Dal muro al ponte
Confine: «limite di una regione geografica o di uno stato; zona di transizione
in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di una regione e cominciano
quelle differenzianti» 1.
Se provassimo a chiudere gli occhi e a concentrarci sul suono della parola
confine immagineremmo immediatamente una linea che potrebbe essere dritta o
curva, tondeggiante o spigolosa. Quel che è certo di una linea è che separa,
crea due zone distinte, almeno all’apparenza. Al di là di essa c’è qualcosa che
percepiamo come altro da noi.
Sempre rimanendo a occhi chiusi, pensando al termine confine, si possono
visualizzare barriere, muri, barricate e fili spinati. Sono immagini che
veicolano un suono: un tonfo sordo, violento. Un muro blocca, frammenta e
divide. Tuttavia, provando a spingersi oltre si può scorgere un’altra linea di
confine, questa volta curva: è un ponte. Il suono che si può avvertire è quello
dei passi degli individui che lo attraversano.
Il presente articolo ha l’obiettivo di analizzare come le riflessioni del
femminismo black e decoloniale contribuiscono ad arricchire il dibattito sul
concetto di confine: sociale, interno e geografico, esterno.
Per farlo si utilizzeranno tre prospettive: quella dell’antropologia delle
migrazioni, funzionale a mostrare la polisemicità del termine confine e il
dibattito che lo riguarda; le teorie dell’antropologo Didier Fassin, secondo cui
all’amministrazione dei confini esterni corrisponde un aumento dei confini
sociali interni tra classi, gruppi sociali e generi, evidenziando l’ambivalenza
dei confini; ci si soffermerà poi sulla prospettiva delle autrici femmministe
bell hooks, Audre Lorde e Gloria Anzaldúa.
Parole chiave: Intersezionalità, femminismo, confini, oppressione, differenze,
margine, lotta politica, cultura, colonialismo, decolonizzazione.
PH: Andrea Miti (Il deserto dell’Arizona, al confine con il Messico). Reportage
Nel deserto, contro la frontiera: Bob e i “Samaritans”
A livello teorico la tematica del confine è molto ampia e questa sua complessità
è visibile anche a livello semantico, specie se ci si affida alla lingua
inglese.
Con il termine border, confine esterno, possiamo indicare la linea di divisione
politico-territoriale tra due stati nazionali. L’utilizzo del termine boundary
si riferisce invece ai limiti simbolici, etnici, culturali e sociali, ovvero i
confini interni agli stati nazione. Il termine frontier rimanda a uno spazio più
ampio: la fascia geografica che è attraversata dalla linea di confine tra due
stati.
L’antropologia delle migrazioni adotta questa distinzione, in particolare quella
generale tra confine e frontiera, per mostrare come questi spazi possono essere
luoghi particolarmente dinamici, nonostante nel senso comune rimandino all’idea
di una separazione netta tra due aree o categorie.
Le migrazioni si definiscono come fenomeni che travalicano i confini nazionali,
mettendoli in discussione, sebbene vengano determinate dalle stesse divisioni
geografiche. I movimenti migratori contribuiscono non solo a oltrepassare i
confini, ma a stabilirne di nuovi. I fenomeni legati ai confini danno vita a
processi dinamici che contribuiscono alla produzione di identità individuali e
collettive.
A questo proposito l’antropologia delle migrazioni distingue due processi
differenti: quello di b/ordering definisce il confine come elemento che limita
le ambiguità territoriali e identitarie; quello di othering indica invece la
nascita di nuove differenze sulle zone di frontiera, sia a livello territoriale
che identitario. Nelle zone di confine i concetti di identità e alterità spesso
si scontrano.
Storicamente la frammentazione del blocco dell’Est e l’avvento della
globalizzazione non ha portato a un universo senza confini, ma li ha
trasformati. I confini non sono scomparsi, ma sono diventati mobili, molteplici
e differenziali. Questo fenomeno entra in contrapposizione con la definizione
giuridica tradizionale dei confini e anche con la loro rappresentazione
cartografica canonica che li descrive come ai margini di un territorio.
Le frontiere si sono moltiplicate e si è accentuato il loro carattere
ambivalente: sono un mezzo di esclusione e al contempo di contatto, di incontro,
di scambio, di violenza e di solidarietà.
L’evoluzione dei confini è ben rappresentata dal processo di esternalizzazione
delle frontiere che caratterizza l’Europa contemporanea. I confini vengono
continuamente dislocati, posti all’esterno dello spazio europeo, espandendo i
margini della “fortezza Europa”, sempre più inarrivabile.
Le stesse politiche migratorie producono una stratificazione delle frontiere,
mostrandone il loro carattere poroso e ambiguo. Per tanto, non possono essere
concepite solo in termini di esclusione. La contemporanea militarizzazione dei
confini esterni si riflette come uno specchio all’interno dei territori: il
confine genera un sistema di inclusione differenziale in cui, per mezzo delle
politiche, viene indirettamente prodotta l’illegalità delle soggettività
migranti.
Le politiche di frontiera e migratorie finiscono per condurre a una reificazione
delle divisioni razziali e di classe. Secondo l’antropologo Didier Fassin il
significato delle frontiere e dei confini è mutato nel corso del tempo, rendendo
alcuni periodi storici più favorevoli allo sviluppo di barriere tra territori e
individui. Si tratta di momenti di tensione sociale, economica e politica.
La sensibilità verso le migrazioni, l’ostilità verso gli stranieri, il
consolidamento tra le frontiere e la delimitazione dei confini sono dunque
fenomeni ciclici. Se la circolazione delle merci è stata progressivamente
facilitata attraverso accordi internazionali per i commerci, la circolazione di
persone è diventata invece incredibilmente difficile per la maggior parte della
popolazione del pianeta.
Questo meccanismo si muove dai borders ai boundaries come un movimento violento
che inasprisce le divisioni di genere, etnia e classe inasprendo le
discriminazioni. In questa cornice il confine produce la precarietà del
migrante: lo stato crea immigrati clandestini, attraverso la formulazione di
leggi che istituzionalizzano l’illegalità di residenza.
Ne consegue l’ostruzione dell’accesso al mondo del lavoro, che comporta una vita
in condizioni di povertà e l’esclusione dalle politiche di welfare. Non
casualmente il tema della migrazione viene direttamente affiancato a quello
della sicurezza. Il nemico arriva da fuori, è l’outsider, colui che vìola il
confine.
Si tratta, tuttavia, di logiche di esclusione e distinzione che mirano a
rimarcare la differenza tra autoctoni e alloctoni, ignorando il peso della
storia coloniale che ha prodotto una distribuzione disomogenea delle ricchezze a
livello globale.
Anche la riflessione femminista mostra come i confini siano elementi che
definiscono identità, generando relazioni di potere. In particolare, il concetto
di intersezionalità può costituire un paradigma per pensare in concetto di
confine.
Il concetto di intersezionalità viene formalizzato nel 1989 dalla giurista
afroamericana Kimberlé Crenshaw per correggere alcune alcune sentenze emesse dal
sistema americano. Il suo intento è quello di mostrare come la discriminazione
delle donne nere avviene tanto per una questione razziale, quanto per il
sessismo.
Non c’è possibilità di stabilire un confine tra questi due assi di oppressione.
In generale, le teoriche dell’intersezionalità pongono l’attenzione sul
dinamismo dei sistemi di oppressione: essi non sono monoliti, non si producono
separatamente l’uno dall’altro, ma si compenetrano e trasformano
vicendevolmente.
Se venissero considerati separatamente, si creerebbe l’erronea concezione,
storicamente esistita, secondo cui il sessismo può essere analizzato solo dal
punto di vista della donna bianca e il razzismo solo dal punto di vista
dell’uomo nero.
Questo concetto contribuisce a dare valore alla prospettiva del soggetto
maggiormente oppresso per comprendere il tema della discriminazione. Il concetto
di intersezionalità è fondamentale perché travalica i confini, includendo nella
riflessione femminista donne non assimilabili al modello della donna bianca e di
classe media.
Le donne nere lottano sui confini rivendicando la propria posizione, in un
contesto che nega la loro capacità di azione e visibilità.
Il tema del condine come elemento che definisce e ridefinisce le identità fa da
sfondo agli scritti della teorica e accademica bell hooks (1952-2021). Nasce e
cresce nel Kentucky, dove i quartieri abitati dai bianchi erano separati da
quelli abitati dai neri tramite una rigida linea di confine, quella della
ferrovia. Dai suoi scritti emerge come essere donna in un periodo storico in cui
lo spazio era sottoposto a segregazione razziale contribuisce una posizione
peculiare, che influisce sulle modalità di abitare e attraversare i luoghi.
Le donne nere superavano quotidianamente il confine per andare a lavorare nelle
case dei bianchi.
Superare il confine è un’azione caratterizzata da forti implicazioni emotive, i
neri si sentivano giudicati e fuori posto. Tuttavia, lo spostamento dal margine,
identificato come luogo di abitazione dei neri, verso il centro occupato dai
bianchi ha anche dei vantaggi: permette la conoscenza di entrambe le realtà e
cambia il modo di abitare lo spazio, in particolare quello del “focolare
domestico”.
Nelle comunità nere, le mansioni di cura svolte dalle donne diventano un campo
di battaglia, uno spazio di lotta politica. Le donne nere entravano nelle case
dei bianchi per svolgere il lavoro di domestiche, si trattava di una mansione
faticosa, che consumava tempo ed energia.
Tuttavia, il punto di forza delle donne nere stava proprio nello sforzo di non
esaurire tutte se stesse in quel lavoro, per riuscire a dedicarsi anche
all’accudimento della propria casa, famiglia e comunità. C’è una netta
differenza tra il sessismo che affida alle donne il lavoro riproduttivo perché
considerato “naturale” e la condizione delle donne nere.
Per queste ultime la gestione della casa diventa un atto politico, la
strutturazione di uno spazio di cura opposto alla dimensione disumanizzante e
opprimente del razzismo. La casa era uno spazio sicuro creato dalle donne per
poter resiste ed esistere come soggetti attivi, non meri oggetti. Nella sfera
privata avveniva la restituzione di quella dignità negata nel pubblico.
Anche se il concetto di “angelo del focolare” è considerato tradizionalmente
sessista dal femminismo bianco, le donne nere attraverso questo ruolo hanno
compiuto un atto politico sovversivo e di resistenza. I bianchi avevano, secondo
hooks, trovato un modo efficace per sottomettere i neri a livello globale,
costruendo strutture sociali che minavano la strutturazione della sfera
domestica.
Per alimentare la fiamma della speranza e per opporsi alla mentalità
colonizzatrice, promotrice dell’odio verso se stessi, le donne nere hanno
rivendicato il proprio ruolo nelle abitazioni. Ricordare questo permette di
capire il valore politico della resistenza nelle case. Senza uno spazio da
abitare, è impossibile costruire una comunità di resistenza.
Questa concezione della casa come luogo di rivendicazione politica e comunitaria
agisce in due modi: da una parte crea un confine nuovo, frantumando
l’immaginario per cui le donne vivono un comune destino, riportando l’attenzione
sulla specificità del posizionamento della donna nera; dall’altra ci si
riappropria del confine come spazio di autodeterminazione: il margine diventa un
luogo di lotta.
Le opere della scrittrice Audre Lorde (1934-1992) hanno contribuito ad ampliare
profondamente la riflessione femminista, sollevando argomenti attuali, in cui le
tematiche dei confini e della differenza risultano essere un punto centrale.
Rivolgendo l’attenzione alle molteplici differenze di genere, razza, sesso,
classe sociale, salute e malattia che coinvolgono le donne, Lorde ha preceduto
di decenni le teorie sull’intersezionalità. Nei suoi scritti, il tema del
confine, come anche nei lavori di hooks è rappresentato dalle divisioni sociali
interne, i boundaries.
In particolare, nel testo Sorella Outsider, che raccoglie una serie di saggi
scritti tra il 1976 e il 1984, Lorde si rivolge a chi è consapevole di vivere
sui confini: le outsiders, donne che non riconoscendosi negli “strumenti del
padrone” non si identificano nei confini tracciati per asservire gli interessi
del potere. Il testo è caratterizzato da una fitta critica nei confronti di quel
femminismo bianco e accademico che promuove una semplice tolleranza della
differenza tra le donne, cercando di raggrupparle in una natura comune,
distruggendo di fatto il potere creativo della diversità.
Secondo Lorde, infatti, soltanto quando le differenze saranno riconosciute e
considerate il nostro essere nel mondo potrà diventare produttivo. Alle donne è
stato insegnato di ignorare le differenze o, peggio, di vederle come causa di
separazione e sospetto.
La paura di una realtà così frammentata non ha permesso una liberazione
dall’oppressione, ma solo maggiore vulnerabilità.Secondo Lorde, in una società
basata esclusivamente sul profitto e non sul bisogno umano, è fondamentale
l’esistenza di un gruppo sistematicamente oppresso e deumanizzato ai fini del
mantenimento dei rapporti di potere.
Questo crea l’illusione che l’unica via d’uscita per gli oppressi sia quella di
omologarsi alle categorie degli oppressori. Per Lorde le differenze esistono,
sono la razza, l’età, il sesso e la classe ma non sono quelle a separarci, è il
nostro rifiuto a riconoscerle. L’energia necessaria a vivere e a esplorare le
differenze viene riversata nel renderle dei confini invalicabili, così da
trasformarle in devianze.
Tuttavia, la differenza umana deve diventare un trampolino per il cambiamento,
il muro che segna il confine deve diventare un ponte. Lorde fa esplicito
riferimento a The Pedagogy of the Oppressed di Paulo Freire per mostrare come le
possibilità di cambiamento nascono nel momento in cui gli oppressi riconoscono,
anche in loro stessi, le dinamiche degli oppressori.
Da qui è necessario un cambiamento, una crescita dolorosa: possiamo ridefinirci
solo se lottiamo anche a fianco di chi è diverso da noi, nella condivisione di
un unico obiettivo. L’azione a cui Lorde mira è legata a una continua rottura
dei confini e delle differenze, per arrivare a ridefinirsi connettendo le
specificità.
Non bisogna chiudersi nei confini di una sola oppressione, ma riconoscere ciò
che è comune in tutte loro. Così facendo Lorde riscrive il significato del
termine confine da linea di separazione a processo dinamico in cui le differenze
racchiudono un potenziale di unione.
Le differenze risultano profondamente legate al tema dei confini, tuttavia è
necessario un lavorìo politico affinché diventino ponti e non barriere. Nella
sua ambivalenza, il confine non è solo il punto in cui le differenze si
manifestano, ma anche quello attraverso cui queste entrano in contatto, creando
comunicazione e scambio.
In questa cornice, le teorie femministe sono fondamentali per riconoscere il
confine come luogo di oppressione e di lotta. Questo elemento emerge in modo
particolare nel testo Terra di confine/La frontera. La nuova mestiza del 1987 di
Gloria Anzaldúa (1942-2004), in cui l’autrice parla della frontiera in cui è
nata e cresciuta: il confine tra Texas sudoccidentale e Messico.
Secondo Anzaldúa la terra di confine è un luogo in cui due o più culture si
costeggiano e persone appartenenti a gruppi sociali diversi abitano lo stesso
territorio. Raccontando la sua esperienza personale di vita sul confine si
definisce una “donna di frontiera” che è nata e cresciuta tra due culture. Il
confine non viene raccontato come un luogo confortevole, è un luogo scomodo e
gli aspetti del suo paesaggio sono principalmente sfruttamento, oppressione e
rabbia.
Tuttavia, ad essere peculiare è la posizione di chi vive a cavallo della
frontiera, secondo l’autrice, infatti, questa esperienza di vita scomoda
risveglia una serie di facoltà importanti. Sebbene il confine tra Stati Uniti e
Messico sia definito come una «herida abierta [ferita aperta] dove il Terzo
Mondo si scontra con il primo e sanguina» (Anzaldúa, 2022: 22) è anche il luogo
in cui si forma una realtà alternativa: una cultura di confine, una nuova
mestiza.
«Le frontiere sono innalzate per definire i luoghi insicuri da quelli sicuri,
per separare un noi da loro. Una frontiera è una linea divisoria, una striscia
sottile lungo un margine ripido. […] è un luogo vago, indefinito, creato dal
residuo emotivo di un limite innaturale. È in uno stato di transizione costante.
Suoi abitanti sono gli illegali e i non ammessi. Qui vivono los atravesados.»
(Anzaldúa, 2022: 22).
Nel clima opprimente della zona di frontiera gli unici abitanti considerati
legittimi sono i potenti, i bianchi o chi si schiera dalla loro parte. I
chicanos, gli indios e i neri sono considerati altro, alieni.
Ciò nonostante, il contatto tra due culture crea delle trasformazioni
inevitabili.
Anzaldúa racconta come il contatto con la cultura bianca capitalista, basata
sullo sfruttamento delle risorse ha cambiato e sta cambiando radicalmente lo
stile di vita del Messico, rendendolo progressivamente più povero e sempre più
dipendente dall’economia statunitense.
La massiccia povertà ha come conseguenza, più o meno diretta, la diffusione di
una tradizione di emigrazione: le persone possono scegliere se restare in
Messico patendo la fame o emigrare verso l’America, con la speranza di
sopravvivere. Nel passaggio illegale della frontiera, un migrante su tre viene
arrestato.
L’attraversamento viene descritto come particolarmente pericoloso per le donne
spesso vittime di violenza e di tratta. Secondo Anzaldúa, come tutto ciò che si
oppone alla norma egemone, chi abita il confine è considerato deviante.
Attraverso il racconto della sua personale esperienza della vita di frontiera
l’autrice vuole mettere in luce le potenzialità che nascono da questo essere
devianti.
Chi vive sulla frontiera è capace, attraverso le sue scelte e la sua esperienza
di vita, di mettere in discussione i rapporti di potere, smascherando i
meccanismi che li regolano.
Le culture ibride che nascono a cavallo dei confini vengono ridiscusse come
elementi che sfidano l’egemonia. Il testo di Anzaldúa si caratterizza per un
continuo movimento di entrata e uscita dai confini sociopolitici e anche
stilistici letterari, infatti si alternano prosa, poesia e lingue differenti.
Sotto la guida delle teoriche femministe il confine viene risignificato, diviene
un punto prospettico che trasforma lo svantaggio in una spinta alla lotta
politica. L’invito di bell hooks a permanere nel margine rappresenta uno slancio
tanto teorico quanto pratico.
La politica, femminista e non, va necessariamente ripensata dal punto di vista
della donna razzializzata, è necessario uno spostamento dal centro al margine
per comprendere le potenzialità delle differenze. Secondo le teorie di Audre
Lorde, ignorare i confini e le frammentazioni spinge a omologarsi alla logica
egemone. Per spezzare la catena risulta imprescindibile conoscere la diversità,
perché solo in questo modo sarà possibile superare le disuguaglianze, senza
invisibilizzarle.
Dal testo di Anzaldúa si percepisce la ricchezza delle culture di confine, delle
realtà ibride che nascono dalle migrazioni e dalle mescolanze. È necessario
conoscere la propria storia di oppressione al fine di riappropriarsene.
Si tratta di un gioco di continui attraversamenti di frontiera in cui le vicende
personali acquisiscono un valore politico.
La realtà polisemica dei borders e dei boundaries e le teorie femministe
presentate chiamano in causa la necessità di un impegno politico differente. È
necessario non solo tenere conto delle differenze, ma partire dalle posizioni
specifiche dei soggetti svantaggiati per definire una più totale e meno parziale
strategia di intervento.
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