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Dal muro al ponte
Confine: «limite di una regione geografica o di uno stato; zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di una regione e cominciano quelle differenzianti» 1. Se provassimo a chiudere gli occhi e a concentrarci sul suono della parola confine immagineremmo immediatamente una linea che potrebbe essere dritta o curva, tondeggiante o spigolosa. Quel che è certo di una linea è che separa, crea due zone distinte, almeno all’apparenza. Al di là di essa c’è qualcosa che percepiamo come altro da noi. Sempre rimanendo a occhi chiusi, pensando al termine confine, si possono visualizzare barriere, muri, barricate e fili spinati. Sono immagini che veicolano un suono: un tonfo sordo, violento. Un muro blocca, frammenta e divide. Tuttavia, provando a spingersi oltre si può scorgere un’altra linea di confine, questa volta curva: è un ponte. Il suono che si può avvertire è quello dei passi degli individui che lo attraversano. Il presente articolo ha l’obiettivo di analizzare come le riflessioni del femminismo black e decoloniale contribuiscono ad arricchire il dibattito sul concetto di confine: sociale, interno e geografico, esterno. Per farlo si utilizzeranno tre prospettive: quella dell’antropologia delle migrazioni, funzionale a mostrare la polisemicità del termine confine e il dibattito che lo riguarda; le teorie dell’antropologo Didier Fassin, secondo cui all’amministrazione dei confini esterni corrisponde un aumento dei confini sociali interni tra classi, gruppi sociali e generi, evidenziando l’ambivalenza dei confini; ci si soffermerà poi sulla prospettiva delle autrici femmministe bell hooks, Audre Lorde e Gloria Anzaldúa. Parole chiave: Intersezionalità, femminismo, confini, oppressione, differenze, margine, lotta politica, cultura, colonialismo, decolonizzazione. PH: Andrea Miti (Il deserto dell’Arizona, al confine con il Messico). Reportage Nel deserto, contro la frontiera: Bob e i “Samaritans” A livello teorico la tematica del confine è molto ampia e questa sua complessità è visibile anche a livello semantico, specie se ci si affida alla lingua inglese. Con il termine border, confine esterno, possiamo indicare la linea di divisione politico-territoriale tra due stati nazionali. L’utilizzo del termine boundary si riferisce invece ai limiti simbolici, etnici, culturali e sociali, ovvero i confini interni agli stati nazione. Il termine frontier rimanda a uno spazio più ampio: la fascia geografica che è attraversata dalla linea di confine tra due stati. L’antropologia delle migrazioni adotta questa distinzione, in particolare quella generale tra confine e frontiera, per mostrare come questi spazi possono essere luoghi particolarmente dinamici, nonostante nel senso comune rimandino all’idea di una separazione netta tra due aree o categorie. Le migrazioni si definiscono come fenomeni che travalicano i confini nazionali, mettendoli in discussione, sebbene vengano determinate dalle stesse divisioni geografiche. I movimenti migratori contribuiscono non solo a oltrepassare i confini, ma a stabilirne di nuovi. I fenomeni legati ai confini danno vita a processi dinamici che contribuiscono alla produzione di identità individuali e collettive. A questo proposito l’antropologia delle migrazioni distingue due processi differenti: quello di b/ordering definisce il confine come elemento che limita le ambiguità territoriali e identitarie; quello di othering indica invece la nascita di nuove differenze sulle zone di frontiera, sia a livello territoriale che identitario. Nelle zone di confine i concetti di identità e alterità spesso si scontrano. Storicamente la frammentazione del blocco dell’Est e l’avvento della globalizzazione non ha portato a un universo senza confini, ma li ha trasformati. I confini non sono scomparsi, ma sono diventati mobili, molteplici e differenziali. Questo fenomeno entra in contrapposizione con la definizione giuridica tradizionale dei confini e anche con la loro rappresentazione cartografica canonica che li descrive come ai margini di un territorio. Le frontiere si sono moltiplicate e si è accentuato il loro carattere ambivalente: sono un mezzo di esclusione e al contempo di contatto, di incontro, di scambio, di violenza e di solidarietà. L’evoluzione dei confini è ben rappresentata dal processo di esternalizzazione delle frontiere che caratterizza l’Europa contemporanea. I confini vengono continuamente dislocati, posti all’esterno dello spazio europeo, espandendo i margini della “fortezza Europa”, sempre più inarrivabile. Le stesse politiche migratorie producono una stratificazione delle frontiere, mostrandone il loro carattere poroso e ambiguo. Per tanto, non possono essere concepite solo in termini di esclusione. La contemporanea militarizzazione dei confini esterni si riflette come uno specchio all’interno dei territori: il confine genera un sistema di inclusione differenziale in cui, per mezzo delle politiche, viene indirettamente prodotta l’illegalità delle soggettività migranti. Le politiche di frontiera e migratorie finiscono per condurre a una reificazione delle divisioni razziali e di classe. Secondo l’antropologo Didier Fassin il significato delle frontiere e dei confini è mutato nel corso del tempo, rendendo alcuni periodi storici più favorevoli allo sviluppo di barriere tra territori e individui. Si tratta di momenti di tensione sociale, economica e politica. La sensibilità verso le migrazioni, l’ostilità verso gli stranieri, il consolidamento tra le frontiere e la delimitazione dei confini sono dunque fenomeni ciclici. Se la circolazione delle merci è stata progressivamente facilitata attraverso accordi internazionali per i commerci, la circolazione di persone è diventata invece incredibilmente difficile per la maggior parte della popolazione del pianeta. Questo meccanismo si muove dai borders ai boundaries come un movimento violento che inasprisce le divisioni di genere, etnia e classe inasprendo le discriminazioni. In questa cornice il confine produce la precarietà del migrante: lo stato crea immigrati clandestini, attraverso la formulazione di leggi che istituzionalizzano l’illegalità di residenza. Ne consegue l’ostruzione dell’accesso al mondo del lavoro, che comporta una vita in condizioni di povertà e l’esclusione dalle politiche di welfare. Non casualmente il tema della migrazione viene direttamente affiancato a quello della sicurezza. Il nemico arriva da fuori, è l’outsider, colui che vìola il confine. Si tratta, tuttavia, di logiche di esclusione e distinzione che mirano a rimarcare la differenza tra autoctoni e alloctoni, ignorando il peso della storia coloniale che ha prodotto una distribuzione disomogenea delle ricchezze a livello globale. Anche la riflessione femminista mostra come i confini siano elementi che definiscono identità, generando relazioni di potere. In particolare, il concetto di intersezionalità può costituire un paradigma per pensare in concetto di confine. Il concetto di intersezionalità viene formalizzato nel 1989 dalla giurista afroamericana Kimberlé Crenshaw per correggere alcune alcune sentenze emesse dal sistema americano. Il suo intento è quello di mostrare come la discriminazione delle donne nere avviene tanto per una questione razziale, quanto per il sessismo. Non c’è possibilità di stabilire un confine tra questi due assi di oppressione. In generale, le teoriche dell’intersezionalità pongono l’attenzione sul dinamismo dei sistemi di oppressione: essi non sono monoliti, non si producono separatamente l’uno dall’altro, ma si compenetrano e trasformano vicendevolmente. Se venissero considerati separatamente, si creerebbe l’erronea concezione, storicamente esistita, secondo cui il sessismo può essere analizzato solo dal punto di vista della donna bianca e il razzismo solo dal punto di vista dell’uomo nero. Questo concetto contribuisce a dare valore alla prospettiva del soggetto maggiormente oppresso per comprendere il tema della discriminazione. Il concetto di intersezionalità è fondamentale perché travalica i confini, includendo nella riflessione femminista donne non assimilabili al modello della donna bianca e di classe media. Le donne nere lottano sui confini rivendicando la propria posizione, in un contesto che nega la loro capacità di azione e visibilità. Il tema del condine come elemento che definisce e ridefinisce le identità fa da sfondo agli scritti della teorica e accademica bell hooks (1952-2021). Nasce e cresce nel Kentucky, dove i quartieri abitati dai bianchi erano separati da quelli abitati dai neri tramite una rigida linea di confine, quella della ferrovia. Dai suoi scritti emerge come essere donna in un periodo storico in cui lo spazio era sottoposto a segregazione razziale contribuisce una posizione peculiare, che influisce sulle modalità di abitare e attraversare i luoghi. Le donne nere superavano quotidianamente il confine per andare a lavorare nelle case dei bianchi. Superare il confine è un’azione caratterizzata da forti implicazioni emotive, i neri si sentivano giudicati e fuori posto. Tuttavia, lo spostamento dal margine, identificato come luogo di abitazione dei neri, verso il centro occupato dai bianchi ha anche dei vantaggi: permette la conoscenza di entrambe le realtà e cambia il modo di abitare lo spazio, in particolare quello del “focolare domestico”. Nelle comunità nere, le mansioni di cura svolte dalle donne diventano un campo di battaglia, uno spazio di lotta politica. Le donne nere entravano nelle case dei bianchi per svolgere il lavoro di domestiche, si trattava di una mansione faticosa, che consumava tempo ed energia. Tuttavia, il punto di forza delle donne nere stava proprio nello sforzo di non esaurire tutte se stesse in quel lavoro, per riuscire a dedicarsi anche all’accudimento della propria casa, famiglia e comunità. C’è una netta differenza tra il sessismo che affida alle donne il lavoro riproduttivo perché considerato “naturale” e la condizione delle donne nere. Per queste ultime la gestione della casa diventa un atto politico, la strutturazione di uno spazio di cura opposto alla dimensione disumanizzante e opprimente del razzismo. La casa era uno spazio sicuro creato dalle donne per poter resiste ed esistere come soggetti attivi, non meri oggetti. Nella sfera privata avveniva la restituzione di quella dignità negata nel pubblico. Anche se il concetto di “angelo del focolare” è considerato tradizionalmente sessista dal femminismo bianco, le donne nere attraverso questo ruolo hanno compiuto un atto politico sovversivo e di resistenza. I bianchi avevano, secondo hooks, trovato un modo efficace per sottomettere i neri a livello globale, costruendo strutture sociali che minavano la strutturazione della sfera domestica. Per alimentare la fiamma della speranza e per opporsi alla mentalità colonizzatrice, promotrice dell’odio verso se stessi, le donne nere hanno rivendicato il proprio ruolo nelle abitazioni. Ricordare questo permette di capire il valore politico della resistenza nelle case. Senza uno spazio da abitare, è impossibile costruire una comunità di resistenza. Questa concezione della casa come luogo di rivendicazione politica e comunitaria agisce in due modi: da una parte crea un confine nuovo, frantumando l’immaginario per cui le donne vivono un comune destino, riportando l’attenzione sulla specificità del posizionamento della donna nera; dall’altra ci si riappropria del confine come spazio di autodeterminazione: il margine diventa un luogo di lotta. Le opere della scrittrice Audre Lorde (1934-1992) hanno contribuito ad ampliare profondamente la riflessione femminista, sollevando argomenti attuali, in cui le tematiche dei confini e della differenza risultano essere un punto centrale. Rivolgendo l’attenzione alle molteplici differenze di genere, razza, sesso, classe sociale, salute e malattia che coinvolgono le donne, Lorde ha preceduto di decenni le teorie sull’intersezionalità. Nei suoi scritti, il tema del confine, come anche nei lavori di hooks è rappresentato dalle divisioni sociali interne, i boundaries. In particolare, nel testo Sorella Outsider, che raccoglie una serie di saggi scritti tra il 1976 e il 1984, Lorde si rivolge a chi è consapevole di vivere sui confini: le outsiders, donne che non riconoscendosi negli “strumenti del padrone” non si identificano nei confini tracciati per asservire gli interessi del potere. Il testo è caratterizzato da una fitta critica nei confronti di quel femminismo bianco e accademico che promuove una semplice tolleranza della differenza tra le donne, cercando di raggrupparle in una natura comune, distruggendo di fatto il potere creativo della diversità. Secondo Lorde, infatti, soltanto quando le differenze saranno riconosciute e considerate il nostro essere nel mondo potrà diventare produttivo. Alle donne è stato insegnato di ignorare le differenze o, peggio, di vederle come causa di separazione e sospetto. La paura di una realtà così frammentata non ha permesso una liberazione dall’oppressione, ma solo maggiore vulnerabilità.Secondo Lorde, in una società basata esclusivamente sul profitto e non sul bisogno umano, è fondamentale l’esistenza di un gruppo sistematicamente oppresso e deumanizzato ai fini del mantenimento dei rapporti di potere. Questo crea l’illusione che l’unica via d’uscita per gli oppressi sia quella di omologarsi alle categorie degli oppressori. Per Lorde le differenze esistono, sono la razza, l’età, il sesso e la classe ma non sono quelle a separarci, è il nostro rifiuto a riconoscerle. L’energia necessaria a vivere e a esplorare le differenze viene riversata nel renderle dei confini invalicabili, così da trasformarle in devianze. Tuttavia, la differenza umana deve diventare un trampolino per il cambiamento, il muro che segna il confine deve diventare un ponte. Lorde fa esplicito riferimento a The Pedagogy of the Oppressed di Paulo Freire per mostrare come le possibilità di cambiamento nascono nel momento in cui gli oppressi riconoscono, anche in loro stessi, le dinamiche degli oppressori. Da qui è necessario un cambiamento, una crescita dolorosa: possiamo ridefinirci solo se lottiamo anche a fianco di chi è diverso da noi, nella condivisione di un unico obiettivo. L’azione a cui Lorde mira è legata a una continua rottura dei confini e delle differenze, per arrivare a ridefinirsi connettendo le specificità. Non bisogna chiudersi nei confini di una sola oppressione, ma riconoscere ciò che è comune in tutte loro. Così facendo Lorde riscrive il significato del termine confine da linea di separazione a processo dinamico in cui le differenze racchiudono un potenziale di unione. Le differenze risultano profondamente legate al tema dei confini, tuttavia è necessario un lavorìo politico affinché diventino ponti e non barriere. Nella sua ambivalenza, il confine non è solo il punto in cui le differenze si manifestano, ma anche quello attraverso cui queste entrano in contatto, creando comunicazione e scambio. In questa cornice, le teorie femministe sono fondamentali per riconoscere il confine come luogo di oppressione e di lotta. Questo elemento emerge in modo particolare nel testo Terra di confine/La frontera. La nuova mestiza del 1987 di Gloria Anzaldúa (1942-2004), in cui l’autrice parla della frontiera in cui è nata e cresciuta: il confine tra Texas sudoccidentale e Messico. Secondo Anzaldúa la terra di confine è un luogo in cui due o più culture si costeggiano e persone appartenenti a gruppi sociali diversi abitano lo stesso territorio. Raccontando la sua esperienza personale di vita sul confine si definisce una “donna di frontiera” che è nata e cresciuta tra due culture. Il confine non viene raccontato come un luogo confortevole, è un luogo scomodo e gli aspetti del suo paesaggio sono principalmente sfruttamento, oppressione e rabbia. Tuttavia, ad essere peculiare è la posizione di chi vive a cavallo della frontiera, secondo l’autrice, infatti, questa esperienza di vita scomoda risveglia una serie di facoltà importanti. Sebbene il confine tra Stati Uniti e Messico sia definito come una «herida abierta [ferita aperta] dove il Terzo Mondo si scontra con il primo e sanguina» (Anzaldúa, 2022: 22) è anche il luogo in cui si forma una realtà alternativa: una cultura di confine, una nuova mestiza. «Le frontiere sono innalzate per definire i luoghi insicuri da quelli sicuri, per separare un noi da loro. Una frontiera è una linea divisoria, una striscia sottile lungo un margine ripido. […] è un luogo vago, indefinito, creato dal residuo emotivo di un limite innaturale. È in uno stato di transizione costante. Suoi abitanti sono gli illegali e i non ammessi. Qui vivono los atravesados.» (Anzaldúa, 2022: 22). Nel clima opprimente della zona di frontiera gli unici abitanti considerati legittimi sono i potenti, i bianchi o chi si schiera dalla loro parte. I chicanos, gli indios e i neri sono considerati altro, alieni. Ciò nonostante, il contatto tra due culture crea delle trasformazioni inevitabili. Anzaldúa racconta come il contatto con la cultura bianca capitalista, basata sullo sfruttamento delle risorse ha cambiato e sta cambiando radicalmente lo stile di vita del Messico, rendendolo progressivamente più povero e sempre più dipendente dall’economia statunitense. La massiccia povertà ha come conseguenza, più o meno diretta, la diffusione di una tradizione di emigrazione: le persone possono scegliere se restare in Messico patendo la fame o emigrare verso l’America, con la speranza di sopravvivere. Nel passaggio illegale della frontiera, un migrante su tre viene arrestato. L’attraversamento viene descritto come particolarmente pericoloso per le donne spesso vittime di violenza e di tratta. Secondo Anzaldúa, come tutto ciò che si oppone alla norma egemone, chi abita il confine è considerato deviante. Attraverso il racconto della sua personale esperienza della vita di frontiera l’autrice vuole mettere in luce le potenzialità che nascono da questo essere devianti. Chi vive sulla frontiera è capace, attraverso le sue scelte e la sua esperienza di vita, di mettere in discussione i rapporti di potere, smascherando i meccanismi che li regolano. Le culture ibride che nascono a cavallo dei confini vengono ridiscusse come elementi che sfidano l’egemonia. Il testo di Anzaldúa si caratterizza per un continuo movimento di entrata e uscita dai confini sociopolitici e anche stilistici letterari, infatti si alternano prosa, poesia e lingue differenti. Sotto la guida delle teoriche femministe il confine viene risignificato, diviene un punto prospettico che trasforma lo svantaggio in una spinta alla lotta politica. L’invito di bell hooks a permanere nel margine rappresenta uno slancio tanto teorico quanto pratico. La politica, femminista e non, va necessariamente ripensata dal punto di vista della donna razzializzata, è necessario uno spostamento dal centro al margine per comprendere le potenzialità delle differenze. Secondo le teorie di Audre Lorde, ignorare i confini e le frammentazioni spinge a omologarsi alla logica egemone. Per spezzare la catena risulta imprescindibile conoscere la diversità, perché solo in questo modo sarà possibile superare le disuguaglianze, senza invisibilizzarle. Dal testo di Anzaldúa si percepisce la ricchezza delle culture di confine, delle realtà ibride che nascono dalle migrazioni e dalle mescolanze. È necessario conoscere la propria storia di oppressione al fine di riappropriarsene. Si tratta di un gioco di continui attraversamenti di frontiera in cui le vicende personali acquisiscono un valore politico. La realtà polisemica dei borders e dei boundaries e le teorie femministe presentate chiamano in causa la necessità di un impegno politico differente. È necessario non solo tenere conto delle differenze, ma partire dalle posizioni specifiche dei soggetti svantaggiati per definire una più totale e meno parziale strategia di intervento. BIBLIOGRAFIA Anzaldua, Gloria. 2022. La terra di confine/La frontera. La nuova mestiza. Firenze: Edizioni Black Coffee. (trad. italiana di Paola Zaccaria) Bianchi, Bruna. (a cura di). 2018. “Confini: la riflessione femminista”, Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile. 38 Brambilla, Chiara. 2014. “Frontiere e confini.” In Antropologia e migrazioni, a cura di Bruno Riccio, 45-47. Roma: CISU Fassin, Didier. 2011. “Policing Borders, Producing Boundaries. The Governmentality of Immigration in Dark Times”. Annual Review of Anthropology 40: 213-26 hooks, bell. 2022. Elogio del margine/Scrivere al buio. Napoli: Tamu. (trad. italiana di Maria Nadotti) Lorde, Audre. 2022. Sorella Outsider. Scritti politici. Milano: Meltemi. (trad. italiana di Margherita Giacobino e Marta Gianello Guida) Rudan, Paola. 2020. Donna. Storia e critica di un concetto polemico. Bologna: Il Mulino 1. da Treccani online ↩︎
Frontex conferma le responsabilità delle autorità bulgare nella morte di tre minori
A quasi un anno dalla morte di tre minori egiziani in Bulgaria, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex (The Fundamental Rights Officer – FRO) ha pubblicato un report 1 che conferma il racconto di Collettivo Rotte Balcaniche e No Name Kitchen, identificando chiaramente la responsabilità diretta della polizia di frontiera bulgara per queste morti. Nel dicembre 2024, Ahmed Samra, Ahmed Elawdan e Seifalla Elbeltagy – tre minori egiziani – avevano comunicato ai gruppi solidali di trovarsi in condizioni di emergenza nella zona di Gabar, in Bulgaria, dopo aver attraversato il confine turco-bulgaro. Pur essendo stata avvisata con ripetute telefonate, la polizia di frontiera bulgara non solo non ha risposto alle chiamate, ma si è anche adoperata per bloccare i tentativi del Collettivo di raggiungere i tre minori, che sono poi morti di ipotermia. A quasi un anno di distanza, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex conferma la versione delle organizzazioni solidali: “Le autorità bulgare avevano l’obbligo di assistere e soccorrere i migranti. Avendo informazioni sufficienti a determinare che essi si trovavano in pericolo di vita, essendo a conoscenza della loro posizione esatta e avendo i mezzi per intervenire, esse non hanno comunque adottato le misure necessarie in tempo, con il risultato che tre persone hanno perso la vita”. L’Agenzia europea rigetta inoltre la campagna di diffamazione avviata dal Ministero dell’Interno bulgaro dopo la pubblicazione del report Frozen Lives redatto dalle organizzazioni.  Rapporti e dossier/Confini e frontiere VITE CONGELATE AL CONFINE: LE RESPONSABILITÀ DELLE AUTORITÀ BULGARE E LA COMPLICITÀ DELL’UE Il rapporto di No Name Kitchen e del Collettivo Rotte Balcaniche Anna Bonzanino 5 Febbraio 2025 Secondo il Collettivo Rotte Balcaniche, inoltre la polizia di frontiera «ha intensificato il livello di criminalizzazione delle ONG, moltiplicando le indagini e gli arresti, in un chiaro tentativo di silenziare il lavoro di denuncia della violenza sul confine». Il documento di Frontex riconosce, inoltre che, al di là di questo evento specifico, la cosiddetta “incapacità” di compiere operazioni di ricerca e soccorso è in realtà una pratica di routine delle autorità bulgare. Negli ultimi anni, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali ha documentato ripetutamente le azioni della polizia di frontiera bulgara, affermando che “i pushback, spesso caratterizzati da alti livelli di violenza e trattamenti inumani o degradanti, sono una pratica quotidiana della polizia di frontiera bulgara” ed esprimendo una “profonda preoccupazione rispetto alle accuse ripetute nei confronti delle autorità bulgare di non rispondere in maniera appropriata alle chiamate di emergenza.” Tuttavia, il Collettivo ci tiene a sottolineare anche il ruolo strumentale di Frontex «che finanzia e collabora alle attività di controllo dei confini bulgari, si autoassolve nuovamente, scaricando la responsabilità dell’accaduto sulle autorità bulgare e utilizzando persino queste morti per richiedere un aumento della propria presenza in Bulgaria». Questa posizione viene definita contraddittoria, poiché il personale di Frontex opera legalmente sotto il controllo delle autorità locali: secondo il Collettivo, infatti, «i migranti intercettati da Frontex vengono poi espulsi in maniera illegale e violenta», mentre il personale dell’Agenzia «rischia di essere complice – o meglio è direttamente responsabile – di queste espulsioni». A partire da marzo 2025, Frontex ha inoltre «ripetutamente bloccato e seguito per ore squadre di ricerca e soccorso», impedendo loro di raggiungere le persone in movimento in condizione di emergenza. E ciò nonostante l’Ufficio per i Diritti Fondamentali riconosca il lavoro delle squadre civili come «autentico», denunciando al contempo i tentativi della polizia di ostacolarlo. Il Collettivo definisce però queste affermazioni come meri interventi superficiali, privi di ricadute operative: «Affermazioni come quelle dell’Ufficio restano soltanto cosmetiche se non accompagnate da azioni concrete». Da qui la richiesta di interrompere «immediatamente ogni collaborazione con e supporto alle autorità bulgare». Infine, un’eventuale inazione di Frontex sarebbe solo un’ulteriore conferma del carattere sistemico delle politiche europee di frontiera: «Se Frontex non adotterà misure adeguate, sarà una conferma in più che queste morti non sono state un incidente ma il risultato voluto e cercato di politiche di confine europee che, se non smantellate, possono soltanto uccidere». Dello stesso avviso anche No Name Kitchen che tramite la rappresentante Ric Fernandez afferma che «questi minori avrebbero potuto essere salvati, le stesse conclusioni di Frontex confermano l’esistenza di un sistema progettato per lasciar morire le persone alla frontiera, e chiunque sostenga tale sistema ne è responsabile». Anche NNK chiede a Frontex di sospendere immediatamente ogni cooperazione operativa con la polizia di frontiera bulgara, nonché di pubblicare i risultati completi del FRO e tutte le comunicazioni interne relative all’incidente, infine garantire di accertare la responsabilità per qualsiasi agente coinvolto nell’ostruzione dei soccorsi. «Questo caso non è una tragedia isolata. Esso mette in luce le carenze sistemiche nell’applicazione delle norme di frontiera dell’UE, dove le operazioni di Frontex e le autorità nazionali effettuano congiuntamente respingimenti illegali, pratiche violente e ostacoli ai soccorsi. Se Frontex continuerà a cooperare con le autorità bulgare nonostante questi risultati, confermerà che queste morti non sono incidenti isolati, ma il risultato prevedibile della politica dell’UE, una politica che continuerà a uccidere se non verrà modificata radicalmente», conclude No Name Kitchen. 1. Frontex Report – Serious Incident Reports Cat 1 ↩︎
Tra fango e frontiera: le organizzazioni che resistono tra Calais e Grande-Synthe
Tre volte a settimana, poco dopo le due e mezza del pomeriggio, il furgone del Refugee Women’s Centre parte verso Port Fluvial, la fermata dell’autobus più vicina alla jungle di Grande-Synthe. All’ombra dei pali della segnaletica, decine di donne aspettano in silenzio: nuove arrivate o presenze di lunga data, in cerca di un nome sulla lista e di un sacchetto di beni essenziali. È il rito ordinario di un luogo che vive nell’attesa – quella di chi distribuisce aiuti e quella, più incerta, di chi spera di attraversare la frontiera franco-britannica. È a queste donne che il Refugee Women’s Centre dedica la sua attenzione. L’organizzazione distribuisce vestiti, scarpe, prodotti per neonati e, soprattutto, tende, coperte e sacchi a pelo – gli unici strumenti che permettono di resistere al lungo e gelido inverno di questa frontiera. In mancanza di spazi ufficiali, molte di loro vivono in accampamenti informali, spesso insieme a familiari o amiche, in una precarietà che si rinnova ogni giorno. Le volontarie del Centre registrano i nomi, raccolgono richieste e, nelle ore stabilite, tornano con ciò che serve a garantire un minimo di sopravvivenza a chi è costretto ad attendere ancora. Reportage e inchieste/Confini e frontiere LE INVISIBILI: DONNE IN MOVIMENTO TRA CALAIS E GRANDE-SYNTHE Resistere e sopravvivere ai margini della frontiera franco-britannica Aurora Porcelli 30 Giugno 2025 Due volte a settimana, le registrazioni servono anche a organizzare un momento diverso: la possibilità, rara, di una doccia calda lontano dalle tende. Le volontarie del Refugee Women’s Centre accompagnano le donne fino a una palestra messa a disposizione dal comune, dove possono lavarsi, cambiarsi, scegliere nuovi vestiti. Mentre alcune si concedono pochi minuti di silenzio sotto l’acqua, i bambinə giocano con i giocattoli sparsi sul pavimento – un frammento di normalità in mezzo alla precarietà quotidiana. Il Women’s Centre non è solo in questo lavoro quotidiano di sostegno. Tra Calais e Grande-Synthe opera una rete fitta di organizzazioni che, con strumenti diversi, cercano di rispondere all’emergenza umanitaria e di colmare tale vuoto. Questa rete di solidarietà è fluida ma fortemente interconnessa: le associazioni si coordinano, condividono informazioni e risorse, si alternano nei turni per garantire una presenza costante sul campo. In stretta collaborazione con Utopia56 – attiva soprattutto di notte e durante le emergenze, come i naufragi – il Women’s Centre mantiene aggiornati i registri delle famiglie da assistere. Quando un’organizzazione conclude il proprio turno, l’altra raccoglie i nomi delle persone in difficoltà e li trasmette al mattino seguente, così che nessunə venga dimenticatə. Si tratta di un sistema fondato su comunicazioni rapide e fiducia reciproca, ma è proprio questa interdipendenza che permette di non lasciare indietro nessunə. Eppure, anche questa rete così compatta arriva ogni giorno al limite delle proprie forze. La solidarietà tra organizzazioni permette di spingere il lavoro oltre ciò che sarebbe possibile da sole, ma non basta a compensare le fragilità profonde di questa frontiera. Gli sgomberi si susseguono, le risorse restano scarse e l’adattamento all’ultimo minuto diventa l’unico modo per garantire una presenza costante in un contesto dove pianificare a lungo termine è semplicemente impossibile. La continua necessità di ripensare distribuzioni, trasporti e turni genera una pressione crescente su volontarie e volontari, che non solo devono fare i conti con mezzi ridotti, ma anche con stanchezza e la frustrazione di offrire aiuti pensati per l’emergenza in un contesto che di emergenziale ha solo la durata infinita. In questo contesto di improvvisazione continua, la capacità di adattamento diventa parte stessa del lavoro. Per capire cosa significhi lavorare in un contesto così instabile, ho incontrato Caro, che ha trascorso quasi un anno lungo questa frontiera: prima come volontaria del Refugee Women’s Centre, poi come play worker per Project Play – organizzazione che sostiene e tutela bambinə e famiglie in movimento offrendo attività ludiche, supporto alla genitorialità e assistenza personalizzata – e infine come Activities Coordinator, ruolo che ha ricoperto per oltre cinque mesi. Insieme abbiamo parlato di tutto ciò che spesso resta invisibile dall’esterno: di come lavorare sul campo cambi la percezione della frontiera, dei momenti più difficili o significativi nel coordinamento dei progetti, delle sfide quotidiane e di ciò che chi osserva dall’esterno fatica a comprendere di questa realtà. Lavorare sul campo, racconta Caro, ha cambiato radicalmente la sua percezione della frontiera. Prima di arrivare a Calais, conosceva la situazione solo in termini generali; essere lì le ha mostrato quanto le condizioni di vita delle persone in movimento fossero disumane e degradanti. Famiglie che avevano vissuto per anni in Germania, costruendo una vita stabile, si trovano ancora a rischiare la vita al confine, esposte a violenze e privazioni quotidiane. Come dice Caro: “Non avevo idea di quanto fossero effettivamente disumane e degradanti le condizioni di vita – anche dopo anni di lavoro con richiedenti asilo in Germania.” I momenti più difficili sono legati alla crescente precarietà del contesto: sgomberi frequenti, aggressioni da parte della polizia e di gruppi di estrema destra, condizioni di vita sempre più pericolose negli insediamenti informali. Come coordinatrice, il peso maggiore è bilanciare la gestione di emergenze, notizie di violenze e testimonianze traumatiche provenienti da bambinə, insieme al benessere dei volontari, tutti conviventi nello stesso spazio. Approfondimenti/Confini e frontiere L’ARITMETICA DELLE POLITICHE MIGRATORIE: IL CONFINE TRA CALAIS E DOVER Accordi bilaterali e sgomberi sistematici trasformano vite in statistiche e diritti in eccezioni Aurora Porcelli 9 Ottobre 2025 I momenti più significativi nascono dai piccoli successi quotidiani: vedere i bambinə divertirsi durante le attività organizzate da Project Play, ritrovare un po’ di autonomia e leggerezza anche solo per qualche ora, conferma l’importanza di spazi sicuri in cui possano giocare. Le sfide organizzative sono numerose. I progetti sul campo, spesso a capacità ridotta e con risorse limitate, dipendono quasi interamente dai volontari, che provengono da background diversi e devono convivere e collaborare in condizioni stressanti. Caro conferma come l’imprevedibilità della frontiera renda impossibile prepararsi a tutto: non si sa mai se un giorno porterà sgomberi, testimonianze di violenze, casi di protezione preoccupanti o il numero di bambinə che parteciperanno alle attività. Sottolinea: “È semplicemente impossibile prepararsi a tutto: ogni giorno porta qualcosa di completamente nuovo.” Infine, quando le chiedo cosa secondo lei le persone al di fuori di Calais non riescano a capire di questo contesto, lei afferma: «La gravità della situazione, davvero. La mia prospettiva, probabilmente, è influenzata dal fatto che sono tedesca. Ma la maggior parte delle persone sembra completamente all’oscuro di ciò che sta accadendo a Calais, o crede che sia ‘qualcosa che è successo nel 2015’. Forse per la mancanza di copertura mediatica, forse per ignoranza. Almeno in Germania, molti sembrano completamente inconsapevoli delle conseguenze reali che discorsi e politiche razziste e discriminatorie hanno sulle persone che sono venute in Germania a chiedere asilo e, più in generale, nell’Unione Europea». Eppure, tra sgomberi, risorse limitate e incertezze quotidiane, la forza di questa rete risiede nella capacità di non arrendersi mai: ogni piccolo gesto, ogni turno organizzato, ogni momento di gioco per i bambinə diventa un atto di resistenza e di cura, la dimostrazione concreta che, anche in un contesto ostile e imprevedibile, la solidarietà può farsi presente e lasciare un segno.
Grecia. Quando i diritti diventano reato
Dal 2016, le autorità greche hanno avviato oltre cinquantatré procedimenti giudiziari e indagini nei confronti di organizzazioni della società civile e singoli individui impegnati in attività di assistenza alle persone in movimento. Nel solo 2023, trentuno persone sono state imputate per reati connessi a tali attività. Con procedimenti dalla durata media di circa tre anni e mezzo, la criminalizzazione della solidarietà da parte delle autorità greche incide profondamente sull’operato delle organizzazioni umanitarie e dei difensori dei diritti coinvolti, compromettendo altresì il pieno esercizio dei diritti fondamentali delle persone in movimento. Tale fenomeno si configura come una diramazione diretta del processo di securitizzazione 1 e, più specificamente, come manifestazione della criminalizzazione della migrazione, intesa quale insieme di politiche, norme e prassi amministrative che, fondendo il diritto dell’immigrazione con la logica punitiva del diritto penale, finiscono per trasformare la mobilità umana in una condotta di rilevanza criminale. Attraverso questo approccio, il governo greco ha progressivamente costruito un vero e proprio “diritto penale del nemico”, nel quale la persona migrante non è più riconosciuta come soggetto titolare di diritti, ma viene trattato come potenziale trasgressore, destinatario di un apparato sanzionatorio spesso privo delle garanzie procedurali proprie dello Stato di diritto. Emblematico, in tal senso, è l’emendamento n. 71 della Legge 5218 2 adottato dal governo greco nel luglio 2025, che ha sospeso per tre mesi la possibilità di presentare domanda d’asilo per le persone giunte via mare dal Nord Africa, nonché l’intervento normativo introdotto con la Legge 5226/2025 3, approvata nel mese di settembre 2025, che istituzionalizza la criminalizzazione del soggiorno irregolare. Approfondimenti/Confini e frontiere GRECIA, SOSPENSIONE DELL’ASILO E NUOVA RIFORMA RAZZISTA DEL GOVERNO MITSOTAKIS Atene anticipa la linea più dura del Patto UE Redazione 14 Agosto 2025 In risposta all’implementazione di questa legge draconiana e alle deportazioni da Creta dei richiedenti asilo senza alcun esame individuale delle loro domande, centootto organizzazioni della società civile hanno presentato ricorso cautelare dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 4. Le organizzazioni hanno denunciato la palese incompatibilità di tale sospensione con il diritto internazionale ed europeo, in particolare con il divieto assoluto di refoulement, ottenendo così l’emanazione delle misure provvisorie della Corte del 14 agosto 5, che hanno impedito la deportazione di otto richiedenti asilo sudanesi e, il 29 agosto 6, di quattro richiedenti asilo eritrei, tutti giunti a Creta. PH: Stop Pushbacks Lesvos (4.11.25) Questa vittoria della società civile rappresenta un trionfo dello Stato di diritto e dei diritti umani sulle logiche securitarie della politica migratoria greca. Tuttavia, il Ministro della Migrazione, Thanos Plevris, ha annunciato nuove misure per silenziare le critiche alle politiche del governo: le ONG potrebbero essere rimosse dal registro ufficiale se promuovono politiche migratorie contrarie, contestano decisioni come detenzioni amministrative o sospensioni delle procedure di asilo, o gestiscono i fondi in maniera ritenuta irregolare. Secondo le autorità, queste restrizioni sarebbero giustificate dalla presunta condotta “anticostituzionale” delle organizzazioni, accusate persino di consigliare ai migranti di ignorare l’ordinamento giuridico greco. In realtà, questa misura si inscrive perfettamente nel piano di criminalizzazione avviato dal governo ellenico con l’obiettivo di plasmare uno spazio civico sempre più ristretto per le organizzazioni operanti nell’ambito della solidarietà come evidenziato, tra l’altro, dal rapporto della Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Difensori dei Diritti Umani 7, Mary Lawlor, già nel 2023. Tuttavia, contro la criminalizzazione governativa della società civile – che, oltre a danneggiare chi ha bisogno, mina il tessuto stesso della democrazia, come sottolineato da Human Rights Watch 8 – continuano a resistere numerose realtà di solidarietà attiva. Tra queste, a Lesbo, il Community Centre di Paréa (Europe Cares), dal greco “cerchio di amici”, a soli dieci minuti dal campo di Mavrovouni, ridà alle persone in movimento normalità, dignità e senso di comunità. Secondo il team, il centro rappresenta un memorandum quotidiano del potere del lavoro collettivo, uno spazio in cui volontari internazionali e della comunità migrante costruiscono insieme una vera comunità nella solidarietà. Oltre ai servizi offerti, Paréa promuove l’empowerment delle persone in movimento, anche attraverso la partecipazione politica. Un gruppo di volontari attivi sull’isola di Lesvos in Grecia, uniti per lottare contro i pushbacks delle persone in movimento nel Mar Egeo. La loro missione è creare consapevolezza, attraverso proteste e una campagna sui social media, per porre fine a queste pratiche. Profilo IG Il 4 novembre, a Mitilene (sull’isola di Lesbo), si è svolta una manifestazione e commemorazione contro la condotta illegale dei pushbacks in mare e le morti in mare, in seguito alla tragedia del 27 ottobre, che ha visto la morte di quattro persone nelle acque dell’isola. Volontari internazionali, persone in movimento e abitanti locali si sono radunati davanti al mare, ciascuno con una candela in mano, in un potente momento di memoria, solidarietà e resilienza. 1. Con il termine “securitizzazione” della migrazione si fa riferimento al processo attraverso il quale le persone in movimento vengono rappresentate e trattate come una minaccia esistenziale per l’identità nazionale, la sicurezza dello Stato e l’ordine pubblico. Tale processo si fonda su atti linguistici e pratiche istituzionali che mirano a trasferire la questione migratoria dal piano della gestione ordinaria a quello dell’emergenza e della sicurezza. In tal modo, si legittima una gestione eccezionale del fenomeno migratorio, spesso estranea alle procedure democratiche e ai meccanismi ordinari del diritto, e pertanto priva delle garanzie proprie dello Stato di diritto ↩︎ 2. Qui l’emendamento ↩︎ 3. Qui la legge ↩︎ 4. Ai sensi dell’articolo 39 del Regolamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorso cautelare è una procedura d’urgenza volta all’ottenimento di un provvedimento idoneo a fronteggiare – e, se possibile, a prevenire – il rischio di un’imminente violazione di un diritto garantito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ↩︎ 5. European Court of Human Rights blocks deportation of refugees detained by Greece under unlawful asylum suspension – RSA (agosto 2025) ↩︎ 6. New ECtHR decision: Greece prohibited from deporting refugees before they have had access to asylum procedure – RSA (settembre 2025) ↩︎ 7. Leggi il rapporto ↩︎ 8. Eva Cossé, (2025). “Greece’s Latest Assault on Civil Society. EU Action Needed to Protect Civic Space”, Human Rights Watch ↩︎
Il confine come laboratorio di impunità: il Policy Memo del BVMN sui Balcani
Il 22 settembre, il Border Violence Monitoring Network (BVMN) ha pubblicato Policy Memo: Strengthening Migration Governance Monitoring in the Balkans 1, un documento politico che ha preso forma nel corso della consultazione con l’Alto Commissariato ONU per i diritti umani. Rispondendo alla Risoluzione 57/14 del Consiglio dei diritti umani, l’Ufficio dell’Alto Commissariato ONU per i diritti umani (OHCHR) ha realizzato un’indagine sulla possibilità di monitorare gli effetti pratici delle politiche migratorie europee. In questo contesto, le Nazioni Unite hanno consultato organizzazioni della società civile per rispondere a una domanda complessa: è possibile trovare strumenti per rilevare e controllare le pratiche usate nella gestione dei flussi migratori? La relazione finale dell’OHCHR 2 nominava in modo esplicito il Border Violence Migration Network (BVMN) come soggetto in grado di svolgere questa funzione, specialmente nei contesti caratterizzati da scarsa accessibilità e ostacolo al monitoraggio (delle aree più remote, ma non solo), criminalizzazione e difficoltà nel contatto coi i decisori politici. Il Network è stato quindi una delle organizzazioni più ascoltate dell’OHCHR stessa nel corso dei suoi lavori. Nel contesto di questi, il BVNM ha consegnato alle Nazioni Unite una nota politica e risposte scritte alle domande più critiche sollevate sulle tecnologie usate per il controllo delle persone migranti. Nel Policy Memo, i Balcani in particolare sono individuati come zona di grave mancanza di accountability degli attori statali e di confini segnati da violenza e violazioni dei diritti umani 3. Gli unici soggetti che qui agiscono per cercare un cambiamento positivo sono organizzazioni della società civile, spesso criminalizzate e in difficoltà per la mancanza cronica di fondi e di spazi (reali e virtuali) dove diffondere il proprio lavoro e portare avanti azioni di sensibilizzazione del contesto sociale. In generale, gli Stati europei usano sparizioni forzate e pushback istantanei per nascondere i propri abusi sui migranti. Il Network e i suoi membri hanno rilevato 25.000 pushback da parte di 14 Paesi. Spesso le persone migranti vengono detenute in segreto in luoghi inadatti al fermo di qualsiasi soggetto: garage, caravan, stalle, edifici abbandonati e pericolanti, container di metallo e addirittura canili. Nel 2021 il 20% delle detenzioni dimostrate di persone migranti non erano comunicate formalmente, non seguivano le normali procedure per la detenzione di individui. Nel 2024, il BVMN ha raccolto prove di 19 detenzioni irregolari. In totale continuità con questa pratica è evitare di registrare le persone migranti detenute: diventano fantasmi che passano attraverso carceri (veri o improvvisati) senza lasciare traccia. Tra 2022 e 2024, il 96% delle persone migranti soggette a pushback in Grecia non era stata registrata dalle autorità. Questo meccanismo alimenta l’impossibilità di obbligare gli attori statali a rispondere del destino delle persone migranti sul loro territorio. Per creare poi maggior danno alle persone migranti e insieme nascondere meglio gli abusi da loro subiti, le autorità distruggono i loro beni personali (e sopratutto dei telefoni cellulari). Significa distruggere la loro possibilità di geolocalizzarsi, comunicare con la famiglia, dimostrare la loro identità, provare l’eventuale passaggio attraverso diversi Stati e raccogliere prove di violazioni dei loro diritti. In Croazia, il Network ha documentato vere e proprie pire di oggetti “migranti”. Questa pratica si inserisce all’interno di un contesto legislativo, amministrativo e spesso sociale che criminalizza la migrazione nel tentativo (mai riuscito) di scoraggiarla. Nel 2022, ad esempio, la Turchia ha deportato una ragazza siriana verso il Nord della Siria dopo che, per proteggerla, il fratello ha denunciato gli abusi fisici e verbali che lei subiva a scuola. Rispetto alla società civile, il BVMN ha rilevato che gli Stati costruiscono ostacoli (legislativi e di fatto) per impedire alle organizzazioni non-governative di monitorare la gestione dei flussi migratori e di effettuare operazioni di search and rescue a terra. In più, si impegnano nella criminalizzazione dei difensori dei diritti umani attraverso strumenti più o meno formali: ostacoli burocratici e amministrativi alla loro vita quotidiana, legislazioni sempre più restrittive, sorveglianza (non dichiarata), inchieste e procedimenti giudiziari non giustificati, campagne diffamatorie, aggressioni, atti di vandalismo, furti. Il tutto nella quasi completa impunità, perché anche in questo contesto le autorità continuano a sfuggire a qualsiasi meccanismo di controllo e di ottemperanza a politiche rispettose dei diritti umani. Nel Policy Memo, il Border Violence Migration Network suggerisce buone pratiche. Sottolinea particolarmente la necessità di integrare il lavoro di investigazione della società civile, delle ONG e dei difensori dei diritti umani nelle riflessioni e procedure delle grandi istituzioni (come l’ONU) per portare alla luce in modo più completo e capillare le violazioni dei diritti umani che gli Stati perpetrano (quasi) indisturbati ai danni delle persone migranti e per responsabilizzare in modo inderogabile i decisori politici. Suggerisce anche l’uso delle nuove tecnologie per verificare il destino e/o la posizione delle persone migranti scomparse. Ma proprio la tecnologia, sottolinea ancora il BVMN, ha una doppia valenza. Chiamato dal Consiglio ONU sui diritti umani a rispondere ad alcune domande riguardanti l’uso di nuove tecnologie nelle politiche migratorie da parte degli Stati, il Network ha infatti messo in luce alcune pratiche molto pericolose. Innanzitutto, la mancanza di trasparenza nell’implementazione di tecnologie per la consapevolezza situazionale nei sistemi di sorveglianza dei confini: i Governi non rendono noto in maniera completa quali strumenti tecnologici usano, in che quantità e modalità, dove lungo i confini li posizionano. La scusa è la “sicurezza nazionale”, spesso usata nei discorsi giustificanti la violenza contro le persone migranti e chi le aiuta e difende. Complesso è pure l’accesso a dati, fotografie, filmati raccolti da droni, radar e camere: spesso sono fatti scomparire, cancellati o nascosti, per evitare che servano in processi di denuncia e rivendicazione di diritti umani. A ciò si aggiunge l’evoluzione materiale di queste tecnologie, che ne rende molto difficile l’identificazione: a fronte di una sempre crescente precisione e velocità di rilevamento dati, hanno dimensioni sempre più piccole e aspetto sempre più anonimo. Infine, c’è l’uso allarmante di spyware per colpire organizzazioni e individui che difendono i diritti delle persone migranti. A febbraio 2025, diversi quotidiani italiani hanno riportato che i cellulari di circa 90 attiviste italiane e non sono stati infettati da Graphite, un software di spionaggio creato a scopi militari dall’azienda israeliana Paragon. In merito alla questione, il presidente esecutivo di Parago John Fleming ha dichiarato: la società «concede in licenza la sua tecnologia a un gruppo selezionato di democrazie globali, principalmente agli Stati Uniti e ai suoi alleati». Non ha fatto alcuna ulteriore specifica. Il Policy Memo: Strengthening Migration Governance Monitoring in the Balkans contiene un’ulteriore prova che il sistema di impunità costruito, alimentato e difeso da “democrazie” violatrici di diritti umani, discriminatorie e razziste è consistente e si sta evolvendo utilizzando strumenti di ultima generazione, pratiche che tendono alla “violazione invisibile” dei diritti umani e politiche che de-umanizzano le persone migranti mentre squalificano socialmente chi le aiuta. Il lavoro del Border Violence Migration Network dimostra anche che l’unico ostacolo a questa corruzione è la reazione della società civile. 1. Qui il documento ↩︎ 2. Leggi il documento ↩︎ 3. BVMN Monthly Report – August 2025 ↩︎
L’aritmetica delle politiche migratorie: il confine tra Calais e Dover
Sulle coste ventose di Calais, tende e rifugi di fortuna sorgono e scompaiono nel giro di poche ore, spazzate via da sgomberi regolari. Qui, sulla soglia del Canale della Manica, si consuma ogni giorno una delle frontiere più simboliche d’Europa: quella tra Francia e Gran Bretagna. Reportage e inchieste/Confini e frontiere LE INVISIBILI: DONNE IN MOVIMENTO TRA CALAIS E GRANDE-SYNTHE Resistere e sopravvivere ai margini della frontiera franco-britannica Aurora Porcelli 30 Giugno 2025 Non è solo un confine geografico, ma uno dei punti cardine delle politiche di esternalizzazione che caratterizzano l’intero continente in tema di migrazione. Ed è proprio lungo queste coste che migliaia di persone ogni anno cercano di varcare il mare, con la speranza di raggiungere il Regno Unito. Le politiche di esternalizzazione delle frontiere non sono una prerogativa italiana. Francia e Gran Bretagna hanno segnato una svolta nel 2003 con la firma del Trattato di Le Touquet, entrato in vigore l’anno successivo, il quale ha ridefinito i controlli alla frontiera marittima con l’obiettivo di gestire i flussi migratori. Al confine tra Francia e UK, il 2024 è stato l’anno più mortale per i bambini. Dal 2018, 1/5 delle persone escluse dalle rotte sicure per il Regno Unito erano bambini. Età media? Solo 7 anni. (Fonte: Calais Appeal 1) Tale accordo si distingue per una peculiarità: il suo testo completo non è mai stato pubblicato, e per leggerlo bisogna risalire agli archivi delle Nazioni Unite, nel registro dei trattati depositato nel 2006 2 L’accordo ha di fatto ridefinito la gestione dei controlli di frontiera tra Francia e Regno Unito. Chi vuole entrare in Inghilterra viene sottoposto ai controlli della polizia britannica già sul lato francese della Manica, mentre chi intende raggiungere la Francia deve affrontare i controlli delle autorità francesi direttamente in territorio inglese. Il risultato è che alle persone in movimento alle quali viene negato l’ingresso nel Regno Unito, si ritrovano automaticamente bloccate in Francia. L’articolo 9 del medesimo inoltre, contiene un elemento controverso: esclude la possibilità di presentare domanda di asilo direttamente alla frontiera. In pratica, chi intende chiedere protezione deve riuscire a raggiungere il territorio del Regno Unito; altrimenti la richiesta viene respinta immediatamente, privando così i migranti non solo di un canale legale di accesso, ma anche del diritto a chiedere protezione riconosciuto dalle convenzioni internazionali. Pochi giorni fa, nel Regno Unito è arrivato la prima persona migrante nell’ambito del cosiddetto “one in-one out deal”. L’accordo, discusso tra giugno e luglio ed entrato in vigore il 4 agosto 2025, punta a scoraggiare le traversate del Canale della Manica su imbarcazioni di fortuna. In base all’intesa, la Francia riprende i migranti senza legami familiari nel Regno Unito, mentre Londra concede asilo a chi può dimostrare connessioni familiari. Notizie/Confini e frontiere L’ACCORDO “UNO A UNO” TRA FRANCIA E REGNO UNITO Un ulteriore passo verso la deumanizzazione delle persone migranti Maria Giuliana Lo Piccolo 7 Agosto 2025 L’accordo presenta diverse criticità. Innanzitutto, limita l’accesso all’asilo ai soli migranti con legami familiari nel Regno Unito, contravvenendo non solo al principio di non-refoulement, ma più in generale ai dettami della Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Presentato come deterrente ma, al contrario, rischia di spingere le persone a intraprendere traversate ancora più pericolose. Sul piano pratico, scarica sulla Francia il peso dei respinti, aggravando la già fragile situazione di Calais e di altre città di confine come Dunkerque. Infine, il meccanismo “uno dentro-uno fuori” riduce le persone a numeri intercambiabili: chi non ha parenti nel Regno Unito viene respinto a prescindere dal proprio bisogno di protezione e senza possibilità di vedere esaminata la propria domanda d’asilo. Dunque, se a livello politico le persone in movimento vengono trattate come numeri da scambiare tra Londra e Parigi, sul terreno questa aritmetica si traduce in sgomberi continui. Lo smantellamento della cosiddetta Jungle nell’ottobre 2016 non ha risolto il problema, ma lo ha semplicemente disperso lungo la costa. Oggi, ogni due giorni tende e rifugi vengono demoliti, costringendo uomini, donne e bambini a ricominciare da zero, mentre le ONG vedono il loro lavoro vanificato dai sequestri o dalla distruzione sistematica di tende e beni. Tuttavia, il lavoro delle organizzazioni non si esaurisce nella distribuzione di beni di prima necessità. Fondamentale è anche la denuncia pubblica di quanto quotidianamente accade lungo la frontiera. In questo senso, un ruolo centrale è svolto da Human Rights Observers 3, un team di volontari attivo tra Calais e Grande-Synthe. La loro missione è monitorare, documentare e contestare le pratiche delle autorità, con l’obiettivo di difendere i diritti fondamentali delle persone in movimento, attraverso l’osservazione diretta delle operazioni di polizia e la raccolta di testimonianze sia dai migranti sia dai volontari presenti sul campo. PH: Human Rights Observers Ma cosa si intende quando si parla di ‘sgombero’? Secondo la definizione dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, si definisce una ‘forced eviction’: “the permanent or temporary removal against their will of individuals, families and/or communities from the homes and/or land which they occupy, without the provision of, and access to, appropriate forms of legal or other protection” 4. Tenendo questa definizione in mente, le operazioni di sgombero a Calais sono caratterizzate dalla loro frequenza e regolarità. Ogni 48h, dunque, convogli composti da prefettura, polizia francese, gendarmeria mobile e talvolta CRS (Compagnie républicaine de sécurité) arrivano negli accampamenti informali di Calais per sgomberare gli alloggi di fortuna. Armati e accompagnati da squadre di pulizia, obbligano le persone a spostarsi in aree designate portando con sé tutti i beni. Inoltre, durante tali operazioni, la polizia effettua controlli d’identità che spesso sfociano in arresti, talvolta persino di minorenni che per legge dovrebbero godere di protezione statale. L’osservazione e la documentazione di queste operazioni è particolarmente complicata: gli osservatori, volontari, avvocati e giornalisti vengono tenuti fuori dal vasto perimetro di sicurezza, limitando la possibilità di monitorare ciò che accade sul campo. In questo scenario, la trasparenza diventa un’illusione. Ogni sgombero a Calais ripete lo stesso schema: vite trasformate in numeri, diritti ridotti al silenzio, speranze spezzate e storie cancellate in pochi istanti, mentre le persone restano intrappolate in un limbo di precarietà e invisibilità, dove ogni politica di sicurezza e respingimento apre la strada a una nuova ferita sociale. E, come sottolineato in un rapporto del Relatore Speciale sui diritti dei migranti: “la percezione dei migranti da parte di molti attori come “illegali” è controproducente e non si basa su fatti né sulle disposizioni del diritto internazionale. Sebbene i migranti che arrivano nell’Unione Europea senza documenti si trovino in una situazione irregolare (o “senza documenti” o “non autorizzata”), non hanno commesso alcun reato. […] Ciò ha anche avuto un impatto sulla percezione generale dei migranti da parte dell’opinione pubblica, legittimando politiche non conformi alle garanzie dei diritti umani e contribuendo a xenofobia e discriminazione” 5. 1. Calais Appeal unisce 6 organizzazioni (L’Auberge des Migrants with their two projects Channel Info Project and Woodyard, Calais Food Collective, La Capuche Mobilisée, Project Play, Refugee Women’s Centre, e Utopia 56 Calais & Grande-Synthe) che forniscono cibo, riparo e supporto e chiedono: Percorsi sicuri; Libertà di movimento; Fine della violenza al confine; Accesso ai servizi di base ↩︎ 2. United Nations, Treaty Series, 2006, p. 160 ↩︎ 3. Human Rights Observers, Forced evictions in Calais and Gande-Synthe ↩︎ 4. OHCHR, Forced evictions, Special Rapporteur on the right of adequate housing ↩︎ 5. Human Rights Council, Report of the Special Rapporteur on the human rights of migrants, François Crépeau, A/HRC/29/36, 8 Maggio 2015, p. 14, para. n. 72 ↩︎
Waives’ Stories: un cortometraggio sulla violenza dei confini
> Nel rispetto di tutte le persone schiacciate dai confini, > che il mare sia testimone di vita. Waives’ Stories è un cortometraggio che vuole mostrare come i confini continuino ripetutamente ad esercitare violenza sulle persone, schiacciandole e respingendole. È una creazione che vuole mantenere i riflettori sulle violazioni create da accordi, finanziamenti, e politiche, ed evidenziare la soggettività di ogni persona che affronta viaggi inimmaginabili attraversando interi continenti. Abbiamo raccolto diverse storie in Tunisia e riflettuto soprattutto sulle stragi, incrementate dall’esternalizzazione dei confini europei, che avvengono continuamente nel Mar Mediterraneo (ma non solo), ormai sempre più spazio di morte invece che di condivisione. Unendo passione per lo stop-motion e consapevolezza sociopolitica di questa violenza sistemica, Waives’ stories è un invito a fermarsi e ascoltare, dando valore ad ogni vita riportata dal mare. Aurora Suma (storywriter) and Rabii Gobji (regia e animazione)
Conferenza: “Esternalizzazione delle frontiere: a rischio lo Stato di diritto?”
Qual è l’impatto delle politiche di esternalizzazione delle frontiere sullo Stato di diritto e sui diritti delle persone migranti? A partire da questa domanda, l’ASGI promuove la conferenza internazionale “Cartografia della deresponsabilizzazione. Politiche di esternalizzazione e stato di diritto”, che si terrà il 25 e 26 settembre 2025 a Roma, presso la Città dell’Altra Economia. Il programma completo Il modulo d’iscrizione In un momento storico in cui il controllo delle frontiere viene sempre più delegato a Paesi terzi – spesso privi di sistemi efficaci di tutela dei diritti – in cambio di fondi, mezzi e sostegno politico, mentre le procedure d’asilo vengono progressivamente spostate al di fuori dei confini europei e si ipotizza la creazione di return hubs esterni all’UE, la necessità di un confronto pubblico, critico e transnazionale si fa sempre più urgente.  Due giornate di dibattito e approfondimento, con la partecipazione di avvocatз, attivistз, studiosз e giornalistз da diversi Paesi, per interrogarsi su: * quali garanzie giuridiche vengono oggi sacrificate nel silenzio della politica europea; * in che modo queste strategie stanno erodendo i principi democratici e l’effettività dei diritti fondamentali; * quali strumenti legali, politici e culturali possono essere messi in campo per contrastare questa deriva e difendere la libertà di movimento. La conferenza metterà in dialogo le esperienze europee, australiane e statunitensi in materia di deportazione, isolamento e contenimento delle persone migranti, per riflettere sull’impatto di tali politiche sui sistemi giuridici nazionali e internazionali. A partire dalle esperienze maturate in questi anni nell’ambito dei progetti Sciabaca&Oruka, InLimine e Medea di ASGI, il convegno mira a costruire uno spazio condiviso per lo scambio di pratiche e l’elaborazione di strategie comuni di contrasto. * La conferenza è gratuita previa iscrizione e si svolgerà esclusivamente in presenza. * Sarà disponibile la traduzione simultanea in italiano e in inglese. * L’evento è in fase di accreditamento presso il COA di Roma. Relatrici e relatori: Anna Brambilla (ASGI), Behrouz Boochani (Poeta e attivista), Caterina Bove (ASGI), Giulia Crescini (ASGI), Luigi Daniele (Università degli Studi del Molise), Chiara Favilli (Università degli Studi di Firenze), Lucia Gennari (ASGI), Arif Hussein (Human Rights Law Center, Australia), Loredana Leo (ASGI), Stephen Manning (Innovation Law Lab, USA), Giansandro Merli (Il Manifesto), Enrica Rigo (Università Roma Tre), Ulrich Stege (ASGI), Martina Tazzioli (Università di Bologna), Giulia Vicini (ASGI). L’evento ASGI è organizzato dal Progetto Sciabaca&Oruka in collaborazione con i Progetti InLimine e Medea.
Polonia: controlli e violenza al confine
Il 7 luglio scorso la Polonia ha introdotto i controlli alle frontiere con Germania e Lituania, prorogati a inizio agosto fino al 4 ottobre. Dopo un vertice sulla sicurezza con governatori e capi delle guardie di confine il ministro dell’Interno Kierwiński, , ha annunciato che il regolamento era stato notificato alla Commissione europea 1. Il ministro ha sottolineato la crescente pressione sul confine orientale, spiegando che la barriera polacca ha bloccato quasi del tutto i flussi da Bielorussia e Russia, spostando le rotte migratorie verso altri Paesi UE: «La tenuta al 98% della nostra barriera significa che i servizi bielorussi e russi, insieme alla migrazione illegale, si stanno spostando verso altre sezioni». Ha poi aggiunto: «Oggi la questione fondamentale, non solo per noi ma anche per i nostri partner dell’Unione Europea, è chiudere – se posso usare questo termine – la rotta che si è spostata verso Lituania e Lettonia» 2. Il mantenimento dei controlli alle frontiere interne Schengen mina il principio di libera circolazione dell’Unione Europea. Anche la Germania (già dal 2023) ha introdotto controlli ai confini con Polonia e Repubblica Ceca per contrastare l’immigrazione irregolare, estendendoli poi, lo scorso anno, a tutte le sue frontiere. In Lituania i controlli sono attivi in 13 punti, di cui tre valichi ufficiali, mentre gli altri dieci sono postazioni mobili utilizzabili dai residenti locali. In Germania, invece, i controlli si svolgono in 52 località 3. Sempre nel mese luglio, il parlamento polacco ha prorogato per altri 60 giorni la sospensione del diritto a richiedere asilo, approvata con 381 voti favorevoli e solo 19 contrari. Introdotto per la prima volta a marzo 2025, questo provvedimento era già stato prorogato a maggio e prevede la possibilità di limitare temporaneamente il diritto d’asilo in caso di “strumentalizzazione della migrazione”, quando considerata una grave minaccia alla sicurezza nazionale. Notizie/Confini e frontiere POLONIA, PROROGATA LA LEGGE CHE LIMITA IL DIRITTO D’ASILO AL CONFINE CON LA BIELORUSSIA Le ONG denunciano respingimenti illegali e violenze, anche sui minori non accompagnati Gaia Facchini 10 Luglio 2025 Ad aprile, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha disposto misure cautelari per impedire il rimpatrio delle persone migranti in Bielorussia, ma almeno una di queste misure è stata ignorata dalla Guardia di Frontiera polacca 4. La situazione al confine con la Bielorussia rimane grave, con violenze ricorrenti e limitazioni dei diritti fondamentali di persone in movimento e richiedenti asilo. Il 23 Luglio, un soldato polacco ha ferito a una coscia un cittadino sudanese nei pressi di Narewka, al confine con la Bielorussia, dopo che un gruppo era stato fermato per ingresso irregolare; l’uomo è stato ricoverato ma non è in pericolo di vita 5. L’esercito ha giustificato l’uso della forza con la necessità di tutelare i militari e di fronteggiare comportamenti aggressivi, mentre cinque persone migranti sono stati consegnate alla Guardia di Frontiera. Le autorità hanno riferito circa 100 tentativi di attraversamento illegale registrati il giorno precedente. Al confine sono frequenti gli scontri tra autorità polacche e persone in movimento: nel giugno 2024 un soldato polacco era stato presumibilmente accoltellato da una persona migrante. Dal 2021, diverse organizzazioni della società civile hanno denunciato che centinaia di persone hanno perso la vita nelle zone di confine, a causa dei respingimenti illegali attuati dalla parte polacca e della violenza delle autorità bielorusse. Nell’aprile 2024, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha stabilito che la Polonia aveva violato gli articoli 3 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il protocollo 4 della Convenzione spingendo ripetutamente un gruppo verso l’Ucraina. Sebbene i tribunali nazionali abbiano anche ripetutamente ritenuto illegali le pratiche di respingimento delle autorità, queste sono continuate per tutto il 2024 6. Il rapporto AIDA sul 2024 sulla Polonia 7, pubblicato nel mese di luglio, contiene una panoramica dettagliata sugli sviluppi legislativi e pratici in materia di procedure d’asilo, condizioni di accoglienza, detenzione dei richiedenti asilo. Nel 2024, 17.020 persone hanno richiesto protezione internazionale in Polonia, di cui 14.571 per la prima volta, con il 65% costituito da cittadini ucraini e bielorussi. Gli altri punti principali che emergono dal rapporto sono: * Nel 2024 continuano le segnalazioni di violenza verbale e fisica (uso di armi da fuoco, percosse e uso sistematico di spray al peperoncino), anche da parte di agenti della guardia di frontiera polacca. Registrati in totale 3183 respingimenti. * Reintrodotto il divieto di accesso all’area di confine a giugno 2024, prorogato per tutto l’anno, impedendo alle ONG di fornire aiuti umanitari a chi cerca protezione internazionale. Inoltre, nel 2024 sono proseguiti i procedimenti giudiziari contro operatori umanitari, accusati, tra l’altro, di “agevolare la permanenza illegale in Polonia”. * La mancanza di effettiva identificazione delle persone vulnerabili continua a essere condannata dalle ONG polacche. Per quanto riguarda le condizioni di accoglienza al confine polacco-bielorusso, queste sono rimaste critiche nel 2024: molti richiedenti asilo non hanno avuto accesso a strutture materiali o assistenza medica, nonostante violenze subite, ferite o estrema stanchezza, situazione aggravata dal divieto di soggiorno in alcune zone di frontiera che ha ostacolato l’intervento delle ONG. I minori non accompagnati richiedenti asilo hanno faticato a trovare sistemazioni adeguate, e spesso rifugi d’emergenza o strutture giovanili hanno rifiutato l’accoglienza dei minori portati lì dalle guardie di frontiera. La detenzione di famiglie con bambini è continuata, senza rispetto del principio del “miglior interesse del minore”, e le vittime di violenza o tortura sono state ancora collocate in centri di detenzione. Il Comitato ONU per i diritti economici, sociali e culturali, ha espresso preoccupazione per l’alto tasso di povertà e il rischio di sfruttamento abitativo tra persone rifugiate, mentre la protezione temporanea per cittadini ucraini e loro familiari è stata prorogata fino al 2025-2026, con criteri di registrazione più restrittivi. Nonostante l’aumento delle domande di asilo, le autorità hanno adottato un approccio più restrittivo, limitando la libertà di movimento dei beneficiari di protezione temporanea e condizionando l’accesso ai diritti socio-economici. Persistono anche nel 2025 gravi violazioni dei diritti umani, la crisi umanitaria al confine e la progressiva fortificazione della zona, accompagnate dalla criminalizzazione dell’assistenza umanitaria. Gli orrori al confine non si sono fermati, come conferma il rapporto “Brutal Barriers” realizzato da Oxfam e l’ONG Egala che documenta respingimenti, violenze fisiche – tra cui percosse, morsi di cani e violenza sessuale – e decessi nella cosiddetta “terra di nessuno”. Continuiamo a denunciare un sistema che lede sistematicamente i diritti fondamentali, legittimandosi al contempo sul piano sociale, politico e istituzionale. Rapporti e dossier/Confini e frontiere BRUTAL BARRIERS: RESPINGIMENTI, VIOLENZA E VIOLAZIONI ALLA FRONTIERA TRA POLONIA E BIELORUSSIA Il rapporto realizzato da Oxfam ed Egala Ludovica Mancini 19 Agosto 2025 1. Poland extends border controls with Germany and Lithuania, Eliza Meller/ew (3 Agosto 2025) ↩︎ 2. Poland extends border controls with Germany and Lithuania, TVP World (3 agosto 2025) ↩︎ 3. Polonia: prorogati i controlli alle frontiere con Germania e Lituania, Katarzyna-Maria Skiba (3 Agosto 2025) ↩︎ 4. AIDA (Asylum Information Database) Country Report on Poland – Update on 2024, ECRE ↩︎ 5. Polish soldier shoots migrant with rubber bullet at border, TVP World (23 luglio 2025) ↩︎ 6. AIDA (Asylum Information Database) Country Report on Poland – Update on 2024, ECRE (10 luglio 2025) ↩︎ 7. Scarica il rapporto di Asylum Information Database (AIDA) sulla Polonia pubblicato nel luglio 2025 ↩︎
Anatomia di un approdo qualsiasi
Lampedusa, agosto. Il giorno dopo l’ennesimo naufragio. Attraverso la descrizione delle pratiche di sbarco al molo Favaloro, spazio liminale e metonimia del confine europeo, il testo mette in luce la tensione costante tra accoglienza e controllo, tra salvataggio e classificazione. Il molo appare come luogo fisico di approdo, ma anche come dispositivo politico e simbolico, in cui il “naufrago” diventa “migrante ufficiale” e i corpi, ridotti a numeri, vengono gestiti secondo logiche amministrative e securitarie. Al tempo stesso, negli interstizi di questo limine, si collocano forme di riconoscimento reciproco: gesti minimi che aprono spazi di relazione volti a restituire dignità e soggettività. In un contesto dominato dall’urgenza e dalle cifre, è possibile interrompere la “circolarità della violenza”: questo accade quando si trasforma il molo da luogo di pura gestione a spazio di resistenza e un corpo migrante da numero torna ad essere persona. PH: Tanja Boukal È agosto, l’indomani dell’ennesima strage evitabile, e quello che si compie stasera è un normalissimo arrivo, il secondo della giornata. Ci sono stati tempi, sull’isola, in cui gli approdi si susseguivano senza sosta, ma le politiche europee e gli accordi con Libia e Tunisia stanno ottenendo il loro effetto nella riduzione dei numeri di persone migranti che approdano qui. Anche la tipologia degli arrivi pare diversa: ai grandi gruppi paiono stranamente sostituirsi i piccoli. Se non fosse per la presenza dei giornalisti, passerebbe inosservato ciò sta accadendo in questa calda serata d’estate, accanto ad una delle spiagge più turistiche dell’isola, la Guitgia: vacanzieri spensierati alla ricerca di mare e divertimento e cittadini stranieri non autorizzati, i primi attesi con impazienza, i secondi fermati, schedati, soccorsi, respinti, salvati e, in qualche modo, comunque accolti. Stasera partecipo come volontaria a uno sbarco, per usare un termine poco amato da chi interviene al molo per il suo richiamo al linguaggio militare. Evento marittimo numero 2 (EV. 2), lo definiscono le forze dell’ordine o la Croce Rossa (CRI). Tuttavia, molti, nelle conversazioni informali, ritornano all’uso della parola militare. Già: un Mediterraneo in assetto di guerra, eserciti e flotte civili che dispiegano i propri equipaggi in questa frontiera liquida. E poi quella terrestre, coi moli: due a Lampedusa, il Favaloro – più noto – e il Commerciale. PH: Tanja Boukal Spazio liminale, soglia giuridica, emotiva e politica. Non luogo, primo spazio di relazione e di accoglienza a terra, ma anche di trasformazione perché qui il “naufrago” diventa “migrante ufficiale”. Spazio di osservazione, di azione, ma anche di potere delle diverse agenzie i cui operatori (sia istituzionali e governativi che non) occupano un territorio che definisce anche la loro importanza in ordine di intervento e di decisione 1. Mai accesso libero, il molo diventa metonimia del confine: geografico, cronologico, politico, esistenziale. Rappresenta il trait d’union di tutte le contraddizioni: luogo di soccorso e accoglienza, ma anche spazio di cesura in cui si definisce chi può restare e chi deve essere respinto, chi è potenzialmente legale e chi non lo è, chi deve essere protetto e chi no, chi è vulnerabile e chi appare ancora dotato di forze e capacità, chi è vittima e chi è carnefice. La funzione del molo, come luogo di transito e di organizzazione delle operazioni di sbarco, non può essere separata dalla sua carica simbolica e neppure dalla violenza che lo abita, perché qui le politiche migratorie si concretizzano e si traducono nella classificazione e gestione delle persone che fanno parte di un evento. Al molo, le dinamiche di intervento ed azione sono continuamente ridisegnate, discusse e ristabilite durante il tempo dello sbarco, in una sorta di danza fluttuante, a seconda del momento in cui le persone migranti arrivano, le loro condizioni fisiche, il loro numero, la presenza di donne o minori non accompagnati, i tempi di trasferimento, ma anche a seconda delle competenze e del saper essere degli operatori e della loro disponibilità emotiva al tempo X dell’approdo. È un giorno d’agosto.  Al molo, stanotte, tutti i presenti sono in attesa: medico e infermiere per effettuare una prima verifica delle condizioni fisiche delle persone, due agenti di Frontex accompagnati da un mediatore linguistico dell’OIM, una persona di Save the Children, un’operatrice di International Rescue Committee (IRC), quattro operatori della CRI e poi noi volontari del Forum solidale di Lampedusa. Le forze dell’ordine sono dispiegate ai nostri lati. Ognuno al suo posto. PH: Tanja Boukal La nave della Guardia Costiera entra in porto poco dopo le 21.00, con a bordo il suo carico di naufraghi. Partiti da Tripoli due giorni fa, sono quarantuno persone a sbarcare: uomini provenienti da Bangladesh ed Egitto, cinque bambini, tre donne, almeno tre minori – o forse di più – ma solo questi confermati. Dal ponte della CP le persone scendono e cominciano a camminare lungo la striscia di cemento che li separa dal cancello, dove li attende il furgone della Croce Rossa, pronto a trasportarli all’hotspot. Il personale medico provvede subito a mettere una fascetta attorno al polso, a indicare se un qualunque tipo di patologia affligga queste persone. In genere, si tratta di scabbia. Stanotte una persona viene trasportata al poliambulatorio in barella: si è sentita male poco prima dell’arrivo a terra. Nulla di grave: è “solo” l’effetto di un viaggio estenuante in mare, senza acque, sotto il sole, in balia della corrente e delle preghiere che forse stavolta sono state ascoltate. Durante i primi scambi, il corpo si impone: ferite, piedi nudi, sguardi, movimenti raccontano in silenzio. L’odore arriva prima delle parole: un miscuglio acre di urina, sale marino e vomito. I vestiti sono zuppi, impregnati d’acqua e di viaggio. I piedi scalzi, bianchi di macerazione per le ore trascorse in acqua, raccontano di chilometri camminati e di ore immobili. Sfilano, timidi, esitanti. Stanotte, come sempre, mi sembrano vergognarsi dei nostri sguardi, dei vestiti bagnati, della miseria dei loro corpi. Noi volontari del forum lampedusano siamo in ultima postazione sul molo. PH: Tanja Boukal Siamo in quattro: proviamo ad accogliere in questo spazio ristretto, in un tempo che anche lui è di limite- limine, queste persone sfiancate dal viaggio, da quello che le ha precedute, dal deserto che hanno attraversato, dalle prigioni in cui sono stati forse detenute, dalle connection house che hanno incontrato nel percorso, e così a ritroso, fino ad arrivare al paese che li ha visti nascere. Distribuiamo the, acqua e ciabatte: il gesto si ripete, meccanico, ma ogni volta diverso perché tentiamo di lasciare loro spazio, di incontrarle, una per una. Un giovane egiziano fa da interprete improvvisato: non un mediatore ufficiale, ma un membro del gruppo che, per istinto, si mette a fare da ponte linguistico e culturale. Questa mediazione spontanea mostra come, anche in un contesto di vulnerabilità estrema come questo, possano emergere forme di auto-organizzazione e solidarietà interna. C’è una donna con un bambino piccolo portata subito al punto medico per accertamenti; sembra stare bene. I minori non accompagnati, egiziani, attendono in silenzio, scalzi come la maggior parte del gruppo. Sorridono, di risposta a un sorriso, dicono “grazie” a un semplice “Benvenuto. Sei al sicuro”. Una sicurezza momentanea, ma consolazione al viaggio appena lasciato alle spalle, in attesa di un altro che ricomincia. Parlo con un uomo. Dice di venire dall’Egitto. Alla domanda da dove sia partito, la risposta è secca: “Tripoli”. Poi il silenzio. Gli chiedo se sa dove si trovi. “Lapadusa”, pronuncia. Gli spiego il percorso che lo attende: da quest’isola alla Sicilia, poi un centro in Italia. Anche lui, come molti altri, non sa se vuole restare, parla di un altrove in Europa, dove ci sono familiari, connazionali, o solo un futuro immaginato che qui, sul molo, stanotte non si può spiegare. Un ragazzo chiede di sedersi. Fa segno che sta male e prima di poterlo allontanare dal gruppo, vomita bile. Il corpo si piega su se stesso. Cerchiamo di portarlo in un angolo protetto, lontano dagli sguardi perché la vergogna, in questi momenti, è quasi tangibile. Osservo altri che massaggiano le gambe. So che le traversate avvengono in posizioni forzate, con corpi incastrati tra loro, spesso dai trafficanti stessi. Muoversi durante il tragitto in mare è pericoloso: basta alterare l’equilibrio della barca per rischiarne il capovolgimento. Così le persone restano immobili per ore: l’assenza di movimento diventa dolore. Molti hanno lo sguardo perso, un’assenza che sembra protezione. Ma basta cercare i loro occhi perché, quasi sempre, succeda qualcosa: lo sguardo ritorna e spesso si allarga in un sorriso. Nel primo luogo di procedure e controlli, il contatto visivo agisce come atto di riconoscimento reciproco, interrompe la logica amministrativa dello sbarco, apre uno spazio di relazione tra chi arriva e chi accoglie. Stanotte, in risposta al freddo di questi uomini e in mancanza di vere coperte, tiriamo fuori quelle termiche: mantelline ripiegate con cui li copriamo. Lo facciamo per scelta: le apriamo, li avvolgiamo. Uno per uno: perché si mantenga un contatto autentico, perché sentano che sono persone e non numeri, perché la cura dell’altro questo prevede. In attesa di salire sul bus della Croce Rossa per il trasporto all’hotspot, alcune chiedono di andare in bagno. Non possono andarci sole, devono essere accompagnate per questioni di sicurezza, di controllo e gestione e per questo andiamo noi volontari del forum: per interrompere la circolarità di una violenza che ci è imposta e che obbliga uomini a tornare bambini, privati persino dell’autonomia di un gesto elementare come andare in bagno. Stanotte non ci autorizzano, perché le persone stanno per essere trasportate all’hotspot. “Possono aspettare. Avrebbero dovuto chiedere prima”. Corpi obbligati a un’attesa che un altro decide per loro. PH: Tanja Boukal Quando le persone sono in attesa di essere caricate sul pulmino della CRI per il trasferimento all’hotspot, le fila si rompono e l’ordine è meno evidente. Lo spazio è occupato in modo meno armonico e ordinato, nonostante la sorveglianza della polizia non si abbassi mai. Gli operatori, invece, si muovono in questo spazio. Il clima, generalmente si distende. Sono molte le persone in attesa che chiedono “Wi- Fi”: il bisogno evidente è quello di comunicare a chi è rimasto a casa di essere arrivato a destinazione ed essere sopravvissuto. Un uomo ci chiede di chiamare la famiglia: non ha il telefono. Parla un inglese stentato. Racconta in lacrime che ha lasciato sua figlia in Bangladesh, appena nata e che non ha potuto chiamare in questi mesi. Vuole avvisare per dire che ce l’ha fatta a bruciare queste frontiere, ad arrivare. La conversazione si chiude: il trasferimento all’hotspot non aspetta i tempi di una conversazione, di un bagno, una preghiera, di una confessione. Uno sbarco ha il tempo di cifre e urgenze vitali. Tutto il resto deve attendere. Solo negli interstizi di questo limine la relazione ha spazio per fiorire. Ed è lì, nella frontiera fragile tra controllo e accoglienza, che un operatore agisce perché un corpo migrante da numero diventi persona, perché uno sbarco si trasformi in approdo e la relazione, anche solo per un istante di confine, interrompa la catena della violenza. 1. In M. MARCHETTI, Il fondamento territoriale del potere di fronte alle trasformazioni spaziali globali, pubblicato sulla rivista Diritti fondamentali il territorio è condizione di esistenza delle strutture di potere; è forma spaziale ove l’uomo orienta i propri sensi, colloca, individua ed organizza le strutture della vita comune; esso ha un’intima essenza antropologica, essendo l’uomo stesso “un essere terrestre, un essere che calca la terra”, avvinto ad essa da un legame simbiotico che imprime unità ed identità al gruppo stesso. Gli antropologi definiscono tale legame ricorrendo all’espressione “imperativo territoriale”, per intendere quell’istinto o quella pulsione primordiale che spinge gli uomini (come anche gli animali) a difendere il territorio in forza di un sentimento possessivo, esclusivo ed escludente ↩︎