivò a contagiare le stesse vittime del popolo ebraico che fornivano ad Eichmann gli elenchi delle persone da trasferire nei campi di concentramento, anche quando fu chiaro che non di trasferimento si trattava, ma di massacro. Eichmann era davvero un uomo banale come ce ne sono tanti anche oggi. Eseguiva gli ordini impartiti mandando a morire anche gli ebrei di cui era stato fino a poco prima amico e conoscente. Al suo processo disse di non essere mai stato attraversato da dubbi nella sua coscienza, perché poneva ogni fede in Hitler, al quale aveva giurato, come tutti gli ufficiali tedeschi, fedeltà: non alla nazione, dunque, non allo stato con le sue leggi, non al popolo, ma fedeltà ad un uomo soltanto: Adolf Hitler. Il processo ad Adolf Eichmann giunse 15 anni dopo quello di Norimberga. Entrambi i processi sembravano voler dare al mondo la speranza che mai più una guerra avrebbe portato al genocidio di un popolo. Questa speranza fu messa nelle mani dell’O.N.U. e produsse trattati internazionali che impegnavano la maggior parte dei paesi del mondo. Questa speranza io l’ho pure sentita mia, almeno fino a quando, scomparsa dalla scena mondiale l’U.R.S.S., il dominio della politica internazionale è passato nelle mani degli USA che oggi parlano al mondo con la voce di Trump.   Ed infatti forzatamente l’ONU è stata messa all’angolo per far posto a Trump e ai suoi sodali, primo fra tutti Netanyahu. Ho visto in TV i servizi sulla fame a Gaza trasmessi da “PresaDiretta”. Ho sentito lo stesso sgomento viscerale, che sale fino alla mente e che sentivo già leggendo il processo ad Eichmannn. Le interviste trasmesse mostrano come gli uomini della Gaza Humanitarian Foundation, siano stati deliberatamente mandati ad uccidere i palestinesi in cerca di cibo. L’organizzazione G.H.F. è composta da contractors e criminali, e viene finanziata dal governo americano, e da gruppi economici che restano nell’ombra. Essa è al servizio di ogni e qualsiasi governo pronto a pagare. Di facciata è una organizzazione no- profit ma i suoi “lavoratori” guadagnano 30.000 euro al mese. Con il consenso degli USA, la G.H.F. è stata assunta a contratto dal governo israeliano con lo scopo principale di lasciare l’ONU fuori dalla distribuzione del cibo. La Gaza Humanitarian Foundation considera il governo israeliano suo datore di lavoro e cliente e, come si sa, il cliente ha sempre ragione: intendendo, qui, dire che quando l’esercito israeliano lo chiede, gli operatori della GHF devono aprire il fuoco sui palestinesi che cercano il cibo. Con Trump, Netanyahu (e anche con Putin) siamo giunti a un punto di non-ritorno per il diritto internazionale e per l’O.N.U. perché l’uno e l’altro non sono più garanzia per nessuno. E i governi occidentali stanno sempre più preparandosi alla guerra prossima ventura, E.U. in testa. E noi che cerchiamo di far sentire la voce della ragione, che ostinatamente discutiamo sempre più di pace, che continuiamo a sperare -malgrado ogni altra speranza- in un mondo diverso possibile -come si diceva a Porto Alegre- che possiamo fare? Col cuore e con l’intelligenza, dobbiamo credere e puntare alla costruzione di un ordinamento internazionale condiviso e partecipato dai popoli e dai cittadini. L’assemblea O.N.U. può essere ancora una buona occasione. Ma deve avere il potere di fermare i conflitti, gli assalti, le occupazioni militari, riaffermando il diritto fra i popoli, fondato sulla cooperazione, sulla fratellanza dei popoli, sull’internazionalismo. E certamente GLOBAL SUMUD FLOTTILLA è un raggio di sole che fa sperare nel possibile incontro di intenti pacifisti ed internazionalistici. Al contempo, dobbiamo impedire l’affermarsi di un ordine internazionale fondato sul protagonismo dei capi di stato e di governo, personaggi corrotti e votati all’ arricchimento proprio e delle proprie cricche. Dobbiamo riprendere la DISCUSSIONE là dove l’avevamo interrotta quando andavamo ai forum mondiali (il libro di Minaldi è una buona opportunità). Dobbiamo in tanti scrivere e non solo: fare anche teatro, musica, pittura per diffondere le idee contro la guerra. Penso che, per la pace, è anzitutto fondamentale l’educazione e la crescita nelle scuole e in ogni altro luogo in cui i giovani si muovono. E per ciò non è un compito affidato solo agli insegnanti, anche se la scuola resta il luogo privilegiato per l’educazione alla pace. Nel frattempo dobbiamo prevenire con la forza della ragione che giungano a scuola voci inneggianti alla guerra, al nazionalismo, al patriottismo, al razzismo, anche quando si camuffano con la difesa necessaria.     Redazione Palermo
Una lettura da vecchio sindacalista sul movimento pro-Palestina
Sulle manifestazioni pro Palestina riceviamo e pubblichiamo da Savino Pezzotta, già Segretario generale Cisl nazionale Di fronte al tentativo di alcuni giornali italiani di sminuire la valenza sociale dello sciopero pro-Palestina e dell’iniziativa della Flottiglia — mentre altri, al contrario, ne esaltano eccessivamente il significato — provo a offrirne una mia interpretazione. Ho visto e interpretato lo sciopero generale e la navigazione della flottiglia come un evento che rompe il silenzio e l’indifferenza. Ora tutti sono obbligati a parlare e a scrivere delle ragioni che hanno provocato questi atti — che li si condivida o li si critichi —: la condizione nella quale il governo israeliano ha costretto il popolo palestinese. Lo sciopero e l’azione della Flottiglia hanno prodotto una nuova rappresentazione della realtà, costringendo l’opinione pubblica a prendere atto della tragedia palestinese. È certamente una buona notizia che Hamas abbia accettato il piano di pace statunitense. Cessare i bombardamenti, liberare gli ostaggi , non avere altri morti è una buona notizia che va oltre le questioni politiche. Tuttavia, avere a cuore il destino di un popolo martoriato significa anche riconoscere la sua sofferenza concreta: i morti, i feriti, i mutilati, le case distrutte, gli sfollati senza rifugio, i servizi sanitari devastati, la mancanza di pane e di acqua, l’incertezza del domani. Bisogna però essere onesti: sappiamo per esperienza che le manifestazioni, gli scioperi e perfino le azioni nonviolente — come quella della Flottiglia — non possono essere valutati sui risultati immediati, ma sulla loro potenzialità generativa. Queste iniziative mostrano che la storia cambia quando parole e gesti prima ignorati, marginalizzati o normalizzati diventano conoscenza pubblica, introducendo verità e speranza. Sono atti politici che nascono al di fuori della politica istituzionalizzata, delle sue regole e del suo conformismo. Ci troviamo davanti ad azioni che mutano la narrazione collettiva e contribuiscono alla formazione di un linguaggio condiviso, capace di incrinare i racconti normalizzatori e di spingere a interrogarsi, reinterpretare codici e istituzioni. Mostrano che la società può reinventarsi dal basso. Non c’è la produzione di programmi o progetti politici stabili: aprono spazi di libertà e di desiderio, alimentando una memoria delle possibilità che può orientare i nostri passi in questi tempi difficili. Scendere in piazza, manifestare, navigare contro un blocco, scioperare — come anche pregare insieme, indicando obiettivi e desideri comuni — aiuta a far crescere una visione simbolica e una consapevolezza collettiva, rompendo il silenzio e le narrazioni dominanti. Quelle di questi giorni sono state grandi manifestazioni nonviolente. I pochi episodi di estremismo violento e irresponsabile non ne inficiano la sostanza: nel loro concreto svolgersi, queste manifestazioni hanno respinto ogni ricorso alla violenza. Non possiamo giudicarle soltanto dai risultati immediati: ciò che conta è la loro forza generativa, la capacità di far emergere un sentire scomodo ma vivo nella nostra società, che — nonostante difficoltà e condizionamenti — continua ad aspirare alla libertà e a credere nella solidarietà. Sono convinto che la storia e le società non cambino dall’alto con atti di Governo , né attraverso l’uso strumentale dei mezzi di comunicazione o il potere pervasivo delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale, ma quando la parola nascosta nel seno della società emerge, si manifesta e diventa gesto pubblico e coscienza responsabile e personale . Va sottolineato che erano presenti molti giovani e tante persone comuni, forse alla loro prima esperienza di partecipazione ad una iniziativa indetta da un sindacato. Con la loro presenza hanno incrinato la pervasività del linguaggio conformista di politici, dei media e dei social, scegliendo di parlare con la propria voce. Non siamo di fronte a un programma politico definito, ma a un moto di indignazione che si è trasformato in un atto di libertà, nel desiderio di esprimersi, di essere ascoltati, di affermare con la propria presenza: «Noi ci siamo». La mia lunga esperienza di militante e dirigente sindacale mi dice che probabilmente seguirà un processo di normalizzazione. Tuttavia, resto convinto che rimarrà un segno profondo: la scoperta che scendere in piazza, scioperare o navigare per gli altri, per chi non può farlo, e non solo per se stessi, può aprire spazi nuovi per tutti. Unico rammarico: l’assenza del mio sindacato, la CISL. Redazione Italia
Bloccare il genocidio, non la Flotilla. Sciopero!
A seguito del blocco delle navi della Global Sumud Flotilla, messo in atto ieri sera dalla marina israeliana, USB, CUB, SGB e CGIL hanno proclamato lo sciopero generale, sovrapponendolo a quello già in calendario di SI Cobas, che per il personale ferroviario è previsto dalle 0.01 alle 21.00 di domani 3 ottobre 2025. Visto il grave atto compiuto da Israele, che si aggiunge al genocidio in atto contro il popolo palestinese (al Jazeera, citando fonti ospedaliere, ha dato notizia di altri 11 palestinesi uccisi questa mattina, tra i quali un bambino ucciso da un drone), riteniamo indispensabile che tutti i lavoratori italiani aderiscano in massa all’agitazione, come messaggio universale di pace. La Redazione L'articolo Bloccare il genocidio, non la Flotilla. Sciopero! proviene da Ancora in Marcia!.
La Global Sumud Flottilla è a rischio. Messaggio urgente per tutti gli uomini e le donne di buona volontà da Stefano Bertoldi, comandante della barca a vela Zefiro
Stanotte abbiamo ricevuto questo drammatico video di Stefano Bertoldi, nostro collaboratore e comandante di una delle barche a vela della Global Sumud Flotilla. Riportiamo di seguito la trascrizione del suo appello, con la preghiera di massima diffusione. Sono Stefano Bertoldi, comandante della barca a vela Zefiro, quella maggiormente colpita dagli attacchi di droni delle nottate scorse. Qui dietro di me ieri sera sono arrivati due miei colleghi, Raffaello e Cesare, con la barca Luna Park, che forse potete vedere dal tracking della Global Sumud Flotilla. Ebbene, mi dispiace svegliarvi così presto, mi dispiace che oggi è domenica e forse volevamo tutti un po’ riposarci, ma la flottiglia stanotte è partita. Più o meno 50 barche sono partite alla volta di Gaza. Ho analizzato la situazione geopolitica internazionale, ho analizzato l’atteggiamento del nostro governo, irresponsabile a partire da Giorgia Meloni e dal nostro Ministro della Difesa Crosetto. Non avremo nessun tipo di difesa, non saremo scortati. Speriamo che la Spagna faccia il suo e non faccia come Crosetto, che ha annunciato appunto che eventualmente raccoglierà e soccorrerà i feriti. Allora la flottiglia, ascoltatemi bene, in questo momento è a rischio. L’avvertimento che ci hanno dato l’altro giorno è chiaro: la mia e l’altra barca sono tornate indietro pesantemente colpite dai droni. La barca Zefiro in particolare è stata colpita in maniera chirurgica, in quanto gli israeliani molto probabilmente sapevano che questa barca aveva un albero che poteva reggere il colpo che abbiamo ricevuto e l’avvertimento è stato chiaro: se questo tipo di attacco –  e qui parlo ai velisti che mi ascoltano, a chiunque conosce un po’ di vela –  ripeto, se questo tipo di attacco potente, che ci ha scosso tutti quanti, venisse fatto su altre barche, ce ne sono tantissime, il cui albero è semplicemente appoggiato sulla tuga, cioè sulla parte superiore dell’imbarcazione, gli alberi verrebbero giù. Adesso ci sono soltanto due persone, forse tre, di vedetta per la navigazione notturna, ma già ho letto dai messaggi che si stanno scambiando i miei colleghi in navigazione… Sono le 4:30 ora locale italiana, 5:30 ora greca … Ebbene, ho letto dai messaggi che alcune barche sono scortate da dei droni, ovviamente sono droni di controllo israeliani, forse ci sarà anche qualche drone di controllo di Frontex, o forse anche della Grecia. Comunque la questione è questa: il prossimo attacco, se verrà fatto e purtroppo i miei segnali dicono che probabilmente verrà fatto, sarà micidiale, nel senso che è molto probabile che questa volta ci saranno feriti gravi e anche dei morti. Vi prego, fate girare questo messaggio. Il 22 settembre non deve rimanere un caso isolato in quanto a manifestazioni e coinvolgimento della popolazione. Scendiamo in piazza. Lo so, il tempo è poco. Ci sono partiti e sindacati che si stanno aggregando, va bene tutto. Non siamo intransigenti su questo. Sappiamo che molti si sono svegliati da poco, ma come diciamo in Italia tutto fa brodo. Mi raccomando, impegniamoci, ci sono dei nostri amici, dei nostri cari amici a bordo. Vogliamo che le loro vite siano salvaguardate. Non fidiamoci dei nostri governi, non faranno niente per noi.  E’ l’ora del popolo, è l’ora delle persone, anche quelle meno impegnate politicamente, anche quelle più scettiche su questa missione. Ricordatevi, la nostra non è una missione umanitaria per portare  pochi pacchi alla popolazione palestinese di Gaza. La nostra è una missione politica. L’assedio deve finire, il genocidio deve finire e soprattutto la vita degli attivisti pacifisti non armati deve essere tutelata. Mi raccomando, organizziamoci, chiamiamo tutti quelli che possiamo e scendiamo in piazza il più presto possibile. Lo so, oggi è domenica, ma forse è il giorno buono per organizzarci per il secondo lunedì di battaglia nelle strade, ovviamente in maniera nonviolenta, se no diamo adito a tutte le solite critiche che ogni volta avvengono in occasione di manifestazioni. Lo so, siamo tutti arrabbiati, lo so, è un modello economico, socio-economico di merda, di cui Israele è il rappresentante massimo e anche gli Stati Uniti, con quel folle che hanno alla loro guida. Scendiamo in piazza, vi prego, ascoltatemi. Per fortuna siamo stati indenni in tutti questi giorni che eravamo fermi qui in Grecia, per un attacco che ci ha in qualche modo bloccato pesantemente. Scendiamo in piazza, chiamiamo chi potete chiamare onestamente che può darci una mano. Ci sono i nostri fratelli, ci sono i nostri figli, ci sono i nostri amici, colleghi skipper, marinai in buona fede, nonviolenti che fanno tutto questo per noi, per la nostra democrazia ormai sotterrata… possiamo chiamarla democratura… sotterrata da governi irresponsabili che per i loro legami con Israele, per il loro portafoglio non ci aiuteranno. Conto su di voi, conto sul popolo che scenderà in piazza. Grazie in anticipo per quello che farete.     Redazione Italia