Tag - referendum

Lezioni da imparare dal referendum dell’8 e 9 giugno
Le notizie corrono veloci e ci sembra già troppo tardi per scrivere del Referendum. E anche se a due settimane dal voto, con l’attacco di Israele in Iran, il genocidio che non si ferma a Gaza e gli Usa sull’orlo della guerra civile, sembra velleitario domandarsi che cosa non abbia funzionato, allo stesso tempo ci sembra necessario. Il referendum è un grande strumento in mano alla cittadinanza, un modo per imporre nella discussione pubblica grandi temi che la politica partitica e istituzionale continua a ignorare, per cercare di cambiare direttamente le leggi. Non possiamo liquidare così facilmente questa sconfitta, anche perché ha molto da dirci sulle capacità di mobilitazione nel campo della sinistra.  I quesiti referendari erano cinque, i primi quattro su tutele crescenti, licenziamenti nelle piccole imprese, contratti a termine, infortuni sul lavoro proposti dalla CGIL, che ha raccolto le firme, formato il comitato referendario e gestito la campagna referendaria, una battaglia tutta interna tra sindacato e sinistra del PD contro chi nel 2015 propose il Jobs Act. Parallelamente, sono state raccolte le firme per proporre un referendum sull’abrogazione parziale della legge sulla cittadinanza, da un comitato composito di associazioni, dopo decenni di false promesse da parte di tutti i governi di turno. Mentre il quesito sull’autonomia differenziata era stato ritenuto inammissibile mesi fa dalla Corte costituzionale.. NON RAGGIUNGEREMO MAI IL QUORUM Prima grande questione: entrambi i comitati referendari non hanno mai pensato di raggiungere il quorum. E nonostante questo non fosse mai esplicitato in interviste o dichiarazioni pubbliche era una certezza largamente discussa tra le chiacchiere informali negli eventi o dei (pochi) volantinaggi. Ma in che modo si può organizzare una campagna referendaria vincente se si è intimamente convinti di perdere? > Ecco, questa è la prima lezione da imparare, dobbiamo ritornare a credere di > poter vincere alle urne, come nelle altre battaglie che portiamo avanti e, se > lo pensiamo impossibile, significa che dobbiamo cambiare strategia, e tentare > altre strade prima del voto.  Evidentemente la storia delle ultime campagne referendarie abrogative non gioca a favore dei SÌ. I referendum proposti dalla Lega sulla giustizia nel 2022 non superarono il 20% di partecipazione e quello sulle trivelle si attestò intorno al 30%. Eppure i due referendum confermativi delle riforme costituzionali del 2016 e del 2020 hanno entrambi superato il quorum (che pure non era necessario in quei casi), nel primo vinse il NO alla riforma costituzionale proposta da Renzi, e il SÌ al taglio dei seggi in Parlamento. In ogni caso, nel nostro Paese, l’astensione è sempre più alta e preoccupante: alle politiche del 2018 andarono a votare quasi il 73% degli aventi diritto e nel 2022 neanche il 64%, in meno di cinque anni più di 4 milioni e mezzo di votanti non sono tornati alle urne. E nelle elezioni europee, amministrative e regionali le percentuali sono anche peggiori. > Ma, seppur l’astensionismo è un fenomeno di lungo periodo e va a braccetto con > la crisi della democrazia rappresentativa in tutta Europa, le ultime elezioni > in Francia e in Germania ci ricordano che quando la competizione elettorale è > percepita come importante e il proprio voto viene considerato come decisivo, > le persone tornano al voto e decidono anche di votare a sinistra.  E questo è successo anche nel voto ai referendum in Italia: nel 2020 più del 50% degli aventi diritto è andato a votare, in un referendum in cui non c’era neanche bisogno del quorum, così come nel 2016 più del 64%, e nel 2011 più del 54%. Quindi, le campagne referendarie si possono ancora vincere, ma il voto deve essere percepito come necessario, decisivo, importante. Dal “tanto non cambia niente” al “il mio voto conta e se non vado a votare sarà anche peggio”.  LA CAMPAGNA REFERENDARIA  I giorni precedenti e successivi al voto sono stati attraversati da un dibattito – non del tutto nuovo –  sull’abolizione del quorum, e il 5 giugno è stata anche presentata dal Comitato “Basta quorum! Cittadini per la democrazia”, un’ iniziativa di legge popolare da parte di un gruppo di cittadini e cittadine vicine al Partito Radicale. Dall’altro lato, Forza Italia e Noi Moderati hanno molto insistito su un’altra riforma, l’aumento del numero delle firme, convinti che la possibilità della firma digitale abbia reso troppo facile la presentazione di quesiti referendari.    La rocambolesca raccolta firme del Comitato referendario per la cittadinanza, il cui sito ha subito vari attacchi informatici i giorni precedenti la chiusura della raccolta firme per poi riuscire a raggiungere e superare il numero, con più di 637.487 firme raccolte solo digitalmente, ci spiega come non sia così semplice. La raccolta firme digitale necessità di visibilità, il comitato in quel caso ha puntato su una campagna online molto efficace, composta da diverse voci di influencer e content creator e una chiara call to action. Eppure la stessa capacità non è stata dimostrata in seguito per la costruzione della campagna referendaria.  > Lo sdoppiamento dei comitati referendari, per quanto necessario da un punto di > visto normativo e funzionale in un primo momento, non si è trasformato in uno > strumento efficace, ha raddoppiato le campagne referendarie, i riferimenti, il > materiale e non sempre i quesiti sono stati pubblicizzati tutti insieme. Inoltre, avendo raccolto tutte le firme online – e non avendo dietro la struttura organizzativa della CGIL –il comitato sulla cittadinanza si è trovato sguarnito di gruppi territoriali che, non essendosi formati precedentemente per la raccolta firme, hanno lasciato i territori più periferici sguarniti di materiale, informazione e riferimenti, che si potevano trovare solo online, ma non materialmente in sedi locali.  > E quindi la seconda lezione da imparare è che le campagne elettorali e > referendarie non si possono vincere solo online, è necessario un doppio sforzo > online e offline, con un minuzioso lavoro territoriale. Abbiamo bisogno di > tornare ad avere spazi fisici dove prendere il materiale, volantinaggi nei > quartieri periferici, banchetti nelle province e nelle zone interne. Tornare a parlare con le persone che non la pensano come noi, con chi ha perso completamente la fiducia, con chi pensa che il voto sia inutile. Per fare questo c’è bisogno di lavorare in rete: associazioni, partiti, sindacati, collettivi, gruppi informali, assemblee, come fu per il referendum per l’acqua, i cui comitati lavorarono per anni prima e dopo il voto. E questo vale anche per il comitato referendario sul lavoro, neanche il più grande sindacato italiano è oggi autosufficiente per vincere un referendum.  Dati ministero degli Interni LE FRATTURE POLITICHE E SOCIALI EVIDENZIATE DAL VOTO  In questo referendum è andato a votare il 30,58% degli aventi diritto, non dissimile da quanti andarono a votare contro le trivelle. Ma con variazioni importanti nei vari territori.  Nel 1970 il politologo norvegese Stein Rokkan individuò le fratture sociali (cleaveges) alla base della formazione dei moderni partiti politici. Alcune di quelle fratture sono ancora evidenti e questo voto le conferma, altre sono nuove e stanno emergendo in questi ultimi anni e sono alla base della svolta reazionaria e autoritaria delle società occidentali.  > La prima frattura, individuata già da Rokkan, è quella tra centro e periferia, > cioè tra i territori centrali nella formazione dello Stato e quelli > periferici. Guardando ai dati vediamo subito che le città hanno votato più dei > piccoli centri e piccoli comuni. Secondo i dati dell’Istituto Cattaneo, nei > comuni con più di 350mila abitanti hanno votato il 37% di persone con diritto > di voto e nei comuni con meno di 15.000 abitanti il 28%.  A questa frattura, aggiungiamo la frattura tra Nord e Sud, creatasi con la formazione dello Stato italiano. Anche in questo voto, si è andati a votare generalmente di più nelle regioni del Nord che nel Sud, anche se è il Trentino Alto Adige la regione dove si è votato meno (22,7%), seguito da Sicilia (23,1%), Calabria (23,81%), e Veneto (26,21%), mentre trainano il voto le regioni storicamente rosse la Toscana (39,09) e l’Emilia Romagna (38,1%), comunque lontane dal quorum. E anche per ciò che riguarda i grandi centri urbani, votano più quelli del Nord, che del Sud. La provincia con l’affluenza più alta è Firenze (46,0%), seguita da Torino (39,3%), Milano (35,4%), Roma (34,0%) e Napoli (31,8%). Questa divisione tra territori centrali e periferici, città e campagne, zone centrali e territori interni è stata una questione centrale in tutte le elezioni degli ultimi anni: negli Stati uniti tra il voto delle grandi città urbane e degli Stati interni, in Francia tra le città e le campagne, in Germania tra Est e Ovest. > Una frattura tra chi “ha vinto” e “chi ha perso” dal processo di > globalizzazione, i territori de-industrializzati, le campagne sempre più > spopolate, le grandi periferie marginalizzate nei grandi centri urbani, una > popolazione che si sente sola, isolata, derisa, poco istruita e sempre più > povera, e che vota sempre più a destra.  Quindi, sotto questo punto di vista, il voto non è disallineato con le ultime elezioni politiche: chi non ha votato alle scorse elezioni non è tornato a votare, dove si è votato più a destra le persone non sono andate a votare, hanno votato quanti avevano votato il “campo largo” della sinistra, ma non sempre 5 SÌ.  Dati ministero degli Interni LA DIFFERENZA TRA I PRIMI QUATTRO E IL QUINTO QUESITO  Analizzando quel 30% dei voti, emerge un altro dato sconfortante: tra i circa 14 milioni di votanti, più o meno 12 milioni hanno votato SÌ ai primi cinque quesiti (con lievi differenze) e solo 9 milioni hanno votato SÌ al quesito sulla cittadinanza. Quindi, il 30,51% delle persone che si sono recate alle urne hanno votato NO alla riforma della legge 91/1992 sulla cittadinanza.  Anche qui vediamo come sono i centro città ad aver votato più SÌ al quinto quesito: nel centro città di Milano, nella zona ztl, hanno votato più SÌ al quinto quesito che agli altri quattro sul lavoro, ad esempio nella circoscrizione dei Giardini di Porta Venezia si segna una differenza del 21% tra chi ha votato SÌ al quinto quesito sulla cittadinanza e NO al primo quesito sulle tutele crescenti, ma con un’affluenza al voto bassissima (17%). > La situazione si ribalta se invece si va nelle periferie della città e nella > sezione di Lambrate – Ortica la differenza tra chi ha votato più SÌ al primo > quesito e NO al quinto è del 28%, con un’affluenza al voto molto più alta > (42%), ma in altre periferie della città come Quarto Oggiaro l’affluenza è > molto più bassa (26,9%).  Anche a Torino le zone ricche del centro hanno votato più al referendum sulla cittadinanza che a quello sul lavoro, come a Piazza d’Armi, corso Cairoli, e anche altre zone più residenziali come Parco della Rimembranza dove la differenza tra chi ha votato SÌ al quinto quesito e NO al primo è del 12,6%, con un’affluenza al voto del 30%. E anche qui se andiamo nella periferia la situazione si ribalta, ad esempio a Mirafiori-città giardino ha votato il 37% delle persone e la differenze tra i SÌ al primo quesito e il quinto è del 28,7% e, come a Milano, però ci sono periferie che hanno votato molto meno, come Villaretto dove ha votato il 25%.  A Roma, invece, solo il quartiere di Villa Ada ha votato più SÌ al quesito sulla cittadinanza che a quelli sulle tutele crescenti, con una differenza del solo 2%, e a Napoli questa differenza non è riscontrabile in nessun quartiere. Mentre sia a Napoli che a Roma, abbiamo quartieri storicamente operai e rossi che hanno votato quattro SÌ ai referendum sul lavoro e NO al referendum sulla cittadinanza.  > Qui si evidenzia una nuova frattura del mondo contemporaneo: tra centri > (neo)liberali ricchi che votano contro i diritti sul lavoro, ma che si > considerano cosmopoliti e (anche se poco) votano per i diritti civili. E > questo è più evidente nei centri del Nord Italia che del Sud, essendo i centri > nel Nord più ricchi. Mentre le periferie che sono andate a votare si sono > espresse di più contro la riforma sulla cittadinanza e per i diritti sul > lavoro. Cioè la popolazione bianca urbana che vive nelle periferie esprime un voto di paura nei confronti della riforma sulla cittadinanza. E questo dovrebbe aprire un grande spazio di riflessione profonda per le organizzazioni di sinistra: bisogna ricostruire solidarietà antirazzista, popolare e di classe. Un nuovo lessico politico condiviso che crei legami e lotte e sappia rispondere all’odio razzista, fascista e autoritario crescente.  Dati della Banca dati del Comune di Milano LE DONNE HANNO VOTATO PIÙ DEGLI UOMINI  Quasi ovunque in Italia le donne hanno votato più degli uomini e questo è un dato interessante, perché è una novità nel nostro Paese. Alle ultime elezioni politiche del 2022 l’astensione delle donne è stata più alta di quella degli uomini, quando solo il 62,19% delle elettrici si è presentata alle urne contro il 65,74% degli elettori. Anche alle europee del 2024 avevano votato più uomini che donne in 91 province su 106. Bisognerà vedere cosa accadrà alle prossime elezioni per capire se questo trend continuerà, segnando, così, una differenza rispetto agli ultimi decenni della vita politica italiana.  > Ma questo ci racconta di una trasformazione che sta avvenendo anche in molti > Paesi del mondo, dagli Stati uniti alla Corea del Sud, dal Giappone alla > Francia, le donne votano di più per i partiti progressisti. Una tendenza > ancora più marcata tra le giovani donne che votano sempre più a sinistra, > mentre i giovani uomini votano sempre più a destra, come si è notato alle > ultime elezioni sia in Francia che in Germania.  Un successo è stato anche il voto per i e le fuori sede per motivi di studio, lavoro o salute (67.305 richieste), l’89% di chi ne ha fatto richiesta si è poi recato a votare. Il Decreto Elezioni che ha previsto il voto per i fuori sede, ha anche eliminato le file divise per genere ai seggi, che, però, si sono ancora riproposte in moltissime sezioni, dato che i registri sono ancora divisi per genere. Una prassi discriminatoria soprattutto per chi non vuole dichiarare il proprio genere. Questa campagna referendaria, che piaccia o meno, è stata una sconfitta sia per la CGIL che ancora una volta ha presentato una battaglia che non ha saputo parlare a un mondo del lavoro frammentato, precario e sempre più povero. I quesiti sono risultati di difficile comprensione e alle urne si è presentato solo chi già vota il centro sinistra. Purtroppo, è andata anche peggio per il quesito sulla cittadinanza, un quesito di civiltà, che avrebbe migliorato la vita delle persone migranti e dei loro figli e figlie, che non ha convinto neanche tutto l’elettorato di centro-sinistra. Questo ci deve interrogare verso le prossime battaglie elettorali o meno: come torniamo ad avere una presenza sui territori che costruisca legami di solidarietà e sia in grado di costruire un progetto di lunga durata contro il blocco reazionario che abbiamo di fronte? L’immagine di copertina è di Jaken (Wikimedia) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Lezioni da imparare dal referendum dell’8 e 9 giugno proviene da DINAMOpress.
REFERENDUM: UN CONFRONTO A DUE VOCI SULLA SCONFITTA CON ELIANA COMO (SINISTRA CGIL) E JESSICA TODARO (CUB MILANO)
All’indomani della consultazione per cinque referendum, di cui quattro dedicati al tema del lavoro e uno al tema della cittadinanza, abbiamo realizzato un confronto telefonico tra Eliana Como, portavoce dell’ala critica all’interno del sindacato CGIL “Le radici del sindacato”, e Jessica Todaro, sindacalista della CUB di Milano. Ascolta o scarica  
Considerazioni inattuali sul referendum
Il referendum precedente si è tenuto nel giugno 2022. Si trattava di 5 quesiti, presentati dalla Lega e dai Radicali, sul tema della giustizia. In particolare si trattava di: abolizione della legge Severino sull’incandidabilità dei condannati, limitazione delle misure cautelari, separazione delle funzioni dei magistrati, valutazione dell’operato dei magistrati, riforma del Consiglio Superiore della Magistratura. In quella occasione votò soltanto il 20,4% degli aventi diritto. Tra i votanti prevalsero i sì, appena sopra il 50% per i primi due quesiti e oltre il 70% sulle altre tre proposte di abrogazione. Nel referendum del giugno 2025 i votanti sono stati il 30,6%, con un’inversione di tendenza e un aumento di partecipazione del 50% rispetto al referendum di tre anni prima. Quindi la partecipazione al referendum del 2025 dovrebbe essere considerata da tutti un fatto positivo, seppure ancora insufficiente. In particolare, colpisce la contraddizione di chi oggi sostiene che i quesiti del 2025 non interessavano agli elettori e contemporaneamente sta proponendo la riforma della giustizia, che nel 2022 aveva interessato un numero nettamente inferiore di elettori. Tra il 1974 (divorzio) e il 1995 (privatizzazione RAI) si sono tenuti nove referendum abrogativi. Soltanto nel caso del 1990 (caccia) non si è raggiunto il quorum del 50% dei votanti rispetto agli aventi diritto. Dal 1997 ad oggi si sono svolti dieci referendum abrogativi e soltanto nel 2011 (acqua pubblica e produzione energia nucleare) si è superato il quorum. L’affluenza alle urne referendarie è diminuita di pari passo con quella registrata nelle elezioni politiche. Infatti fino a metà anni ‘90 si è registrata una forte partecipazione elettorale (circa 90% alle politiche, 80% alle amministrative, 70% alle europee), con un calo progressivo negli ultimi 30 anni. Nel 2022 alle politiche ha votato il 64% degli aventi diritto, nel 2023 alle regionali della Lombardia soltanto il 42% ha espresso un voto, alle elezioni europee del 2024 l’affluenza è stata del 48%. Di fronte a questi dati il 30,6% di partecipazione nel referendum 2025 potrebbe essere riconsiderato. Ad esempio, se il quorum venisse riformulato in modo relativo anziché assoluto, cioè utilizzando come riferimento non più gli elettori aventi diritto, ma il 50% dei votanti alle ultime elezioni, la prospettiva sarebbe assai diversa. I partiti dovrebbero smetterla di promuovere o di appropriarsi dei referendum. In Assemblea Costituente Costantino Mortati spiegò che “il referendum si basa sul presupposto che il sentimento popolare possa divergere da quello del Parlamento”. I partiti che non fanno parte della maggioranza di governo, non riuscendo a far approvare alcune proposte, ricorrono talvolta al referendum, cercando di ottenere per via referendaria ciò che non sono riusciti a raggiungere per via parlamentare. La Costituzione prevede di norma che siano 500 mila elettori o cinque consigli regionali a proporre i quesiti referendari (art. 75). È una facoltà dei cittadini o degli enti locali. Non delle forze parlamentari. Di solito durante le campagne referendarie siamo sommersi dalle indicazioni dei partiti, mentre sarebbe più utile ascoltare le formazioni sociali, in particolare quelle coinvolte direttamente dal quesito referendario. Pensando al referendum del 2022 non aveva senso che i promotori fossero la Lega e i Radicali. Come si può ritenere inopportuno che il referendum sulla tempistica per chiedere la cittadinanza italiana sia stato promosso dal partito + Europa. Nella campagna referendaria del 2025 si è molto discusso se il voto referendario sia un dovere o se ci si possa legittimamente astenere in varie forme. La Costituzione afferma che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1), cioè sul contributo attivo di ognuno: nel lavoro, nella scuola, nella famiglia, nelle formazioni sociali. In particolare “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4). Inoltre, “la Repubblica (…) richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2) e l’esercizio del voto (anche referendario) è “dovere civico” (art. 48). In questa prospettiva, quando si vota, non si dovrebbe scegliere sulla base del proprio interesse egoistico, ma secondo una logica di solidarietà, equità e giustizia.  Perché “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3). Perché “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi” (art. 54). È anche opportuno ricordare che l’Italia è una Repubblica a seguito di un referendum! In un Paese con un tasso di astensionismo crescente, le istituzioni dovrebbero impegnarsi per promuovere il voto. La volontà della maggioranza dovrebbe formarsi nel procedimento deliberativo e non al di fuori di esso. Il fatto che ci siano partiti e soprattutto cariche istituzionali che invitano a boicottare un referendum è un fatto grave. Bisognerebbe almeno distinguere tra la scelta soggettiva di non votare e quella di indurre all’astensione dal voto. L’incitamento a non far funzionare correttamente un istituto di democrazia diretta (qual è il referendum) non dovrebbe appartenere a chi ricopre un ruolo pubblico, a maggior ragione se questo ruolo è stato assunto attraverso un voto. L’art 54 della Costituzione stabilisce anche che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento”. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel messaggio per la ricorrenza del 2 giugno ha scritto: “Il compito di attuare in concreto gli ideali costituzionali, di renderli vivi nella società quale costante criterio ispiratore delle scelte, è una missione mai esaurita, affidata ogni giorno anzitutto alla premura di quanti, con dedizione e competenza, prestano la loro opera nelle istituzioni e nella società civile. La Costituzione affida, infatti, a ciascun cittadino la responsabilità di concorrere alla coesione sociale del Paese”. Pertanto, invitare alla non partecipazione, al non adempimento di un dovere civico inderogabile, è un atteggiamento censurabile, incivile e tendenzialmente contrario alla Costituzione, che si è giurato di osservare lealmente.         Rocco Artifoni
Master and servant
I referendum sul lavoro e sulla cittadinanza sono falliti. L’affluenza al 30% segna una pesante sconfitta del principale sindacato italiano, di tutto il gruppo promotore e dei partiti che li hanno sostenuti. Eppure non mi stupisco, perché? Non intendo dissertare sulle cause più o meno politiche, sugli errori di strategia e di comunicazione, sulla inopportunità di mantenere il quorum del 50%, sulle stesse responsabilità di chi per anni, proprio in ambito sindacale, non ha reagito come avrebbe potuto, alle prepotenti leggi dei vari governi che hanno fatto carta straccia dello statuto dei lavoratori e delle tutele acquisite con lotte durate decenni. Lascio questo compito a chi è più competente di me in materia. Qui e ora, desidero piuttosto fare una constatazione di carattere storico e sociologico, a mio avviso decisiva, e lo farò senza mezzi termini. L’astensionismo, questo astensionismo in particolare, ci parla di come il lavoratore non riconosca più il padrone e non conosca neppure le opportunità che gli vengono date dall’unico strumento di democrazia diretta che esiste in questo Paese. Questa constatazione è determinata da almeno due fatti: 1) l’impressionante distanza che si è creata (che è stata creata) tra le cosiddette istituzioni e il cittadino medio, spesso poco attento alle decisioni della politica istituzionale e anche poco capace di comprenderle. 2) l’ignoranza di gran parte dei lavoratori su chi realmente determina il loro assetto esistenziale e la loro vita sociale, che ingenuamente si crede non direttamente correlata alle decisioni che i potenti prendono in tema di lavoro subordinato e non. Venendo al punto, si può affermare che decenni di ipnosi berlusconiana, dei suoi sodali e dei suoi epigoni, il susseguirsi di riforme drammaticamente peggiorative delle condizioni di lavoro e di voraci ingerenze delle istituzioni economiche europee e internazionali, hanno marchiato a fuoco l’idea stessa del ruolo e delle prerogative del lavoratore. L’essere convinti di non appartenere ad una categoria, (figuriamoci ad una classe), la deificazione della partita iva, la ingenua convinzione del “mi salvo da solo”, il trionfo del disimpegno e del più becero qualunquismo, sostenute dalla ferrea logica della produttività, hanno prodotto per una gran parte di lavoratori, la rinuncia a priori di qualsiasi lotta per l’emancipazione. Il prevalere di questa trama, la si vede chiaramente nei luoghi di lavoro e la si percepisce distintamente nelle giovani generazioni dentro le aule scolastiche. E’ questo il nuovo e più imperioso trionfo del capitale: l’essere riuscito a scindere ogni legame tra il lavoratore e il lavoro, il rendere invisibile e distaccata la proprietà, porre la precarietà al centro del lavoro e della vita. Quando il diretto interessato non va a votare su quesiti che lo riguardano in prima persona e che gli possono offrire maggiore tutela, si è varcata una linea rossa. E’ stato inquietante osservare i pensionati e i lavoratori del settore pubblico che si sono recati nei seggi, mentre la maggior parte di chi era direttamente interessato se n’è rimasto a casa. Questo non rappresenta un campanello d’allarme per chi ancora pone fiducia nella partecipazione popolare, ma è la bomba che ti arriva sulla testa. Molto c’è da fare, da ricostruire, ma senza una visione radicalmente critica di questo modello economico e sociale, senza il rifiuto della prevaricazione e della distruttività che esso rappresenta e che esso pone sui singoli, sulle comunità, sulla natura e quindi, sul concetto stesso di lavoro esclusivamente finalizzato all’interesse privato, non ne verremo fuori. A questa cultura della separazione e del dominio, occorre opporsi con vigore e con tenacia, con maggiore unità e consapevolezza dentro e fuori i luoghi di lavoro. Max Strata
Referendum, il commento di Tomaso Montanari
Ripubblichiamo con l’autorizzazione dell’autore il commento di Tomaso Montanari sui referendum. È grande l’amarezza, stasera. Ma non la sorpresa. Ha pesato decisivamente il boicottaggio compiuto dal governo: non certo attraverso l’astensionismo istituzionale (osceno, ma poco rilevante sul piano dei numeri), ma attraverso il sistematico silenziamento dei referendum, cancellati su sei reti televisive. I grandi giornali hanno fatto il resto: i referendum sono stati una notizia per la prima volta stasera, con la loro bocciatura. La Cgil era sostanzialmente sola: e stendiamo un velo pietoso sui partiti dell’opposizione, inerti, se non peggio. Ma il punto non è questo. Il punto è un Paese devastato da quarant’anni di progressivo smontaggio della Costituzione. La ragione per cui governano i fascisti è la stessa per cui da anni non si raggiunge il quorum: una enorme parte del Paese non crede più che andare a votare (referendum o politiche non cambia nulla) serva a qualcosa. E sono anche le stesse per cui i no contro la cittadinanza agli stranieri sono stati tragicamente alti anche a sinistra: perché nel vuoto della politica ci si difende da chi sta sotto, non si lotta contro chi sta in cima. Un processo di distruzione della democrazia iniziato proprio con la distruzione progressiva della dignità e dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Caduto il lavoro, è caduta la partecipazione: in una tragica attuazione al contrario dell’articolo 3 della Carta. Questi referendum hanno provato a invertire la rotta: ma non è facile, visto che la partecipazione al voto è l’unico strumento per uscire dal circolo vizioso che ha distrutto la partecipazione alla politica. E tuttavia, nel vuoto pneumatico di politica, la Cgil ha fatto politica: dobbiamo esserle profondamente grati per aver portato a votare 14 milioni di persone, più dei 12 che hanno votato per la maggioranza che governa. Questi referendum hanno acceso una luce, per quanto flebile e sconfitta, in un buio calato da un pezzo. E per la prima volta da tanto tempo penso che non siamo di fronte ad un epilogo, ma ad un inizio. Timido, pieno di limiti ed errori, ma nella direzione giusta, finalmente. «Ho provato. Ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio» (Samuel Beckett)   Redazione Italia
Referendum, il commento dell’Arci
«È mancato il #quorum, è un dato di fatto. C’è anche un po’ di amarezza, inutile nasconderlo, ma c’è anche la consapevolezza che oltre 14 milioni di cittadinɜ che si sono recatɜ alle urne meritano rispetto. Sembra persino strano doverlo dire ma di questi tempi, per quello che si sente, vale la pena ribadirlo. Non c’è delusione: l’#Arci, da nord a sud, si è mobilitata con forza e generosità, perché questi referendum non erano un punto d’arrivo, ma una tappa di un percorso collettivo di protagonismo politico, di partecipazione e di lotta per i diritti e la giustizia sociale. Quello che serve al nostro paese per ripartire. Sull’affluenza, che altro dire? È indubbio che abbiamo promosso i referendum all’interno di una grande crisi democratica e di sfiducia nel voto. Non si può poi negare il peso del silenzio complice dei media e il boicottaggio politico da parte del governo. Una presidente del Consiglio che va al seggio e si rifiuta di ritirare le schede, la seconda carica dello Stato che invita all’astensione, un partito di governo che ironizza dicendo “eravamo tutti al mare”. Sono gesti gravi, che rivelano il disprezzo per la democrazia e un’arroganza istituzionale che dovrebbe indignare chiunque creda nella partecipazione popolare. Eppure in queste settimane si è vista un’altra Italia. Il percorso promosso dalla CGIL e da una vasta alleanza sociale ha riportato al centro un’idea di politica che parte dal basso, si nutre di conflitto e mira a cambiare davvero la vita delle persone. Le nostre vite. Non è poco, soprattutto in un tempo in cui ci vorrebbero passivi e rassegnati. Il lavoro, la sua dignità, la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori, il futuro dellɜ ragazzɜ sono un punto di partenza. Tutti temi che tornano con forza grazie a una mobilitazione diffusa e determinata, che parla a chi non si arrende e non accetta che i diritti vengano smantellati nel silenzio. Fare politica oggi vuol dire alzare la testa, istruirsi, organizzarsi e provare a cambiare lo stato attuale delle cose. E noi, da qui, non torniamo indietro.» Walter Massa, presidente nazionale Arci   Redazione Italia
Referendum/previsioni
Riceviamo dalla giornalista ed ex parlamentare Giancarla Codrignani Referendum/previsioni (?). L’obiettivo è raggiungere il quorum. La metà dell’elettorato +1. Non è prevedibile: in Emilia per la presidenza regionale, di poco, ma non siamo arrivati al 50. Solo che è stato caricato in questi ultimi tempi di valore politico. Non dal sindacato che, comunque è solo Cgil e Uil. Il Pd conta sull’ottimismo di Schlein, ma sulla questione israelo/palestinese manifesta a Roma senza Calenda e Renzi manifestanti a Milano. Si accusa il sabotaggio della destra (di governo) che invita a non votare (legittimamente come quando era Craxi a rivolgere lo stesso invito) e l’abuso di Meloni che, per non dare il suo contributo al quorum, si ferma un momento al seggio per salutare prima di andare a fare la spesa. Anche lei senza violare leggi, non fosse che è “il presidente del Consiglio” e offende il senso costituzionale di ciò che democraticamente rappresenta. Ma lei lavora per la destra e anche questo è un colpo mancino, ma di destra. Da sinistra non ci sono stati fuochi d’artificio identitari, solo inviti schematici al bene dei lavoratori. Quanto ai contenuti, se uno ha cuore politico va a leggerseli. E rischia di domandarsi chi mai ha avuto l’idea di usare il referendum (4 milioni di firmatari) per abrogare pezzi di normative sui temi lavorativi e sulla cittadinanza degli stranieri concessa non dopo 10 anni ma “solo” 5 (e lo ius sanguinis?). Forse la settimana prossima passeremo oltre e cominceremo a preparare le elezioni del 2017: saremo già oltre il metà mandato e Meloni resta un osso duro nel panorama nazionalista crescente dei 27, ma non va aiutata da una sinistra impolitica e non più empatica. Si deve andare a votare per rispetto delle istituzioni democratiche, di cui il voto è strumento. E per farsi venire idee e come portare quei contenuti a realizzazione dopo il 9 giugno. Redazione Italia
5 si per lavoro e tutele
> REFERENDUM 8 E 9 GIUGNO > UN’OCCASIONE PER TUTELARE LAVORO e DIRITTI Domenica 8 e lunedì 9 giugno i cittadini italiani aventi diritto al voto sono chiamati alla partecipazione a cinque referendum popolari abrogativi (articolo 75 della Costituzione). Si tratta di cinque quesiti in materia di disciplina del lavoro e cittadinanza. Invitiamo i ferrovieri a mettere da parte, per un paio di giorni, il risentimento nei confronti della CGIL, responsabile della sottoscrizione di una nefasta ipotesi di rinnovo del CCNL Mobilità/Attività Ferroviarie, e a concentrarsi sull’importanza del rivendicare diritti per i lavoratori e per i cittadini. Opponiamo ad una politica che va sempre più a destra e favorisce sempre più i grandi poteri economici e finanziari, una società civile che vuole invece diritti, tutele e risorse per i cittadini. Questi referendum non sono sostenuti solo dalla CGIL, ma anche da tutte le forze politiche e sindacali, i movimenti e le associazioni che ritengono che il bene collettivo venga prima dei capricci di pochi privilegiati, che si arricchiscono sempre più sulle spalle di chi lavora. ANDIAMO TUTTI A VOTARE, ANDIAMO TUTTI A SCRIVERE SI! Di seguito una breve presentazione dei quesiti referendari. 1. STOP AI LICENZIAMENTI ILLEGITTIMI Nel primo referendum si chiede “l’abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti del Jobs Act. Nelle imprese con più di 15 dipendenti, le lavoratrici e i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi non possono rientrare nel loro posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo.” Attualmente i lavoratori italiani penalizzati da questa legge sono oltre 3 milioni e 500mila: “Abroghiamo questa norma, diamo uno stop ai licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo.” 2. PIÙ TUTELE PER LE LAVORATRICI E I LAVORATORI DELLE PICCOLE IMPRESE Il secondo quesito riguarda l’eliminazione del numero minimo di dipendenti per quanto riguarda i licenziamenti, “in quelle con meno di 16 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento, anche qualora una/un giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto. Questa è una condizione che tiene le/i dipendenti delle piccole imprese (circa 3 milioni e 700mila) in uno stato di forte soggezione.” 3. RIDUZIONE DEL LAVORO PRECARIO Il terzo quesito “punta all’eliminazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine per ridurre la piaga del precariato.” Si parla allo stato attuale di circa 2 milioni e 300 mila lavoratori italiani con contratti a tempo determinato, i quali “possono oggi essere instaurati fino a 12 mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo.” 4. PIÙ SICUREZZA SUL LAVORO Il quarto referendum riguarda la salute e sicurezza sul lavoro, e punta a prevenire le attuali 500.000 attuali denunce annuali di infortunio sul lavoro e i quasi mille morti. Si intende modificare le norme attuali, “che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Cambiamo le leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità dell’imprenditore committente significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro.” 5. PIÙ INTEGRAZIONE CON LA CITTADINANZA ITALIANA Il quinto quesito è invece relativo alla tematica della cittadinanza italiana, si propone di “dimezzare da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana, ripristinando un requisito introdotto nel 1865 e rimasto invariato fino al 1992.” Rimangono invariati gli altri requisiti per ottenere la cittadinanza, quali “la conoscenza della lingua italiana, il possesso negli ultimi anni di un consistente reddito, l’incensuratezza penale, l’ottemperanza agli obblighi tributari, l’assenza di cause ostative collegate alla sicurezza della Repubblica.” Oltre alla CGIL una serie di forze politiche e sindacali, movimenti e associazioni, tra cui la nostra rivista, sostengono a gran voce la partecipazione e il SI ai 5 quesiti. Di seguito, a titolo di esempio, solo alcuni di questi. Alleanza verdi e sinistra sostiene i 5 SI Movimento 5 stelle sostiene 4 SI per il lavoro e lascia libertà di scelta sul quinto quesito USB è per 5 SI CUB sostiene i 5 SI Emergency invita a votare SI al quesito sulla cittadinanza L'articolo 5 si per lavoro e tutele proviene da Ancora in Marcia!.
[2025-06-08] Black Hopera Is For The People - Giornata per il Referendum sulla Cittadinanza @ CSOA Ex-Snia
BLACK HOPERA IS FOR THE PEOPLE - GIORNATA PER IL REFERENDUM SULLA CITTADINANZA CSOA Ex-Snia - Via Prenestina 173 (domenica, 8 giugno 15:00) BLACK HOPERA IS FOR THE PEOPLE Giornata per il Referendum sulla cittadinanza SI VOTA! DOMENICA 8 GIUGNO LUNEDI 9 GIUGNO La sfida più grande della tornata referendaria è riuscire ad attraversare il mare dell'astensionismo e approdare al quorum, necessario per validare l'esito della consultazione. I beneficiari potenziali della norma sono oltre 2 milioni di persone. Votare e partecipare è importante!!  DIFFONDI IL VERBO Per sensibilizzare chi ancora non ha capito l'importanza dell'argomento e garantire la massima partecipazione al voto, ci vediamo Domenica 8 Giugno! Dopo aver "votato" saremo al Quadrato Ex-Snia per passare insieme un pomeriggio di musica, danza e sport  in uno dei luoghi più iconici e di aggregazione della capitale The Black Hopera Urban Movement of Rome - Dj Set - Open Mic - Street Basket - Street Dance EVENTO LIBERO E GRATUITO ADATTO A TUTT*, SOPRATTUTTO A BAMBIN*!  Quadrato Ex-Snia - Via Prenestina n°175  Dalle 15 alle 21
Darsi del noi. Dieci motivi per votare Sì al referendum sulla cittadinanza
Il referendum sulla cittadinanza propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo minimo di residenza necessario per presentare domanda per lə adultə che vivono stabilmente nel nostro paese. È una modifica parziale, ma potenzialmente molto importante. Può migliorare la vita di moltissime persone e, allo stesso tempo, può riaprire una partita – quella della riforma complessiva della legge sulla cittadinanza – che sembrava definitivamente chiusa. Una vittoria nel referendum può avere effetti di ampia portata anche al di là del tema specifico oggetto del quesito. Perché, dunque, votare convintamente Sì al referendum sulla cittadinanza? 1. Perché rompe il ricatto identitario L’attuale legge impone un percorso lungo, opaco, classista e arbitrario. Costringe chi vive in Italia e ha un background migratorio a dimostrare di “meritare l’inclusione”. L’affermazione del referendum modificherebbe significativamente uno dei pilastri dell’esclusione dalla cittadinanza: gli enormi tempi di attesa. 2. Perché migliora le condizioni materiali delle persone L’accesso alla cittadinanza incide su diritti fondamentali: diritto di voto, stabilità giuridica, accesso al pubblico impiego, libertà di circolazione. Significa concretamente meno precarietà, più possibilità di scelta, maggiore libertà di parola e di azione. 3. Perché riapre un dibattito politico rimosso La cittadinanza è stata, per tre decenni, un tabù per la politica istituzionale. Il referendum ha già prodotto un risultato: ha riportato il tema nello spazio pubblico, costringendo partiti e società a prendere posizione. La vittoria del Sì sarebbe un segnale politico di ampia portata per tutte le forze politiche e sociali: il Paese sarebbe costretto, finalmente, a fare i conti con il nodo della cittadinanza. 4. Perché riconosce che le persone partecipano già Chi vive in Italia senza cittadinanza non è unə potenziale “cittadinə del futuro”: è già parte fondamentale della società. Studia, lavora, cura, crea, lotta. Non è unə soggettə in attesa. Votare Sì significa riconoscere questa dimensione. 5. Perché parla finalmente dellə adultə Negli ultimi anni, il dibattito si è concentrato quasi esclusivamente sullə minorennə esclusə dalla cittadinanza, spesso con toni paternalistici, conditi con la retorica del merito. Ma in Italia, accanto a loro, vivono milioni di adultə da decenni senza cittadinanza. Sono persone invisibilizzate nel discorso pubblico e ai margini dei progetti di riforma recenti. Il referendum parla – finalmente – anche della loro condizione giuridica ed esistenziale. 6. Perché adegua la legge alla realtà sociale La normativa in vigore risale al 1992 e non riflette la composizione attuale della società italiana, che è strutturalmente plurale, molteplice, eterogenea, grazie allo spostamento delle persone attraverso i confini. Il Sì è un primo passo nel lungo percorso di allineamento tra il dato normativo e la realtà effettiva del paese. 7. Perché riapre la partita per una riforma strutturale Questo referendum non è una riforma organica, ma può crearne le condizioni. Può riattivare il dibattito, rimettere la cittadinanza all’ordine del giorno parlamentare, restituire spazio e legittimità a una battaglia collettiva bloccata da troppo tempo. Una riforma organica, oggi, deve affrontare con coraggio la condizione di chi nasce, cresce e vive in Italia, superando il carattere concessorio, classista e radicalmente selettivo che segna l’accesso alla cittadinanza. 8. Perché sostiene una mobilitazione ampia ed eterogenea Il referendum ha attivato un fronte largo e trasversale: associazioni, attivistə, comunità migranti, sindacati, reti studentesche, forze politiche, movimenti. Votare Sì significa rafforzare questa alleanza, che ha riportato al centro la questione dell’appartenenza democratica, e darle una prospettiva di medio periodo. 9. Perché è un atto di opposizione al governo e alla sua idea di cittadinanza L’attuale governo ha fatto di tutto per ostacolare il referendum, delegittimare le mobilitazioni e promuovere un’idea radicalmente esclusiva e identitaria di appartenenza. Votare Sì è un atto politico: per una cittadinanza aperta, egualitaria e plurale a venire. 10. Perché una vittoria può cambiare i rapporti di forza Vincere avrebbe un valore politico profondo: darebbe ossigeno a chi lotta, rafforzerebbe l’autostima collettiva di movimenti, attivistə, organizzazioni. Potrebbe aprire spazio, dare fiato ed energia ad altre battaglie e ad altri temi. Aiuterebbe a superare la rassegnazione e la logica della mera testimonianza, restituendo il senso di un cambiamento non solo necessario ma anche possibile Immagini di copertina di Henryy st da wikicommon SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Darsi del noi. Dieci motivi per votare Sì al referendum sulla cittadinanza proviene da DINAMOpress.