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Frontex conferma le responsabilità delle autorità bulgare nella morte di tre minori
A quasi un anno dalla morte di tre minori egiziani in Bulgaria, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex (The Fundamental Rights Officer – FRO) ha pubblicato un report 1 che conferma il racconto di Collettivo Rotte Balcaniche e No Name Kitchen, identificando chiaramente la responsabilità diretta della polizia di frontiera bulgara per queste morti. Nel dicembre 2024, Ahmed Samra, Ahmed Elawdan e Seifalla Elbeltagy – tre minori egiziani – avevano comunicato ai gruppi solidali di trovarsi in condizioni di emergenza nella zona di Gabar, in Bulgaria, dopo aver attraversato il confine turco-bulgaro. Pur essendo stata avvisata con ripetute telefonate, la polizia di frontiera bulgara non solo non ha risposto alle chiamate, ma si è anche adoperata per bloccare i tentativi del Collettivo di raggiungere i tre minori, che sono poi morti di ipotermia. A quasi un anno di distanza, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex conferma la versione delle organizzazioni solidali: “Le autorità bulgare avevano l’obbligo di assistere e soccorrere i migranti. Avendo informazioni sufficienti a determinare che essi si trovavano in pericolo di vita, essendo a conoscenza della loro posizione esatta e avendo i mezzi per intervenire, esse non hanno comunque adottato le misure necessarie in tempo, con il risultato che tre persone hanno perso la vita”. L’Agenzia europea rigetta inoltre la campagna di diffamazione avviata dal Ministero dell’Interno bulgaro dopo la pubblicazione del report Frozen Lives redatto dalle organizzazioni.  Rapporti e dossier/Confini e frontiere VITE CONGELATE AL CONFINE: LE RESPONSABILITÀ DELLE AUTORITÀ BULGARE E LA COMPLICITÀ DELL’UE Il rapporto di No Name Kitchen e del Collettivo Rotte Balcaniche Anna Bonzanino 5 Febbraio 2025 Secondo il Collettivo Rotte Balcaniche, inoltre la polizia di frontiera «ha intensificato il livello di criminalizzazione delle ONG, moltiplicando le indagini e gli arresti, in un chiaro tentativo di silenziare il lavoro di denuncia della violenza sul confine». Il documento di Frontex riconosce, inoltre che, al di là di questo evento specifico, la cosiddetta “incapacità” di compiere operazioni di ricerca e soccorso è in realtà una pratica di routine delle autorità bulgare. Negli ultimi anni, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali ha documentato ripetutamente le azioni della polizia di frontiera bulgara, affermando che “i pushback, spesso caratterizzati da alti livelli di violenza e trattamenti inumani o degradanti, sono una pratica quotidiana della polizia di frontiera bulgara” ed esprimendo una “profonda preoccupazione rispetto alle accuse ripetute nei confronti delle autorità bulgare di non rispondere in maniera appropriata alle chiamate di emergenza.” Tuttavia, il Collettivo ci tiene a sottolineare anche il ruolo strumentale di Frontex «che finanzia e collabora alle attività di controllo dei confini bulgari, si autoassolve nuovamente, scaricando la responsabilità dell’accaduto sulle autorità bulgare e utilizzando persino queste morti per richiedere un aumento della propria presenza in Bulgaria». Questa posizione viene definita contraddittoria, poiché il personale di Frontex opera legalmente sotto il controllo delle autorità locali: secondo il Collettivo, infatti, «i migranti intercettati da Frontex vengono poi espulsi in maniera illegale e violenta», mentre il personale dell’Agenzia «rischia di essere complice – o meglio è direttamente responsabile – di queste espulsioni». A partire da marzo 2025, Frontex ha inoltre «ripetutamente bloccato e seguito per ore squadre di ricerca e soccorso», impedendo loro di raggiungere le persone in movimento in condizione di emergenza. E ciò nonostante l’Ufficio per i Diritti Fondamentali riconosca il lavoro delle squadre civili come «autentico», denunciando al contempo i tentativi della polizia di ostacolarlo. Il Collettivo definisce però queste affermazioni come meri interventi superficiali, privi di ricadute operative: «Affermazioni come quelle dell’Ufficio restano soltanto cosmetiche se non accompagnate da azioni concrete». Da qui la richiesta di interrompere «immediatamente ogni collaborazione con e supporto alle autorità bulgare». Infine, un’eventuale inazione di Frontex sarebbe solo un’ulteriore conferma del carattere sistemico delle politiche europee di frontiera: «Se Frontex non adotterà misure adeguate, sarà una conferma in più che queste morti non sono state un incidente ma il risultato voluto e cercato di politiche di confine europee che, se non smantellate, possono soltanto uccidere». Dello stesso avviso anche No Name Kitchen che tramite la rappresentante Ric Fernandez afferma che «questi minori avrebbero potuto essere salvati, le stesse conclusioni di Frontex confermano l’esistenza di un sistema progettato per lasciar morire le persone alla frontiera, e chiunque sostenga tale sistema ne è responsabile». Anche NNK chiede a Frontex di sospendere immediatamente ogni cooperazione operativa con la polizia di frontiera bulgara, nonché di pubblicare i risultati completi del FRO e tutte le comunicazioni interne relative all’incidente, infine garantire di accertare la responsabilità per qualsiasi agente coinvolto nell’ostruzione dei soccorsi. «Questo caso non è una tragedia isolata. Esso mette in luce le carenze sistemiche nell’applicazione delle norme di frontiera dell’UE, dove le operazioni di Frontex e le autorità nazionali effettuano congiuntamente respingimenti illegali, pratiche violente e ostacoli ai soccorsi. Se Frontex continuerà a cooperare con le autorità bulgare nonostante questi risultati, confermerà che queste morti non sono incidenti isolati, ma il risultato prevedibile della politica dell’UE, una politica che continuerà a uccidere se non verrà modificata radicalmente», conclude No Name Kitchen. 1. Frontex Report – Serious Incident Reports Cat 1 ↩︎
Giustizia per le vittime della fortezza Europa
122 funzionari dell’Unione Europea e dei suoi Stati Membri potrebbero essere indagati dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità a causa del trattamento dei richiedenti asilo nel Mediterraneo Centrale, in base al report presentato da Front-LEX. Dopo sei anni di indagini, gli avvocati Juan Branco – uno dei difensori di Julian Assange – e Omer Shatz – direttore della ONG front-LEX 1,- insieme al team dell’organizzazione e la clinica legale “International Law in Action” dell’università parigina Sciences Po, hanno presentato 2 alla Corte Penale Internazionale un report di 700 pagine che denuncia come i membri dell’apparato di potere europeo siano direttamente ed individualmente responsabili per crimini contro l’umanità, avendo ideato ed implementato politiche restrittive contro i flussi migratori nel Mediterraneo Centrale 3. Questo rapporto rappresenta il punto d’arrivo di un percorso quasi decennale. front‑LEX è un’organizzazione legale indipendente, focalizzata sulla difesa dei diritti umani attraverso la litigazione strategica contro le politiche migratorie dell’UE, in particolare quelle gestite da Frontex 4. Utilizzando il diritto come strumento di cambiamento sociale, agisce in contesti legali complessi per sfidare pratiche come i respingimenti illegali e la cooperazione con regimi autoritari. Dopo i grandi naufragi del 2013, l’Unione Europea e gli Stati Membri potenziano i loro accordi con i Paesi di transito, primo tra tutti la Libia, e viene dato inizio ad una campagna di diffamazione contro le ONG che lavorano nel Mediterraneo sopperendo alle mancanze dei governi europei. L’8 maggio 2017 la Procuratrice della Corte Penale Internazionale (CPI) riporta al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che «seri e diffusi» crimini contro l’umanità – tra cui omicidi, stupri, e torture – vengono commessi contro «migliaia di persone migranti vulnerabili, inclusi donne e bambini». È un momento storico, la prima volta in cui viene formalmente riconosciuta la possibilità di crimini internazionali 5 lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Tuttavia, dopo 8 anni, più di 25mila morti e 150mila deportati in Libia, le parole della Procuratrice sono rimaste parole: la CPI non ha ancora aperto né l’istruttoria né formulato un’accusa. La Corte Penale Internazionale (CPI), con sede all’Aia, è un tribunale permanente che giudica individui accusati di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e di aggressione. Istituita dallo Statuto di Roma del 1998, interviene solo quando gli Stati non possono o non vogliono perseguire tali crimini. È indipendente dalle Nazioni Unite, ma collabora con esse. La società civile ha però continuato a lavorare. Nel 2019, l’avv. Shatz e l’avv. Branco hanno inviato una comunicazione4, in base all’Articolo 15 dello Statuto di Roma 6, il cui contenuto dimostra che i crimini “seri e diffusi” di cui aveva parlato la Procuratrice sono sistematici, e commessi in base alle politiche migratorie dell’Unione Europea, elaborate con lo scopo preciso di impedire a qualunque costo ai richiedenti asilo di raggiungere il suolo europeo. In particolare, sono state individuate due politiche di deterrenza: la prima, uccisioni di massa per annegamento, iniziata con la chiusura dell’Operazione Mare Nostrum 7, inquadrata nel crimine contro l’umanità di omicidio; la seconda, adottata proprio contro le ONG che hanno tentato di riempire questo vuoto letale creato nel Mediterraneo, respingimenti di massa per procura grazie alla conclusione di accordi con la Libia 8 inquadrata nei crimini contro l’umanità di deportazione, sparizione forzata di persone, omicidio, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, reclusione, e altri atti inumani diretti contro civili 9. Confermando questo inquadramento, nel 2020 il caso è stato ammesso dalla Procuratrice della CPI. Questa ha così affermato la propria giurisdizione: la CPI, in base all’articolo 13 dello Statuto di Roma, ha infatti giurisdizione non solo su deferimento dei procuratori nazionali o del Consiglio di Sicurezza, ma anche in caso di indagine aperta proprio motu, per cui è necessaria l’autorizzazione della Camera preliminare della Corte (Pre-trial Chamber). Afferma anche il fatto che ci sia una base ragionevole per credere che tali crimini fossero effettivamente stati commessi. Ulteriore conferma è giunta nel 2023, quando una Missione di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite, istituita dal Consiglio dei diritti umani ha concluso che l’UE e gli Stati Membri stanno partecipando in crimini contro l’umanità commessi lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Tuttavia, in un’audizione davanti al Parlamento Europeo del maggio 2020, la Procuratrice della CPI ha sottolineato che la prima comunicazione di Front-lex riguardava la responsabilità degli Stati, elemento alieno alla giurisdizione della CPI, che si occupa invece di responsabilità individuale. A luglio 2020, la comunicazione è stata aggiunta al dossier riguardante la situazione in Libia; secondo gli autori della comunicazione, erroneamente, considerando che le vicende analizzate sono diverse e concettualmente slegate dal conflitto civile libico. Vista l’inerzia della CPI, il team di Front-lex ha presentato una seconda comunicazione, il 6 ottobre 2025 10. Questa è concentrata sull’apparato di potere che ha progettato e implementato i crimini descritti nella prima comunicazione e sull’identificazione degli individui che li hanno ideati, ordinati, ed eseguiti. Sono stati analizzati i sistemi di 28 Stati (i 27 Stati UE e il Regno Unito) e le istituzioni europee, mappando ogni organo ed agenzia coinvolta, estraendo i nomi dei funzionari, e valutando la responsabilità penale individuale di ognuno. A tal fine, sono stati intervistati 77 testimoni e potenziali sospetti, sono stati analizzati documenti interni e verbali di riunioni confidenziali, nonché documenti pubblici. Il risultato è una lista di 122 responsabili, nei cui confronti sussistono fondati motivi per ritenere che i sospettati abbiano partecipato alla commissione dei reati contestati. Quello che si richiede alla CPI è di chiedere l’autorizzazione per aprire un’indagine ed esaminare la responsabilità penale dei sospetti individuati, coordinarsi con i rappresentanti legali delle vittime per ottenere ulteriori prove, e di ri-nominare la popolazione civile colpita come «richiedenti asilo di diverse nazionalità transitanti lungo la rotta del Mediterraneo centrale» (e non più come “migranti libici”). I 122 responsabili sono stati suddivisi in quattro categorie, in base al grado di responsabilità (highest, high, medium e low). Nella prima, alti funzionari delle istituzioni e delle agenzie europee (il Consiglio dell’Unione Europea, la Commissione, Frontex, l’EEAS, e l’Agenzia Europea per la Sicurezza Marittima), e Ministri e Capi di Stato europei. Spiccano Angela Merkel, Joseph Muscat (primo ministro maltese dal 2013 al 2020), e Viktor Orban. I nomi italiani sono 32, un quarto del totale, cifra vertiginosa se si considera che la lista include cittadini di altri 27 Paesi e funzionari UE. Tra questi, tre Presidenti del Consiglio dei Ministri (Paolo Gentiloni, Matteo Renzi e Giuseppe Conte), tre ministri degli interni (Angelino Alfano, Marco Minniti e Matteo Salvini), Andrea Orlando (ministro della Giustizia dal 2014 al 2018), Danilo Toninelli (ministro dei trasporti nel 2018), Elisabetta Trenta (ministra per la difesa nel 2018), Enzo Milanese (ministro per gli affari esterni nel 2018), membri di gabinetto, PM di Trapani e Catania, ufficiali della Guardia Costiera. I rappresentanti legali delle vittime hanno presentato alla CPI anche un’altra lista, “the officials database”, contenente i nomi di individui che hanno ricoperto cariche ufficiali durante il periodo esaminato, il cui coinvolgimento merita ulteriori analisi. La lista contiene 384 nomi, tra cui l’ex Primo Ministro greco Tsipras e l’ex PM inglese David Cameron. Anche qui, l’Italia è sovra rappresentata: 108 italiani, tra cui Luciana Lamorgese, Luigi di Maio e Matteo Piantedosi. In quanto paese primario d’arrivo delle persone migranti, l’Italia ha avuto un ruolo centrale nell’implementazione delle politiche UE nel Mediterraneo Centrale, richiedendo e introducendo regole sempre più restrittive contro i richiedenti asilo e contro le ONG. Il report analizza in particolare il coinvolgimento delle istituzioni italiane nella conclusione del Memorandum Italia – Libia, stabilito nel 2017 e rinnovato per la terza volta il 17 ottobre 2025 11, e nell’istituzione del Fondo Africa, nella collaborazione con Frontex e la “guardia costiera” libica per respingimenti in acque italiane e internazionali. Approfondimenti MEMORANDUM ITALIA-LIBIA, UN PATTO DI VIOLAZIONI E ABUSI Il 2 novembre l’accordo sarà rinnovato. Refugees in Libya: manifestiamo a Roma il 18 ottobre Carlotta Zaccarelli 29 Settembre 2025 L’azione di Front-lex e degli avvocati Branco e Shatz è innovativa. Giuridicamente, è una strada mai provata prima: non esistono al momento cause intentate contro gli Stati europei o l’Unione Europea davanti alla CPI o alla Corte di Giustizia Internazionale per crimini commessi contro le persone migranti. È invece consolidata la giurisprudenza della CEDU sul punto – tanto che è stato richiesto alla Corte di riconsiderare il proprio orientamento, considerato da diversi leader europei, Italia e Danimarca in primis, troppo garantista 12. Anche a livello nazionale ci sono state delle evoluzioni: le corti penali italiani hanno emesso condanne concernenti naufragi o deportazioni forzate in Libia, e il Servizio Scientifico tedesco ha nel 2023 indicato come respingere i richiedenti asilo verso la Libia potesse dare adito a responsabilità penale individuale in base al Codice Penale tedesco. Nel 2024 la Corte costituzionale italiana ha riconosciuto che la Libia non è un Paese sicuro per i richiedenti asilo, e che i respingimenti costituiscono un crimine in base alla legge internazionale 13. Approfondimenti/Guida legislativa CORTE DI CASSAZIONE: LA LIBIA NON È UN PORTO SICURO Chiunque consegni alle autorità libiche le persone soccorse è perseguibile Avv. Arturo Raffaele Covella 28 Febbraio 2024 L’incisività della CPI è stata fino ad ora piuttosto limitata, e questo anche sul fronte delle indagini sulle azioni di Gheddafi e il conflitto libico. Ad ottobre 2024 la Camera preliminare ha desecretato sei mandati d’arresto contro membri della milizia al Kaniyat per crimini di guerra, ma i responsabili sono tuttora in libertà; nonostante ciò, la Corte ha annunciato la propria intenzione di chiudere il dossier nel 2026. Il 18 gennaio 2025 la CPI emette un mandato d’arresto contro Osama Almasri Njeem. Poco dopo il suo arresto in Italia, viene rimpatriato in Libia a bordo di un aereo di Stato italiano. Gli avvocati Shatz e Branco presentano una mozione alla CPI richiedendo di indagare sull’accaduto, prospettando una responsabilità di Giorgia Meloni, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi per ostruzione della giustizia in base all’articolo 70 dello Statuto di Roma. Notizie CASO ALMASRI: LAM MAGOK CHIEDE ALLA CORTE COSTITUZIONALE DI FARE LUCE SULL’OPERATO DEI MINISTRI «L’Italia è sotto ricatto e il Governo lo rivendica come scelta politica» Redazione 21 Ottobre 2025 Il 17 ottobre 2025 la Camera preliminare della CPI 14 ha individuato nel comportamento italiano una violazione dello Statuto di Roma. Secondo la CPI infatti rimpatriare Almasri senza informare la Corte dell’esito del procedimento davanti alla Corte d’appello né tanto meno del rimpatrio stesso costituisce una violazione dell’obbligo di cooperazione, in base all’articolo 97 dello Statuto di Roma. La CPI parla di comunicazioni interrotte dall’Italia dopo l’arresto, e di spiegazioni “contraddittorie e giuridicamente infondate” fornite riguardo alla vicenda. La CPI ha differito il rinvio al Consiglio di Sicurezza e all’Assemblea ONU, ma ha esplicitato come l’Italia abbia impedito alla Corte stessa di esercitare le sue funzioni e i suoi poteri 15. CI si chiede se l’impressionante lavoro di Front-lex e degli avvocati Branco e Shatz porterà un risultato concreto. Negli ultimi mesi, davanti al genocidio in corso a Gaza, i dubbi riguardo l’efficacia e la stessa ragion d’essere del diritto internazionale sono cresciuti. Diversi Stati firmatari dello Statuto di Roma hanno dimostrato grande noncuranza per le decisioni della CPI: nel 2025 l’Ungheria ha annunciato il proprio recesso dallo Statuto di Roma, e sia Putin – oggetto di un mandato d’arresto da parte della CPI – che Netanyahu – per cui il mandato è stato richiesto, si sono recati in Stati membri. L’Italia, membro fondatore della Corte, ha dimostrato un particolare disinteresse per i contenuti dello Statuto, permettendo a Netanyahu l’accesso al proprio spazio aereo e direttamente ostacolando la Corte nell’arresto di Almasri. Nel frattempo, la “guardia costiera” libica usa la violenza sempre più frequentemente, anche contro le navi di soccorso delle ONG; le persone morte cercando di raggiungere l’Italia sono almeno 738 solo nel 2025, e dalla presentazione della comunicazione di Front-lex i naufragi documentati almeno due. Il Mediterraneo centrale resta la frontiera più letale al mondo. 1. ONG che si occupa di strategic litigation davanti alla Corte di Giustizia dell’UE, alla CEDU e alla CPI ↩︎ 2. Press Release ↩︎ 3. Per un riassunto completo del caso, l’elenco dei presunti responsabili, delle vittime e delle prove presentate alla CPI, si rimanda qui ↩︎ 4. Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, un’agenzia dell’Unione Europea che si occupa del controllo e della gestione delle frontiere esterne degli stati membri dell’UE e dell’area Schengen ↩︎ 5. Ossia quelli su cui esercita giurisdizione la CPI: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimine di aggressione. ↩︎ 6. Trattato istitutivo della Corte penale internazionale, che definisce i crimini internazionali più gravi (genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, aggressione), adottato a Roma nel 1998 ↩︎ 7. Operazione militare e umanitaria italiana (2013–2014) nel Mediterraneo centrale, volta al soccorso in mare e al contrasto del traffico di esseri umani. Sostituita dall’operazione Triton di Frontex nel 2014 ↩︎ 8. Il Memorandum Italia-Libia, firmato il 2 febbraio 2017 e ufficialmente rivolto a fermare i flussi irregolari, e la Dichiarazione di Malta, del 3 febbraio 2017, con cui l’UE impegna 200 milioni € per formare e finanziare la Guardia Costiera Libica e migliorare le strutture di accoglienza in Libia ↩︎ 9. In base all’articolo 7 dello Statuto di Roma, i crimini contro l’umanità sono atti commessi “nell’ambito di un attacco esteso o sistematico contro una popolazione civile con la consapevolezza dell’attacco” ↩︎ 10. Leggi la comunicazione ↩︎ 11. Il governo Meloni ha deciso di mantenere in vigore il Memorandum con la Libia, che prevede collaborazione nel controllo delle frontiere e sostegno alla guardia costiera libica, nonostante le richieste di opposizioni e ONG di interromperlo. L’accordo dura tre anni e si rinnova automaticamente se una delle due parti non ne chiede la cessazione entro tre mesi dalla scadenza ↩︎ 12. Leggi la comunicazione ↩︎ 13. Per i riferimenti delle sentenze e delle comunicazioni clicca qui ↩︎ 14. Caso Almasri la Corte Penale Internazionale ricostruisce la sequela di omissioni. Entro venerdì 31 ottobre l’Italia deve fornire ulteriori informazioni, Giustizia Insieme (24 ottobre 2025) ↩︎ 15. La decisione completa è disponibile qui ↩︎
Accordi che uccidono: zone SAR o zone al di fuori di qualsiasi giurisdizione?
1. In una vasta zona di mare a sud di Lampedusa e di Malta, nella quale nel 2018 si era costruita a tavolino la finzione di una zona SAR ( di ricerca e salvataggio) affidata alla responsabilità del governo di Tripoli, sostenuto fino al 2020 dalla missione della Marina militare italiana NAURAS (nell’ambito dell’operazione Mare Sicuro), si sta rivelando il costo umano e la totale inefficacia del Memorandum d’intesa siglato tra Italia e “Libia”, in realtà soltanto con il governo provvisorio di Tripoli, nel mese di febbraio del 2017, prorogato nel 2020 e ancora nel 2023. Si intensificano intanto le notizie degli abusi a cui sono sottoposti i migranti intrappolati in Libia e già nel 2020 si aveva notizia di tre persone, di nazionalità sudanese, uccise dalla sedicente “guardia costiera libica” al termine di una operazione di intercettazione in alto mare e riconduzione a terra. Persone uccise a colpi di arma da fuoco che, con il loro tentativo di fuga, si volevano sottrarre alle sevizie inflitte dai carcerieri libici anche nei centri di detenzione “governativi” ed al turpe mercato di esseri umani che continua a caratterizzare la condizione di chi viene riportato in Libia. Come riferisce l’AGI, lunedì 13 ottobre “Unità libiche avrebbero sparato contro una imbarcazione di migranti nella Sar maltese: a riferirlo sono il centro di monitoraggio non governativo Alarm Phone e la ong Mediterranea. I 140 migranti sono poi sbarcati a Pozzallo. ‘Una persona, con una pallottola nel cranio – spiega l’ong – è in coma e sta lottando tra la vita e la morte e altre due risultano gravemente ferite, al volto e a una mano, vittime dei colpi sparati da una motovedetta libica’. L’attacco sarebbe avvenuto ieri ‘a circa 110 miglia nautiche a sud est della Sicilia’. Non è ancora chiaro se nell’attacco una persona sia rimasta uccisa. “Insieme ad Alarm Phone – prosegue Mediterranea – avevamo avvisato le autorità italiane fin dal pomeriggio di ieri, ma solo oggi, con ventiquattr’ore di ritardo dalla tragica sparatoria, sono partiti i soccorsi. La persona ora in fin di vita poteva essere raggiunta subito da un elicottero maltese o italiano ieri. Ci auguriamo riesca a sopravvivere. Ma se dovesse finire diversamente, di fronte alla scelta di omettere un necessario soccorso urgente, sappiamo di chi sono le responsabilità’”. Secondo quanto comunicato successivamente dalla stessa agenzia, “ Emorragia cerebrale, teca cranica danneggiata e frammenti ossei all’interno ma non ci sarebbe alcun proiettile: è in condizioni disperate un 15enne migrante egiziano ferito gravemente alla testa prima di un soccorso della Guardia costiera nella Sar maltese, e trasportato in elisoccorso al Cannizzaro di Catania, ora intubato e in stato comatoso. Un altro compagno di viaggio ha una parte del volto disintegrata, mascella e mandibola, ed è cosciente: a colpirlo è stato forse un razzo di segnalazione esploso ad altezza d’uomo. Il terzo è stato colpito ad una coscia, ha un foro d’entrata e un foro d’uscita, è il meno grave dei tre. Gli ultimi due sono al momento negli ospedali di Modica e Ragusa. La Ong mediterranea parla di una aggressione ‘armata da parte dei miliziani libici’ che sarebbe avvenuta nel pomeriggio di ieri. I tre feriti facevano parte di un numeroso gruppo di 140 persone in tutto, che si era imbarcato – secondo quanto apprende l’AGI – su un natante in ferro quattro giorni fa. In molti hanno ferite da percosse, parecchi anche con bruciature, segno di torture patite prima della partenza. A bordo di una motovedetta della guardia costiera e di un pattugliatore della Guardia di finanza, i migranti sono sbarcati a Pozzallo. Lo sbarco si è concluso da poco“. Sembra che i migranti siano stati soccorsi soltanto quando, dopo essere rimasti per ore sotto il fuoco dei libici, erano giunti a circa 50 miglia da Pozzallo. In un comunicato di Alarmphone si denuncia come ” Nonostante avessimo allertato le autorità europee, comprese quelle italiane e maltesi, della presenza dell’imbarcazione in difficoltà, queste non sono intervenute. Per oltre 12 ore, nessuna nave della guardia costiera o altro mezzo è intervenuto per salvare o assistere il gruppo attaccato. Data la mancanza di intervento, l’attacco al barcone di migranti ha potuto proseguire senza ostacoli. Per ore, le persone a bordo hanno riferito che il gruppo di miliziani è rimasto nelle loro vicinanze, attaccandoli e sparando continuamente. Nel pomeriggio, le persone hanno anche riferito che le forze della milizia stavano speronando la loro imbarcazione, rischiando che si capovolgesse”. Soltanto molte ore dopo il primo allarme, lanciato nella giornata di domenica 12 ottobre, e dopo che i contatti con il barcone sotto attacco dei libici in acque internazionali erano stati interrotti, si è appreso che i naufraghi erano stati soccorsi dalla Guardia costiera italiana il giorno successivo, mentre nulla, per quanto risulta, veniva operato dalle autorità maltesi, che pure erano state allertate. Anche questa circostanza non costituisce certo una novità, basti pensare al caso della nave militare italiana Libra, nel 2013, ed al processo che ne è seguito. 2. Gli accordi bilaterali conclusi tra Italia ed autorità libiche di Tripoli, al di là della dubbia legittimità formale,  non possono modificare la portata cogente delle Convenzioni internazionali che regolano le attività di ricerca e soccorso in mare. Quegli accordi che violino quanto prescritto dalle Convenzioni sarebbero illegittimi e determinerebbero la responsabilità di chi li ha sottoscritti e vi ha dato esecuzione. Una argomentazione, quella della  derogabilità delle Convenzioni per effetto di accordi bilaterali,  già utilizzata dal governo italiano nel 2012, davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul caso Hirsi, concluso poi con un totale rigetto delle tesi difensive italiane e dunque con la condanna. Una condanna che oggi si cerca di aggirare. Non si tratta semplicemente di riaffermare diritti che sono stati violati, spesso a costo della vita di centinaia di persone, occorre arrivare a sanzioni esemplari che impediscano che questi comportamenti violenti dei libici siano ancora tollerati, se non incentivati, e proseguano in futuro con un costo sempre più elevato in termini di vite umane. A fronte di una opinione pubblica che ormai appare indifferente, se non apertamente complice, rispetto alla morte in mare, alle torture ed agli abusi di ogni genere inflitti ai migranti “soccorsi” in acque internazionali e ripresi dalle diverse milizie libiche, dopo l’intervento della sedicente Guardia costiera “libica”. L’indagine che sarà aperta dalla magistratura dovrà accertare i tempi del soccorso portato dalle autorità italiane ai migranti vittime di questa ennesima aggressione da parte della sedicente Guardia costiera libica, o meglio di una delle diverse Guardie costiere che foraggiate dagli accordi con l’Italia e l’Unione europea hanno trasformato il Mediterraneo centrale in uno spazio al di fuori di qualsiasi giurisdizione. Purtroppo, troppo spesso, sotto gli occhi vigili di Frontex e delle tante autorità militari che sorvegliano questa zona di acque internazionali per prevalenti finalità economiche, per garantire il traffico commerciale e la circolazione delle risorse energetiche che arrivano dalla Libia e dalla Tunisia. Non certo per salvare vite umane, compito che viene svolto dalle ONG con difficoltà crescenti, dopo decine di fermi amministrativi, che hanno riguardato persino i piccoli aerei in uso al soccorso civile per avvistare le imbarcazioni in difficoltà. Ma troppo spesso scomodi testimoni della collusione nelle attività di intercettazione violenta e nei respingimenti collettivi in mare “su delega” dell’Italia, di Malta e dell’Unione europea, che forniscono ai miliziani libici, in divisa di Guardia costiera, mezzi, supporto finanziario e addestramento. 3. La Corte di Cassazione dell’1 febbraio 2024 n. 4557, con riferimento all’epoca dei fatti del caso ASSO 28, dunque al luglio del 2018, poche settimane dopo la istituzione di una zona SAR “libica”, rilevava come “Nonostante la notifica (unilaterale) della istituzione della zona SAR libica all’IMO, la stessa non era operativa, non esisteva uno stato libico unitario e le autorità di Tripoli — riconosciute dalle Nazioni Unite — avevano perso il controllo di parti molto vaste del territorio che prima controllavano”. Una considerazione che può ripetersi ancora oggi, nonostante siano mutati i rapporti di forza e le modalità sul campo dello scontro politico e militare ancora in corso tra le diverse fazioni libiche. Cade la finzione di una zona SAR “libica” e le autorità maltesi, malgrado qualche sporadico intervento, dimostrano per l’ennesima volta di non potere garantire interventi di Search and Rescue in tutta la vasta zona SAR loro assegnata. Dopo la vicenda Almasri, sulla quale il voto del Parlamento non chiude le attività di indagine che proseguono a livello internazionale, i libici hanno alzato il livello della violenza con cui intervengono attaccando i barconi carichi di migranti e sparando persino sulle navi del soccorso civile per allontanarle dalle acque internazionali nelle quali spadroneggiano per conto dei governi italiano e maltese, con i finanziamenti provenienti dall’Unione europea e con il costante tracciamento garantito dagli assetti aerei di Frontex. L’intero sistema di ripartizione delle zone SAR nel Mediterraneo centrale deve essere rivisto, perchè sta costando troppe vite umane, vittime di ritardi se non vere e proprie omissioni di soccorso. Se non interverrà l’Imo (Organizzazione internazionale del mare) di Londra, che è una organizzazione legata alle Nazioni Unite, dovrà promuoversi una vasta mobilitazione internazionale che dovrà coinvolgere quelle altre agenzie delle Nazioni Unite, come l’OIM e l’UNHCR, che denunciano gli abusi commessi dalla sedicente guardia costiera libica, ma non riescono a mettere in discussione i poteri, ma soprattutto i doveri di soccorso, che il riconoscimento di una zona SAR in acque internazionali comporta a carico degli Stati costieri. Quanto successo negli ultimi giorni, ma queste aggressioni si ripetono da anni, impone la sospensione immediata del riconoscimento internazionale di una zona SAR ( di ricerca e salvataggio) affidata esclusivamente alle autorità libiche, ed un ridimensionamento della zona SAR ancora riconosciuta a Malta, per ragioni economiche, ma per una estensione che le autorità maltesi, ammesso che ne abbiano l’intenzione, non sono certo in grado di controllare. Dopo le incursioni armate dei libici nella zona di ricerca e salvataggio maltese, dopo altre vittime innocenti degli accordi bilaterali per contrastare quella che si definisce soltanto come “immigrazione illegale”, occorre che l’Unione europea imponga la sospensione degli accordi tra Malta ed il governo di Tripoli, su una zona SAR riconosciuta a La Valletta solo per ragioni economiche, ma che non assolve ad alcuna effettiva funzione di salvataggio, risultando ormai uno spazio sottratto a qualsiasi giurisdizione, dove si spara e si uccide impunemente. Ma è altrettanto urgente bloccare l’ennesima proroga automatica del Memorandum d’intesa Gentiloni del 2017 con il governo di Tripoli, e fare chiarezza, al di là del procedimento penale bloccato con un voto politico dal Parlamento, sul caso Almasri sul quale si rischia un conflitto di attribuzione, e sulla attuale organizzazione delle diverse autorità militari che si contendono il controllo della cosiddetta zona SAR “libica”, come se fosse uno spazio di sovranità, di traffici e di abusi, e non invece uno spazio riconosciuto a livello internazionale per la salvaguardia della vita in mare. Fulvio Vassallo Paleologo
Dall’Albania all’Europa: aboliamo i centri di detenzione
Il Network Against Migrant Detention rilancia la mobilitazione in Albania contro i CPR e la detenzione amministrativa. Dal 31 ottobre al 2 novembre, tra Tirana e Shëngjin, si terranno diverse iniziative pubbliche tra cui una marcia verso il CPR di Gjadër e un’assemblea transnazionale per rafforzare la lotta comune contro le politiche di confinamento e deportazione. “Per questo chiamiamo a mobilitarsi insieme, oltre i confini, per il suo completo smantellamento”, scrive nell’appello il Network. Martedì 30 settembre ad ore 18.30 si terrà un’assemblea transnazionale online per costruire la mobilitazione. Per informazioni e ricevere il link della call si può scrivere a: againstmigrantdetention@gmail.com o al profilo Instagram. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Network Against Migrant Detention > (@networkagainstmigrantdetention) L’APPELLO Il 1° e 2 novembre come Network Against Migrant Detention torneremo in Albania durante l’anniversario dell’accordo Rama–Meloni, che permette all’Italia di costruire e gestire CPR in territorio albanese. Questi centri non sono solo incostituzionali: rappresentano un progetto coloniale che, con la complicità del governo albanese, segna un pericoloso precedente che l’Europa intende replicare attraverso il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo. L’Albania diventa così un laboratorio di esternalizzazione, in cui sperimentare pratiche carcerarie e politiche di deportazione che vediamo emergere un po’ ovunque.  In queste settimane, manifestazioni di massa e scioperi sociali stanno bloccando diverse città in Europa, in particolare in Italia, per opporsi al genocidio in Palestina. La lotta per la libertà della Palestina è infatti diventata un simbolo politico capace di esprimere un rifiuto più ampio di tutte quelle politiche fasciste e securitarie che legittimano l’uso sistematico della violenza contro alcuni soggetti e reprimono ogni forma di dissenso. Israele, infatti, è il regime coloniale che in maniera più sistematica ha fatto ricorso alla detenzione amministrativa per imporre un controllo sulla popolazione palestinese. Lo stesso tipo di violenza lo ritroviamo esercitato in molti altri contesti contro le persone in movimento attraverso i confini globali. Dagli Stati Uniti all’Europa, dal Nord Africa al Rwanda, le immagini di deportazioni, respingimenti e detenzioni illegali si moltiplicano, mentre governi di estrema destra in tutto il mondo alimentano la retorica securitaria basata su confini chiusi, rimpatri forzati e deportazioni di massa. La detenzione amministrativa si consolida così come pilastro centrale di questo modello repressivo, fondato sulla reclusione, l’espulsione e la negazione dei diritti. In tutta Europa, il regime delle frontiere sta subendo una profonda ristrutturazione. Spinto da agende politiche sempre più autoritarie, il sistema migratorio dell’UE si sta orientando verso una gestione rapida, esternalizzata e fortemente militarizzata. Il quadro giuridico che rende possibile questa trasformazione è il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo, che accelera pericolosamente le procedure di frontiera e normalizza la detenzione come strumento ordinario di gestione della mobilità. Accanto a questo, l’UE e i singoli stati membri stanno sperimentando le cosiddette “soluzioni innovative”. La proposta di modifica da parte della Commissione Europea della Direttiva Rimpatri, che introdurrebbe i Return Hubs e le liste dei Paesi Sicuri, segue e amplifica in termini concreti la logica introdotta dal Patto: rendere le persone sempre più deportabili, invisibili e detenibili. Insieme, questi strumenti contribuiscono a smantellare un diritto d’asilo già fragile, costringendo le persone migranti a una precarietà ancora più profonda, escluse dal welfare e dai servizi pubblici, ed esposte a uno sfruttamento più feroce da parte di mercati che continuano a richiedere manodopera a basso costo. Questa tendenza è riaffermata dal progressivo rafforzamento di Frontex, simboleggiato dall’apertura della nuova Frontex Academy a Varsavia, che mira ad aumentare il controllo securitario dei confini esterni, senza creare canali legali di accesso, costringendo così le persone migranti a intraprendere viaggi sempre più pericolosi. Eppure, nonostante la repressione, ogni giorno emergono forme di resistenza nei centri di detenzione in tutta Europa: scioperi della fame, rifiuto delle identificazioni, solidarietà reciproca, denunce pubbliche della violenza sistemica. Queste lotte dimostrano che i CPR non sono spazi di controllo totale, ma luoghi di conflitto. La lotta per la libertà di movimento e per l’autodeterminazione delle persone migranti rappresenta un’importante barriera contro la crescente militarizzazione di un regime di guerra globale che si manifesta oggi in genocidi, bombardamenti aerei indiscriminati, frontiere militarizzate, retate di massa e deportazioni su larga scala.  In questo contesto, segnato dal tramonto della democrazia liberale, abbiamo bisogno di connettere le lotte territoriali contro la detenzione amministrativa e dare vita a forme di resistenza conflittuale capaci di produrre una nuova idea di democrazia. Dobbiamo rafforzare una prospettiva transnazionale ed europea che vada oltre le mobilitazioni locali e nazionali: una prospettiva capace di condividere pratiche, costruire reti, coordinare strategie per abolire il regime europeo e globale di apartheid e confinamento. Abbiamo quindi scelto di unirci, insieme a compagnx albanesi,  italianx, europex  e transnazionalx, in una lotta decoloniale e solidale: per dire al popolo albanese che non è solo, che resistere è possibile, che la protesta deve crescere anche dove la cultura della resistenza è stata sistematicamente repressa. In gioco non c’è solo l’Albania o l’Italia, ma il futuro dell’Europa tutta. Da qui deve partire un processo di radicale democratizzazione dello spazio europeo e mediterraneo in cui viviamo.
Continua la strage degli invisibili nel Mediterraneo in guerra
Mentre nella Striscia di Gaza si sta consumando un vero e proprio genocidio, e le complicità internazionali con il trumpismo dilagante, inclusa la complicità del governo italiano, stanno allontanando la soluzione di tutti i numerosi conflitti in corso nel mondo, continua la serie di naufragi nel Mediterraneo centrale. Stragi di sistema, frutto degli accordi con il governo tunisino e con le entità militari e statali che si contendono la Libia, supportate dal monitoraggio aereo di Frontex e dalle prassi operative di “difesa” dei confini marittimi e di contrasto dell’immigrazione illegale, attuate nel Mediterraneo centrale dall’Italia ed i misura minore, dal governo maltese. In nome della sicurezza dello Stato, e addirittura della lotta al terrorismo, si violano ormai tutte le norme di diritto internazionale sulla salvaguardia della vita umana in mare e sulla protezione dei richiedenti asilo. La vicenda Almasri, ancora torbida nei suoi più recenti sviluppi in Libia, e i tentativi di insabbiamento in corso per nascondere le gravissime responsabilità istituzionali, confermano il tracollo dei diritti umani nelle relazioni bilaterali tra Stati e la crisi di legittimazione delle Corti internazionali. A nessuno sembra più importare la sorte delle persone intercettate in mare o arrestate e respinte dalla Tunisia e trasferite nei centri di detenzione diffusi in tutta la Libia. Negli ultimi mesi sono aumentate le partenze ed i naufragi dalle coste della Cirenaica. La zona SAR ( di ricerca e salvataggio) “libica” sembra ormai sfuggita a qualsiasi controllo, a parte le intercettazioni violente, con l’uso di armi da fuoco, da parte della sedicente guardia costiera libica. Le autorità marittime che intervengono, spesso colluse con i trafficanti, ed alle quali secondo il governo italiano si dovrebbe obbedire, sono prive di qualsiasi legittimazione internazionale, oltre a commettere gravi crimini. Una “zona SAR”, quella “libica”, che andrebbe sospesa immediatamente, con il ripristino degli obblighi di soccorso in acque internazionali a carico delle autorità italiane e maltesi, con il supporto dell’agenzia europea FRONTEX, che non può ritirarsi dalle operazioni di ricerca e salvataggio. Oltre cento rifugiati sudanesi sono morti o risultano dispersi dopo due naufragi avvenuti sabato 13 e domenica 14 settembre al largo della costa di Tobruk, nella Libia orientale, come hanno annunciato mercoledì 17 settembre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Con questi ultimi naufragi, nel 2025 secondo l’Oim sono oltre 500 le persone che hanno perso la vita e altre 420 risultano disperse lungo la rotta del Mediterraneo centrale. I dati sono aggiornati, conferma Oim Libia, dall’inizio dell’anno al 13 settembre. Nello stesso periodo, precisa l’agenzia dell’Onu, i migranti intercettati in mare e riportati in Libia sono stati 17.402, di cui 15.555 uomini, 1.316 donne, 586 minori e 145 di cui non si conoscono i dati di genere. Pochi giorni fa un altro naufragio al largo delle coste tunisine, di cui nessuno ha scritto. Dopo il capovolgimento del barcone che li trasportava sono morte 39 persone, tra cui diversi cittadini camerunensi. Il 15 settembre una ragazza ventenne ha perso la vita in un naufragio a 45 miglia nautiche da Lampedusa. Il barchino di ferro su cui viaggiava insieme a una cinquantina di persone ha iniziato ad affondare, e secondo i sopravvissuti anche un’altra donna sarebbe dispersa. In una sola settimana dal 6 al 13 settembre, approdavano a Lampedusa oltre 3000 persone. E il 9 settembre venivano sbarcati nell’isola anche i cadaveri di due donne. Un fallimento su tutta la linea delle politiche migratorie italiane basate su accordi con governi che non rispettano i diritti umani. Ma in proporzione aumentano più le vittime che i cosiddetti “sbarchi”. E nei paesi di transito la condizione dei migranti peggiora sempre di più, nella totale impunità degli autori di abusi che vanno dalla violenza sessuale alla detenzione arbitraria ed all’estorsione attraverso torture atroci. Questa volta non sono arrivate neppure le dichiarazioni contrite ed ipocrite della presidente del Consiglio, come invece era avvenuto dopo i naufragi a sud di Lampedusa, lo scorso mese di agosto. Se non si vedono cadaveri, le vittime non esistono. Ormai l’interesse generale deve essere deviato verso i discorsi d’odio contro il governo, in vista delle prossime scadenze elettorali, e il vicepresidente del Consiglio Salvini annuncia l’ennesimo decreto legge contro le persone migranti. Intanto si rilancia in tutta Europa una violenta campagna anti-immigrati basata su fake news e manipolazioni con l’intelligenza artificiale. Secondo un recente Rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty. “La cooperazione esterna in materia di asilo e migrazione deve essere progettata e attuata con grande attenzione, per non mettere a repentaglio i diritti umani. I governi che sviluppano politiche di esternalizzazione in questo campo dovrebbero valutare attentamente il loro potenziale impatto negativo sui diritti umani, poiché tali politiche possono esporre donne, uomini e bambini a rischi significativi di gravi danni e sofferenze prolungate”.  Una valutazione puntualmente elusa dal governo Meloni, dopo il fallimento del modello Albania,  fortemente voluto dalla presidente del Consiglio e da Ursula von der Leyen, senza l’approvazione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio UE. Un modello perverso e personalistico di gestione delle relazione esterne dell’Unione europea, che oggi sta mostrando una serie di fallimenti a catena, purtroppo sulla pelle di persone innocenti. Mentre continuano i fermi amministrativi delle navi umanitarie e degli aerei civili, che permetterebbero di salvare migliaia di persone, il governo italiano, malgrado le pronunce di annullamento o di sospensione dei tribunali, continua a supportare le autorità di quei governi, o meglio entità statali neppure riconosciute dalla comunità internazionale, che sparano sulle imbarcazioni cariche di migranti e sulle navi umanitarie. Al di là delle gravissime responsabilità che dovranno essere accertate sul caso Almasri, occorre denunciare i responsabili delle politiche di morte che, in giorni in cui l’umanità sembra cancellata dal genocidio in corso a Gaza, continuano a produrre vittime nascoste nel silenzio prodotto dalle prassi di abbandono sistematico in mare e dalla censura dei canali informativi sui crimini che si consumano nelle acque del Mediterraneo. Le imbarcazioni civili dei cittadini solidali, comunque vengano contrastate, non abbandoneranno quelle zone di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali che, in virtù di accordi bilaterali come il Memorandum Italia-Libia del 2017, sono diventate spazi di intercettazione e deportazione. Occhi e voci di operatori umanitari che salveranno quante più vite possibile, ma anche testimoni inflessibili degli abusi e delle omissioni perpetrati dalle autorità statali e dalle milizie con la divisa di guardia costiera. Quelle autorità e quelle milizie che il governo italiano, con il sostegno dell’Unione europea, continua a finanziare e ad assistere, malgrado le sentenze che affermano come il Centro di Coordinamento del Soccorso libico e la Guardia Costiera libica non possano essere considerati soggetti legittimi per le operazioni di ricerca e soccorso. Fulvio Vassallo Paleologo
Gli occhi di Frontex sul Mediterraneo centrale
1. Da anni le attività di tracciamento di Frontex e la sua collaborazione con la sedicente Guardia costiera “libica” sono oggetto di aspre critiche anche all’interno delle istituzioni europee, ma nel frattempo questa collaborazione nelle intercettazioni continua, e l’agenzia, che opera anche da basi italiane e maltesi, viene continuamente rinforzata. Anche se dal 2013 sono note le conseguenze dei respingimenti collettivi illegali verso la Libia operati su delega delle autorità italiane ed europee, come denunciato da AMNESTY International. Un punto di svolta decisivo è stato costituito dal Memorandum d’Intesa tra Italia e governo di Tripoli, firmato da Gentiloni nel febbraio 2017, nell’ambito del quale si sono implementate e sviluppate le attività di sorveglianza aerea di Frontex in collegamento con le autorità italiane, che hanno fornito motovedette ed addestramento, e con la sedicente Guardia costiera “libica”. Fino al 2020 anzi una centrale di coordinamento libico operava di fatto con il concorso essenziale degli assetti navali italiani dell’operazione NAURAS, nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli. Anche il governo maltese ha ricevuto il supporto di assetti aerei Frontex ubicati nell’aeroporto di Luqa. La missione Themis di Frontex, fortemente voluta da Minniti nel 2017, proseguiva poi con Salvini, veniva rinnovata anche con il secondo governo Conte e con il governo Draghi e risulta tuttora operativa. Secondo un report pubblicato da IRPIMEDIA, nel corso del 2024, “le risorse di Frontex hanno effettuato oltre 10.800 ore di volo, di cui oltre 6.200 relative a operazioni con base a Malta e in Italia. La sorveglianza aerea di Frontex ha rilevato un totale di oltre 33.000 migranti, di cui oltre 30.000 in mare”. La stessa fonte riporta un articolo del sito Ares Osservatorio Difesa con riferimento «al comando operazioni aeronavali di Pratica di Mare», ai nuovi droni V-Bat in dotazione al corpo, e «al reparto di manovra aerea di Catania del gruppo aeronavale di Messina e al reparto di manovra aerea di Grottaglie del gruppo di Taranto». Notizie che confermano la stretta collaborazione tra gli assetti Frontex e la Guardia di finanza nelle attività di contrasto dell’immigrazione, che si definisce “illegale”, sulle rotte dalla Libia e dalla Tunisia. Secondo quanto si legge nel rapporto, “Alla fine del 2024, la sorveglianza aerea di Frontex sul Mediteraneo era assicurata da dieci velivoli”…, “tra cui diversi Eagles e Sparrows lanciati da Lamezia e Lampedusa”. 2. La suddivisione dei compiti tra Frontex e le autorità nazionali di controllo appare chiara. L’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne opera in stretto collegamento con le unità di coordinamento nazionali, facenti capo al ministero dell’interno, ed è impegnata in prima linea nella scoperta e nel tracciamento con droni e aerei delle imbarcazioni in navigazione nel Mediterraneo centrale, anche in collegamento con le centrali di coordinamento nei paesi di partenza e di transito, come la Libia e la Tunisia. Mentre spetta alle autorità nazionali “ospitanti” la classificazione come evento migratorio “illegale” o evento di ricerca e soccorso (SAR), l’avvio immediato, in quest’ultimo caso, delle attività di salvataggio, anche con il coinvolgimento di unità civili, e l’assegnazione del porto di sbarco (POS) in un luogo sicuro, con l’avvio delle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Una ricerca assai ben documentata, del gruppo LIMINAL dell’Università di Bologna pubblicata da Altreconomia a ottobre dello scorso anno, ha confermato il coinvolgimento dell’agenzia Frontex nei respingimenti collettivi in mare delegati ai libici ed ai tunisini, peraltro già rilevato nel 2022 da una precedente ricerca di Human rights watch (Hrw) dal titolo “Airborne complicity”. Nel frattempo l’accesso ai dati delle operazioni di tracciamento in mare delle imbarcazioni salpate dalla Libia e dalla Tunisia veniva sottoposto a crescenti limitazioni, in quanto la loro diffusione avrebbe potuto compromettere il buon esito delle attività di contrasto dell’immigrazione “illegale”. 3. Già nel febbraio del 2024 il direttore di Frontex Hans Leijtens ammetteva che in almeno in 2.200 casi, tra il 2020 e il 2023, la posizione delle imbarcazioni era stata inviata alla Guardia costiera libica. Come si continua a verificare ancora oggi, in misura presumibilmente ancora maggiore, se si leggono bene le dichiarazioni dei rappresentanti di governo che continuano ad individuare nella collaborazione con le diverse entità libiche la principale ragione del successo di quello che viene definito impropriamente come “blocco delle partenze”. Anche se in molti casi questo termine, smentito dai fatti, si traduce nella intercettazione in acque internazionali e nella riconduzione violenta di persone vulnerabili nei centri di detenzione variamente ubicati e gestiti in territorio libico. Intercettazioni altrettanto violente, secondo la stessa dinamica del sistema internazionale di contrasto dell’immigrazione “illegale” si sono verificate sulla rotta tunisina, e sono aumentate dopo la stipula nel 2023 del Memorandum UE-Tunisia. Le partenze non si sono mai fermate, in realtà, ma il numero delle vittime, in termini percentuali, è aumentato. La ricerca del gruppo LIMINAL ha dimostrato come “Frontex nasconde i pullback” classificando le numerose operazioni di intercettazione in mare come “prevenzione delle partenze”. Un dato che rende del tutto inattendibili i numeri sul “blocco delle partenze” forniti dal ministero dell’interno anche quest’anno, in occasione della tradizionale conferenza di Ferragosto. Un Rapporto di Statewatch dello scorso anno confermava la stretta collaborazione di Frontex nelle operazioni di respingimento collettivo (pushback) delegate alla sedicente Guardia costiera libica, chiamata ad intervenire dopo ogni avvistamento di imbarcazioni cariche di migranti in navigazione verso le coste italiane. Un attività di polizia internazionale che appare in contrasto con il Regolamento europeo n.656/2014, che antepone la salvaguardia dei diritti umani e l’esigenza di garantire lo sbarco in un porto sicuro (POS- Place of Safety) alle attività di contrasto dell’immigrazione “illegale”, in collaborazione con autorità che non garantiscono neppure il diritto alla vita e praticano sistematicamente trattamenti inumani e degradanti e detenzioni arbitrarie. 4. Piuttosto che subire condanne, malgrado denunce ben circostanziate, Frontex continua a ricevere un forte supporto politico ed economico dalla Commissione e dal Consiglio, ed è passata all’attacco di tutti coloro che ne hanno denunciato l’operato, chiedendo addirittura risarcimenti economici, dopo che la Corte di Giustizia dell’Unione europea, non riconoscendo alcuna responsabilità per i respingimenti collettivi illegali su delega operati su segnalazioni diffuse dall’agenzia, ha offerto una ennesima copertura alle operazioni svolte dall’Agenzia nel Mediterraneo, in collaborazione, oltre che con le autorità italiane, con le autorità libiche e tunisine. Anche la Corte Penale internazionale che sta indagando sui crimini contro l’umanità commessi in Libia ai danni delle persone migranti non ha ancora adottato provvedimenti che comportino l’interruzione delle attività di tracciamento in acque internazionali dei barconi carichi di migranti, non ai fini del soccorso, ma della collaborazione con libici e tunisini “per bloccare le partenze”. Nel 2025, secondo l’OIM Libia, più di 14.000 persone sono state intercettate e respinte forzatamente in Libia (aggiornamento del 5 agosto 2025). Nel 2024 erano 21.762. Questo numero è stato inferiore nel 2023, quando 17.190 persone sono state intercettate in mare e respinte in Libia. In questo contesto sono state bloccate con un provvedimento di fermo amministrativo adottato dall’ENAC, le attività di monitoraggio aereo dei mezzi del soccorso civile, che in passato avevano contribuito a salvare migliaia di vite, e si stanno rafforzando i sistemi di cooperazione con i libici delle diverse fazioni e con la Tunisia per un ulteriore” blocco delle partenze”. Un “blocco” che si realizza anche cancellando le tracce delle imbarcazioni segnalate ai libici ed ai tunisini, o perdute nelle acque del Mediterraneo centrale. Malgrado questo monitoraggio sempre più assiduo, e malgrado i “successi” nel blocco delle partenze, le imbarcazioni cariche di migranti continuano ad affondare, senza che nessuno le veda, magari proprio quando sono al limite delle nostre acque territoriali, in zona SAR italiana. In questi casi ci sono i corpi delle vittime, e la disperazione dei parenti, ma in pochi giorni anche questo dolore, ormai insopportabile per pochi, viene rimosso. E gli occhi di Frontex continuano a vigilare “a difesa dei nostri confini” e della nostra “sicurezza”. 5. Ormai uomini, donne, bambini che annegano sulla rotta libico-tunisina non fanno più notizia, anche perchè non devono intaccare la propaganda governativa secondo cui, con il calo degli “sbarchi”, sarebbero diminuite le vittime . Nel 2024 il rischio di perdere la vita sulla rotta è stato pari a 1 caso ogni 40 arrivi (era stato di 1 ogni 63 nel 2023) Mentre l’opinione pubblica dominante, con i suoi macabri commenti anche di fronte a questa ultima tragedia in mare, sembra dare ragione all’azione di governo, rimane documentato e prova incancellabile di responsabilità, che il tempo non potrà cancellare, anche se verrà apposto il segreto militare e se verranno intimiditi gli ultimi giornalisti indipendenti, il coinvolgimento costante di Frontex nelle attività di sorveglianza aerea nel Mediterraneo centrale. Attività che risultano in stretto collegamento con gli apparati militari e di sicurezza dei paesi ospitanti, e che comportano un intenso flusso di dati verso paesi che non garantiscono i diritti umani. Fino a quando le persone non finiscono in acqua, e se non raggiungono il limite delle acque territoriali, per Frontex e per le autorità italiane si tratta soltanto di eventi di immigrazione illegale, da monitorare a distanza, senza intervenire immediatamente. Anche se mancheranno, o verranno occultate, le prove per un accertamento di responsabilità in sede penale o davanti agli organi della giustizia internazionale, sono queste le ragioni profonde delle stragi che si continuano a ripetere sulle rotte dalla Libia e dalla Tunisia. Nessuno, davvero nessuno, potrà dire “io non sapevo”. Fulvio Vassallo Paleologo
Mediterraneo rotta letale: due bambini morti e una persona dispersa
Lunedì abbiamo individuato un’imbarcazione in difficoltà e allertato le autorità. Ieri il natante si è capovolto durante un’operazione di soccorso da parte di un mercantile. Lunedì il nostro aereo Seabird ha individuato un’imbarcazione in difficoltà con oltre 90 persone a bordo che era in mare da tre giorni. Due persone erano in acqua. Abbiamo immediatamente chiesto aiuto. Frontex è arrivata sei ore dopo, ha visto il natante e se n’è andata. Ieri mattina, le persone erano ancora abbandonate al loro destino. Le navi di soccorso europee avrebbero potuto raggiungerle in circa tre ore, ma hanno scelto di non intervenire. Quando la nave mercantile Port Fukuka, che si trovava nelle vicinanze, ha cercato di soccorrerle, l’imbarcazione si è capovolta. Tutte le persone a bordo sono finite in mare. Una volta soccorse, due bambini erano deceduti e una persona risultava dispersa. Oggi i naufraghi sono ancora sul mercantile e le autorità italiane stanno facendo di tutto per impedire loro di raggiungere l’Italia. C’è il pericolo imminente che la cosiddetta Guardia Costiera libica li rapisca e li porti in Libia, verso tortura e morte. È inaccettabile. La nostra nave veloce Aurora avrebbe potuto intervenire in soccorso di queste persone. Si trova a sole quattro ore e mezza di distanza, ma è bloccata dalle autorità italiane nel porto di Lampedusa con motivazioni prive di fondamento. Questo “spettacolo” vergognoso non si è ancora concluso, ma le autorità italiane ed europee non sono intervenute. È un sistema che sta facendo ciò per cui è stato progettato: lasciare che le persone anneghino ai confini dell’Europa. Silenziosamente, sistematicamente. Sea Watch