Tag - oppressione

Militarizzazione e oppressione: voci dal Convegno di Verona del 23 novembre
Il 23 novembre l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università di Verona ha organizzato l’evento pubblico “Dalla Global Sumud Flotilla alla “tregua”. Quale futuro per la Palestina?”, svoltosi al Centro Tommasoli, stipato per l’occasione oltre ogni immaginazione, a tal punto che si è reso necessario allestire un impianto acustico anche all’esterno. L’iniziativa ha visto la partecipazione di Roberta Leoni (presidente dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università), Donia Raafat (scienziata politica e attivista palestinese), Antonio Mazzeo (giornalista e scrittore impegnato nei temi della pace e del disarmo), Moni Ovadia (attore, artista, co-sceneggiatore, musicista), Triestino Mariniello (docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool e parte del team della Corte penale internazionale per le vittime di Gaza), Greta Thunberg e Simone Zambrin (attivisti della Global Sumud Flotilla). Dopo il saluto di Miria Pericolosi, attivista dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università di Verona, Patrizia Buffa, moderatrice dell’incontro, ha aperto i lavori illustrando il significato del convegno e riportando alla memoria della platea quanto accaduto nei mesi scorsi: la nascita di un gigantesco movimento per la Palestina, imponente equipaggio di terra che ha accompagnato l’equipaggio di mare, segno tangibile dell’emersione di una coscienza planetaria. La mobilitazione non è stata motivata solo dall’empatia verso la Palestina, ma si è espressa in una vera e propria rivolta contro il potere delle oligarchie finanziarie e militari che hanno supportato e supportano il genocidio. In tutto il pianeta si è palesata la volontà di andare in direzione opposta a quella voluta dalle classi dirigenti. Purtroppo, la cosiddetta tregua ha avuto un’unica finalità: arginare questo movimento planetario. Ora più che mai, conclude Buffa, è il momento di perseverare nella resistenza all’oppressione, nella pratica del Sumud. Roberta Leoni ha messo in luce la militarizzazione totale della società israeliana che mobilita e disciplina l’intera popolazione mediante la leva obbligatoria lunga, instillando in tal modo nelle coscienze un senso d’insicurezza permanente. Un’organizzazione statuale e sociale che si regge su tali presupposti non può che condurre a forme di sorveglianza di massa, apartheid, pulizia etnica e pratiche genocidarie. Per quanto riguarda l’Italia, Leoni aggiunge come le capillari e continue iniziative di militarizzazione avviate dai governi degli ultimi lustri per valorizzare la cosiddetta “cultura della difesa” nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle università, sembrano replicare in modo inquietante il modello guerrafondaio e securitario proprio dello Stato sionista. Donia Raafat sostiene che la cosiddetta tregua imposta da Trump non è per nulla una cessazione delle ostilità, bensì il passaggio da una fase di genocidio aperto e massiccio del popolo palestinese a una forma di genocidio incrementale. Ciò che vediamo ora non è un processo di trasformazione o di giustizia, è semplicemente il consolidamento delle stesse dinamiche che da decenni negano l’autodeterminazione del popolo palestinese. Pertanto, non bisogna fermarsi: le mobilitazioni e la rabbia popolare devono farsi sentire con una forza ancora maggiore, anche perché l’oppressione del popolo palestinese è l’emblema di tutte le forme di oppressione. Lottare per una Palestina libera significa lottare per un mondo più giusto. Antonio Mazzeo è intervenuto ricordando e analizzando le varie complicità del nostro governo e del nostro sistema economico col genocidio in atto. Come ha dimostrato nel suo ultimo report Francesca Albanese, relatrice speciale ONU per i territori palestinesi occupati, il genocidio in corso è un crimine collettivo che, come ricorda Mazzeo, coinvolge tutti i settori dell’economia italiana, da quello militare a quello finanziario, passando per quello energetico. Moni Ovadia si è invece soffermato sulla fondamentale distinzione tra ebraismo e sionismo, ricordando come ci siano in tutto il mondo moltissimi ebrei antisionisti e definendo il sionismo un’ideologia criminale e genocidaria. L’artista ha poi stigmatizzato il tentativo d’imbavagliare ogni forma di critica a Israele mediante strumenti repressivi come il DDL Gasparri che pretenderebbe di definire che cosa sia l’ebraicità e di equiparare antisionismo e antisemitismo. Secondo Moni Ovadia i veri antisemiti sono coloro che ritengono di poter definire a priori l’identità ebraica. Simone Zambrin ha spiegato il significato eminentemente politico dell’azione della Global Sumud Flotilla che non va confusa con una semplice missione di tipo umanitario proprio perché mirava a riaffermare il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Greta Thunberg ha analizzato il rapporto tra genocidio ed ecocidio, evidenziando come ciò che accade in Palestina sia il risultato di un sistema che ha come unico fine il profitto di pochi a danno dei molti. La deumanizzazione del popolo palestinese affonda le radici in questa logica di oppressione che va tutta a vantaggio di un’élite privilegiata che accumula sempre maggiori profitti sulla pelle di tutti. Triestino Mariniello ha confermato come quello in corso a Gaza sia un vero e proprio genocidio, sostenendo come, dai tempi dello sterminio attuato in Ruanda, non esistano altri casi così ampiamente documentati e per i quali vi sia una tale abbondanza di prove. Una delle vie giuridiche indicate dal professore della John Moores University per uscire dall’inerzia potrebbe consistere in un’iniziativa da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU che sconfessi il piano Trump e l’operato del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, aprendo la via ad azioni contro Israele. Il convegno organizzato dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università ha dunque rilanciato la necessità di una mobilitazione permanente contro il genocidio, contro la militarizzazione delle coscienze e contro la censura che del genocidio sono potenti catalizzatori. Qui alcuni scatti della serata del 23 novembre a Verona. Giorgio Lonardi, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
“Riposare è Resistere” di Tricia Hersey, un manifesto politico contro la grind culture
“Il vostro corpo è un luogo di liberazione. Non appartiene al capitalismo. Amate il vostro corpo. Fate riposare il vostro corpo. Muovete il vostro corpo. Sostenete il vostro corpo.” Tricia Hersey “Riposare è resistere si oppone alla cultura della macinazione che consuma tutto”. Time “Spero leggiate questo libro standovene sdraiati!” – è l’invocazione della scrittrice Tricia Hersey all’inizio del primo capitolo di questo meraviglioso saggio. Un saggio necessario che è stata un’illuminazione. Di fronte al mondo che cambia in modo così velocemente, al tempo che viene sbranato dall’eterno presente della surmodernità, al presentismo neoliberale che ci induce a impostare già il nostro tempo quotidianamente in modo uniforme come macchine vuote volte alla produzione capitalista, l’alienazione e l’insoddisfazione diventano i sentimenti più incisivi che rischiano di deviare l’essenza della nostra esistenza come esseri umani. Già qualche anno fa, leggendo il libro-intervista “Il tao della decrescita” di Serge Latouche, mi sovveniva un pensiero: se ogni forma di resistenza al capitalismo finanziario e al sistema capitalista in generale, alla sua oppressione economica e sociale, alla sua filosofia del fondamentalismo di mercato, risulta vana, quale può essere la forma di protesta/resistenza più incisiva? Quale può essere il modo per sfuggire alla colonizzazione del tempo da parte della società industriale di massa, del produttivismo, dell’efficientismo e del consumismo? Quale può essere il modo per uscire dalla sbornia digitale che ci vede impegnati ore e ore di fronte al computer svolgendo funzioni alienanti, non tanto lontane – nella sostanza – dai meccanismi della catena di montaggio? Quale può essere la forma di rivolta per far emergere quel mondo a misura d’essere umano che abbiamo perso? La risposta mi arrivò spontanea: l’abbandono, ovvero abbandonare questa società, uscire da questa società per dimostrare che si può vivere senza i bisogni effimeri creati ad hoc da questa società per noi. Fin da subito pensai che la grande rivolta poteva consistere nel dimostrare che si può creare una società parallela a quella che ci è stata imposta, con Altre regole, Altre strumenti, Altra vivibilità. Ho sempre creduto che si potesse uscire dai meccanismi perversi della “cultura imprenditoriale-manageriale”, dimostrandone la fallacia logica e la grande astrazione che si sorreggono su presupposti ormai dati per scontati che nulla hanno di “naturale”, ma bensì di “culturale”. Ho creduto e credo che basta uscire dai meccanismi rapaci della società industriale semplicemente con il distacco e la lentezza, virando radicalmente verso altre strade. La grind culture non è nient’altro che la “cultura del superlavoro” e la conseguenza della “cultura degli imprenditori”, che di fatto sono “prenditori” che macinano le nostre vite – le uniche vite che abbiamo la certezza di avere – appaltandole al lavoro standardizzato. Come uscire da questo incubo? La scrittrice, poeta, teologa ed attivista afroamericana Tricia Hersey ci dà una soluzione tanto semplice quanto rivoluzionaria: il riposo. “Possiamo immaginare di passare qualche ora al giorno senza collegarci all’email o al cellulare? E quando ci pensiamo, quali sensazioni sentiamo nascere in noi? Che succederebbe se quel giorno si trasformasse in ventiquattr’ore o un’intera settimana? O un mese? Con cosa sostituireste le ore di attività online?” – ci chiede la Hersey. Riposo che è dormire; riposo che è spegnere le nostre menti; riposo che è uscire dalle nostre comfort-zone standardizzate; riposo che è spegnere qualunque macchina (macchine da lavoro, smartphone); riposo che è riscoprire il valore della leggerezza e il potenziale rivoluzionario delle relazioni umane; riposo che è fermare il nostro corpo; riposo che è il momento del quieora per far sorgere spontaneamente la nostra creatività repressa dall’atomizzazione capitalista. “Questo libro salverà delle vite e trasformerà il mondo”. Emily Nagoski “Un piano d’azione per aiutare le persone a sfidare l’idea che i nostri corpi siano macchine da usare per il profilo del capitalismo, invece di appartenerci veramente”. Essence Hersey è nata e cresciuta nella zona sud di Chicago, ha conseguito la laurea in sanità pubblica presso l’Eastern Illinois University, completando in seguito due anni di servizio come volontaria del Corpo di Pace in Marocco. Si iscrisse alla facoltà di teologia presso la Candler School of Theology dell’Università di Emory mentre iniziavano le proteste legate al movimento Black Lives Matter. E’ proprio in questo frangente che – scoprendo lo stress legato al suo programma di laurea che si aggiunge a forti vicende familiari e personali – rivaluta il sonno come momento per sè. Il riposo aggiuntivo fece sentire la Hersey più sana e più energica, e iniziò a incorporare il riposo nei suoi argomenti di ricerca di laurea sulla teologia della liberazione nera, la somatica e il trauma culturale. Un riposo che ha avuto un significato particolare per lei: fu il sonno che fece esclamare a Harriet Tubman (1), risvegliatasi da un sogno premonitore, «La mia gente è libera» dalla schiavitù. Fu il sonno che fece trovare la pace interiore ai suoi antenati durante la persecuzione: “Provengo da una lunga tradizione familiare di sfinimento. La mia nonna materna Ora (…) riposava gli occhi da mezz’ora a un’ora al giorno, nel tentativo di entrare in sintonia con sé stessa e trovare un po’ di pace. La bisnonna Rhodie, a quanto mi hanno raccontato, restava sveglia fino a tarda notte nella sua fattoria, nel profondo Mississippi, con una pistola nella tasca del grembiule, per risolvere in maniera creativa qualsiasi problema derivante dal Ku Klux Klan. La realtà di come siamo sopravvissuti a supremazia bianca e capitalismo è per me davvero sconvolgente. Sono ben consapevole di ciò che i nostri corpi sono in grado di sopportare. Dobbiamo alleggerire il peso che ci portiamo addosso. L’obiettivo finale della liberazione non è la sopravvivenza. Dobbiamo prosperare. Dobbiamo riposare.” Il lavoro di Hersey sostiene che la privazione del sonno è una questione di giustizia razziale e sociale e invoca il riposo come forma di resistenza alla supremazia bianca e al capitalismo. Hersey collega il riposo alla schiavitù americana – quando gli africani ridotti in schiavitù venivano regolarmente privati del sonno attraverso le leggi Jim Crow (2) – e crede che il riposo possa interrompa, quasi karmicamente, quella storia e la “cultura della fatica” contemporanea. Hersey ha collegato l’esaurimento dei neri alle continue esperienze di oppressione, sostenendo che il riposo è fondamentale per la liberazione di tutti perché lascia spazio alla guarigione e all’invenzione. Scrive Hersey: “A ispirarmi sono il riposo, il sonno e la capacità di sognare a occhi aperti.” Nel 2016 ha fondato “The Nap Ministry” (il “dicastero del sonnellino”), un’organizzazione che sostiene il riposo come forma di riparazione e un percorso verso la connessione ancestrale. L’organizzazione cerca di destigmatizzare la cura di sé e il sonno. Ispirandosi ad una performance artistica che esplorava come il riposo possa connettersi alle riparazioni, alla resistenza e connetterci ai nostri antenati, Hersey ha teorizzato che il riposo possa essere una forma di guarigione dalle esperienze traumatiche.  Scrive: “Il Nap Ministry è una coperta calda che ci avvolge e ci riporta al nostro io più profondo. Un luogo più umano. Un luogo dove riposare.”  La presa di consapevolezza dell’intensa storia del trauma culturale dei suoi antenati le ha fatto rivalutare il sonno come un’arma potenzialmente rivoluzionaria. “Tricia Hersey ci dice che il riposo è una forma di resistenza. Lo dice a me, a voi, a coloro che pensano che la resistenza sia sempre. Il suo messaggio è essenziale: Sedetevi. Sdraiatevi. Rallentate. Il riposo è un passo necessario per rivendicare il nostro potere di resistere all’oppressione sistemica”. Ibram X. Kendi Scrive Hersey: “Questo libro è una testimonianza e un’attestazione del mio personale rifiuto a donare il corpo a un sistema che è ancora in debito verso i miei Antenati per averli defraudati del loro duro lavoro e del loro Spazio Onirico. Mi rifiuto di spingere il mio corpo sull’orlo dell’esaurimento e della distruzione. Lasciamo che il destino faccia il suo corso. Mi fido più di me stessa che del capitalismo. Il nostro rifiuto finirà per lasciar spazio alla prosperità. Dovremo fare un azzardo e credere ciecamente nel riposo. Possa sostenerci il terreno sottostante e, se mai cadremo, che ci sia un soffice cuscino ad accoglierci. Questo libro è un invito, gridato da un megafono alla collettività, a unirsi a me nell’ostacolare e nel respingere il sistema.” Questo libro è un grido di protesta, un manifesto rivoluzionario e sovversivo, ma anche una nenia sussurrata all’orecchio di chi è stanco, un mantra che ripete incessantemente parole che spesso dimentichiamo: noi meritiamo di riposare, perché il riposo è sacro. Ingabbiati come siamo dentro il meccanismo della grind culture, che ci vuole sempre attivi e disponibili in qualsiasi momento, abbiamo dimenticato che il riposo è un nostro diritto e un nutrimento per l’anima, e non solo il tempo che togliamo alla produzione. Questo di Tricia Hersey è un invito che suona potente e liberatorio. Le sue parole piene di umanità e di spiritualità ci insegnano come non farci distruggere dal sistema, come recuperare ciò che è nostro, in una rivoluzione che non esclude nessuno ma che include ogni aspetto della società in cui viviamo, dalle comunità all’attivismo, dalla lotta al capitalismo alla società razzializzata, per fare in modo di connetterci di nuovo alla nostra natura più vera e ai ritmi ecologici, riposando insieme, sottraendo tempo al lavoro, imparando dal passato. All’opposto di ciò che avviene, torniamo a mettere al centro la lentezza come paradigma di vita: torniamo a vivere lentamente e lentamente a vivere.   I Principi del Nap Ministry sono: 1. Il riposo è una forma di resistenza perché ostacola e respinge il capitalismo e la supremazia bianca. 2. I nostri corpi sono un luogo di liberazione. 3. Schiacciare un pisolino offre una porta d’accesso all’immaginazione, alla creatività e alla guarigione. 4. Ci è stato sottratto il nostro Spazio Onirico e lo rivogliamo. Ce lo riprenderemo grazie al riposo.   (1) Harriet Tubman, nata Araminta “Minty” Ross e anche conosciuta come “Mosè degli afroamericani”, è stata un’attivista statunitense che combatté per l’abolizione della schiavitù e, in seguito, per il suffragio femminile, prestando anche attività come spia al servizio dell’Unione durante la Guerra di Secessione. (2) Leggi locali e statali in vigore nel Sud degli USA tra il 1876 e il 1965, che sancirono e mantennero di fatto la segregazione razziale nella società americana.   Scarica il primo capitolo di questo libro, e immergiti nelle atmosfere descritte dalla Hersey Scarica il PDF > Riposare è resistere. Un manifesto   Lorenzo Poli
Si può essere persone orrende in tanti modi diversi
Il linguicismo, ovvero il sistema oppressivo del linguaggio ritenuto norma, permea le nostre vite con declinazioni coloniali, antimeridionali, sessiste, classiste, queerfobiche. Il breve saggio di Rosalba Nodari, è un altro gioiello della collana bookblock+  di Eris Edizioni, una collana di saggistica breve e tascabile per aprire fratture generative nello sguardo normato. Nell’ultima edizione di San Remo c’era Geolier, orgoglio campano, con una canzone in napoletano. Molte persone sono insorte, chi chiedendo i sottotitoli, chi defininendolo inascoltabile per la bruttezza del dialetto, chi facendo ricorso al regolamento di fascista derivazione che in via di principio richiedeva solo brani in italiano. Lo stesso trattamento, come ricorda Nodari, non è stato riservato a Van Des Sfroos che con Yanez cantava in bergamasco, con il plauso del leghista Luca Zaia. Si potevano leggere commenti anti-meridionalisti persino nelle stories e chat di persone politicizzate senza che suscitassero un compatto sconcerno. Io stesso passavo invisibile nella mia appartenenza campana, spesso lodato per non avere un’inflessione marcata: «non si capisce da dove vieni», mi hanno ripetuto per farmi un complimento. Questo è stato probabilmente dovuto ad anni di pulizia linguistica, dalla scuola all’accademia, dagli ambienti di lavoro alle interazioni sociali. > Dissociarsi dal dialetto, dalla sua inflessione, significa ancora oggi avere > più possibilità di accedere al capitalismo culturale e sociale in termini di > opportunità di studio, di lavoro e di una maggiore accettazione sociale. > Questo è ancor più vero per chi ha come lingua madre una lingua non europea e > non bianca. «Non si capisce» – dicono e, come risponde Marìa Galindo (in Femminismo Bastardo, tradotto da Roberta Granelli, Mimesis edizioni)_ «Sì, è vero, non ci capiamo perché tu non vuoi capirmi». Galindo parla della mistura linguistica e del linguicismo coloniale a cui sono sottoposte le persone migranti o con un background culturale che non sia quello statunitense ed europeo bianco. Nel suo saggio Nodari, dopo aver trattato in modo illuminante di linguicismo e scuola, parla del linguicismo coloniale prevalentemente in ambito europeo, a partire dalla proposta di legge presentata nel 2022, in Francia, dal deputato di origini catalane Euzet per combattere la cosiddetta glottofobia, ossia la discriminazione subìta da una persona per il suo accento. Riprendendo la riflessione di @seconda_generazione_ita titolata Imitare e deridere gli accenti stranieri rafforza il razzismo, la xenofobia e il classismo, Nodari riflette su come dietro determinati gusti si celi qualcosa di molto più profondo: «la discriminazione linguistica può agire lungo gli assi della discriminazione tout court. Se, attraverso la lingua possiamo comunicare la nostra razza, il nostro genere, la nostra età, la discriminazione linguistica non sarà un caso di linguicismo e basta, bensì un elemento per veicolare il razzismo, il sessismo, l’ageismo». Nel suo saggio, Nodari attraversa alcuni dei sistemi di potere tirati dai fili invisibili, ma tangibili, del linguicismo concentrando il pezzo centrale sul sessismo. Parte da Alma Sabatini e dal suo Per un uso non sessista della una lingua italiana per riprendere il vocal fry reso evidente nel dibattito pubblico dall’allora deposizione di Paris Hilton. «Si tratta di una modalità di fonazione socialmente associata a una femminilità frivola. Un modo di parlare da sanzionare, poiché le donne con questo tono di voce verrebbero percepite come meno competenti, meno istruite, meno affidabili, meno occupabili». > La linguistica e le norme sociali del linguaggio hanno creato regole e studi > per cercare di vestire di prestigio e attendibilità scientifica a pregiudizi e > discriminazioni, come lo studio della Lingua delle donne di Lakoff, dove il > maggiore utilizzo di vezzeggiativi, ad esempio, viene ricondotta > all’intrinseca natura femminile (e servile) delle donne; studio che ha trovato > un largo seguito di illuminati pensatori. In un libro breve – come tutta la collana Bookblock di Eris edizioni – Nodari innesta semi di riflessioni profonde, supportate da una chiara bibliografia, risorse di approfondimento e fonti che scompaginano il capitalismo culturale, come post di Instagram e riferimenti alla cultura pop. Una scrittura accessibile e sempre affilata conduce alle conclusioni tra le più belle personalmente lette. Un libro che apre a più domande di quante se ne avessero in partenza, e che fa venire voglia di proseguire le riflessioni e gli studi di Rodari soprattutto in ambito queer e trans dove il linguicismo è particolarmente violento. Un libro da leggere, consultare, prestare e condividere per accendere le cene di famiglia, le pause caffè al lavoro e anche le assemblee. La lingua è potere, il linguicismo la sua manifestazione oppressiva. Sta a noi trasformare le relazioni di potere del linguaggio a partire da una consapevolezza che Linguicismo e potere innesca e propaga. Come miceli di funghi, che condizionano tutto e governano il pianeta. Che ne abbiamo coscienza oppure no. L’immagine di copertina è di emdot via Flickr L'articolo Si può essere persone orrende in tanti modi diversi proviene da DINAMOpress.
Dedicato a chi vede la violenza degli oppressi, ma chiude gli occhi di fronte alla violenza degli oppressori
La preoccupazione di vedere le cose obiettivamente costituisce la scusa legittima di questa politica d’immobilismo. Ma l’atteggiamento classico dell’intellettuale colonizzato e dei dirigenti dei partiti nazionalisti non è, in realtà, obiettivo. Di fatto, essi non sono sicuri che quella violenza impaziente della masse sia il mezzo più efficace per difendere […] L'articolo Dedicato a chi vede la violenza degli oppressi, ma chiude gli occhi di fronte alla violenza degli oppressori su Contropiano.