Tag - giornalismo

Caso “La Stampa” | Il prezzo di stare dalla parte giusta – di Cristina Roncari
Sabato sera. Cena. La Tv gira per conto suo. Arrivano le parole: “Ignobile, vile, grave, irresponsabile, anni di piombo”. Guardo le immagini: ragazzi entrano nella sede del quotidiano La Stampa e come si direbbe oggi in linguaggio antagonista “ lo sanzionano”. Mi colpiscono volti scoperti. Santa ingenuità. Con un governo di estrema destra e [...]
“Adesso racconto quel che non avevo scritto nelle mie cronache dai paesi in guerra”
«Spero di aver dato un contributo utile a spiegare cosa succede veramente dove vengono combattute le guerre», ha esordito Giuliana Sgrena alla presentazione del proprio memoriale nell’incontro a Casale Monferrato ieri sera, 27 novembre, organizzato dalle associazioni cittadine Rete delle Alternative e collettivo Donne Insieme. Le inchieste ‘sul campo’ e corrispondenze ‘dal fronte’ che ha inviato a Il Manifesto hanno raccontato molte pagine della storia di tanti paesi di Medio Oriente e Africa. Inoltre, hanno narrato della vita quotidiana delle loro popolazioni tra una guerra e l’altra, i conflitti tra milizie di fazioni politiche e religiose ed etnie avversarie e le invasioni degli eserciti sconfinanti dalle nazioni vicine o provenienti dall’altra parte del mondo, le forze delle ‘grandi potenze’ armate di mezzi all’avanguardia tecnologica e di troupe televisive addestrate a mostrare all’opinione pubblica la loro ‘versione’ dei fatti. Nelle pagine del libro appena pubblicato da Editori GLF Laterza, intitolato Me la sono andata a cercare. Diario di una reporter di guerra, racconta una storia parallela a quella delle vicende di cui ha riferito per 30 anni, cioè quella della propria vita professionale trascorsa nelle guerre, situazioni in cui un giornalista che si espone ai ‘rischi del mestiere’ viene considerato un eroe, invece di una donna ferita o aggredita mentre fa questo lavoro si dice che ‘se l’è andata a cercare’. «Io non sono mai partita convinta di avere una verità in tasca – ha spiegato Giuliana Sgrena dialogando con Alberto Deambrogio, a sua volta corrispondente di Alernativ@ e Mirella Ruo del collettivo Donne Insieme – Ho sempre cercato di capire i vari tasselli che compongono le realtà complesse come i paesi colonizzati e i conflitti militari». Infatti ha ‘aperto gli occhi’ anche su orizzonti per lei inaspettati: «In Algeria le donne mi hanno insegnato a non “camuffarmi” indossando il velo come fanno le giornaliste occidentali all’arrivo in un paese arabo». Narrando le proprie esperienze ha spiegato come avviene la costruzione dei reportage e come si sono evoluti il giornalismo d’inchiesta e il lavoro dei corrispondenti dalle zone di guerra:«Ho voluto raccontare quello che non ho scritto quando ero impegnata a documentare i fatti mentre ero in luoghi dilaniati e devastati dai conflitti bellici». La realtà con cui si confronta un reporter di guerra infatti non è la stessa che governanti e militari vogliono che sia ‘narrata’ all’opinione pubblica, e Giuliana Sgrena lo ha dimostrato con molti esempi come funziona la propaganda di guerra. Quando lei aveva iniziato a lavorare come inviata dai paesi in guerra doveva anche ingegnarsi per trovare i mezzi con cui inviare le notizie in redazione. Le innovazioni tecnologiche hanno reso possibile comunicare facilmente e rapidamente da ogni posto, anche da trincee e città e zone assediate, perciò i giornalisti indipendenti sono stati man mano sempre più allontati dai fronti e via via anche dai territori e dai paesi in cui vengono combattutte le guerre. In quelle più recenti, come in Ucraina, l’accesso dei reporter è stato ostacolato in molti modi e nella Striscia di Gaza impedito del tutto, mentre i citizen journalist, cioè le persone del posto che inviavano foto, video e notizie alle redazioni, venivano minacciati, bersagliati e massacrati. Con la scusa di proteggerli dai pericoli, in realtà per controllare la divulgazione di informazioni, gli eserciti hanno ‘inglobato’ i corrispondenti dei mass-media istituzionalizzando la figura degli embedded reporter, in pratica ‘arruolando’ i giornalisti in truppe addestrate a produrre notizie in modo funzionale al perseguimento degli obiettivi militari. Finché ci sono persone che la vogliono sapere e giornalisti che la vogliono narrare, e la cercano, la verità può riuscire a trapelare anche dalla spessa corazza di segreti militari e di pretesti, falsità e menzogne che ammanta ogni guerra. Ma le informazioni che le correggono non producono lo stesso effetto delle fake news, come Giuliana Sgrena ha sperimentato anche direttamente. Ad esempio, siccome nei giorni della fine della seconda ‘guerra del Golfo’ era uno dei pochi giornalisti che si trovava a Baghdad, un redattore della RAI la chiamò dall’Italia per farsi raccontare dell’esultanza degli iracheni, enfaticamente esibita dai media americani: «Ma poi non trasmise quello che gli avevo riferito – ha spiegato Giuliana Sgrena – Gli avevo detto che la gente era chiusa in casa e, come anni dopo si è visto nelle immagini non artefatte di un reporter indipendente, al video che mostra l’abbattimento della statua di Saddam Hussein e che è diventato l’immagine simbolo della sconfitta di un dittatore nemico delle democrazie occidentali non c’era la folla che appariva nel filmato divulgato dalla tropue televisiva al seguito dell’esercito americano». Quando un gruppo islamista in Iraq l’aveva sequestra e il suo collega, Nicola Calipari, che si era prodigato per liberarla e l’accompagnava all’aeroporto di Baghdad venne ucciso da un soldato americano, ma i media americani e anche italiani hanno narrato questa vicenda in molte versioni, nessuna aderente e corrispondente al vero. Se un contrattempo non glielo avesse impedito, sarebbe stata a Mogadiscio negli stessi giorni in cui vi venivano uccisi Ilaria Alpi, che conosceva molto bene, Miran Hrovatin che l’accompagnava e la loro scorta. Premettendo che «Tutti i giornalisti che allora lavoravano in Somalia sapevano dell’esistenza del traffico di armi e rifiuti tossici su cui indagava anche Ilaria, che però non aveva scoperto niente di sensazionale, anzi…», Giuliana Sgrena ha spiegato che la reporter e il cameraman erano arrivati nella città in rivolta ignari della situazione e, soprattutto, non sapendo di essere un bersaglio dei ribelli perché erano italiani come i militari che avevano torturato molti somali e gestito una casa di prostituzione. Nel riferire di aver scoperto che i miliziani somali avevano infierito su Ilaria Alpi e Miran Hrovatin per vendetta, non per sventare la minaccia dei giornalisti ‘insidiosi’, Giuliana Sgrena ricorda di esser riuscita a capirlo con l’aiuto di una coraggiosa donna somala che poi è stata assassinata forse proprio perché testimone di questa verità ‘scomoda’. Di un direttore de Il Manifesto, Luigi Pintor, che quest’anno compirebbe 100 anni, Giuliana Sgrena ha ricordato che da Enrico Berlinguer era considerato il miglior giornalista italiano e che quando lei era Baghdad mentre la situazione precipitava e in ogni redazione si decideva se dire agli inviati di fuggire oppure di restare, lui affermò che nessuna guerra vale la vita di chi la racconta agli altri. Maddalena Brunasti
Le invenzioni di Pintor
Un giornale è un giornale è un giornale è un giornale diceva Luigi Pintor parafrasando Gertrude Stein. Torneremo sulle ragioni di questa frase molto cara al fondatore del “manifesto”. Ora vorrei tentare di “leggere” quella forma atipica, forse eretica (secondo una diffusa convinzione) di giornale che fin dalla sua nascita ha dichiarato la propria carta di identità con la testatina “quotidiano comunista” con alcuni brevi esempi, a cominciare dai titoli. > Io non c’ero quando il manifesto quotidiano è nato, era il 28 aprile 1971. > Sono arrivata sette anni dopo, alla fine del 1978 passando per altre impervie > strade della comunicazione e in particolare per Radio città futura. Dico “impervia” non perché non sia stata una esperienza importante ma perché è stata, anche quella, una strada accidentata e perfino pericolosa, come forse ricorderà qualcuno, a causa dell’assalto di un gruppuscolo dei Nar con molotov e pistole alla nostra sede di San Lorenzo. Ma questa è un’altra storia. Dal 1978 e per un lungo periodo il mio contributo al manifesto è stato quello di lavorare agli allegati: “Antigone”, innanzitutto, la rivista voluta da Rossana Rossanda dopo il 7 aprile e il teorema Calogero, che aveva bollato come terrorismo tutto ciò che si muoveva alla sinistra del Pci. E poi “Nautilus”, in collaborazione con Psichiatria Democratica, e ancora “Fuori Luogo”, con la rimpianta Grazia Zuffa e Franco Corleone sulle dipendenze. Non è finita, il “manifesto” ha anche dato vita a una rivista mensile e a un settimanale, “Extra”, sempre alla ricerca di luoghi della discussione e dell’approfondimento che un quotidiano, perdipiù esile (in molti sensi) non avrebbe potuto proporre. Insomma, di allegato in allegato, arriviamo al 1994 quando il giornale decide di darsi una nuova veste grafica passando da giornale “lenzuolo” (o broadsheet come dicono quelli che ci capiscono) a tabloid. Quella profonda trasformazione non solo grafica non venne accolta inizialmente con favore dall’intero collettivo: il tabloid, sostenevano alcuni, avrebbe perso l’eleganza, la raffinatezza che gli aveva impresso uno dei più prestigiosi grafici del tempo, Giuseppe Trevisani che lo aveva disegnato nel ‘71. Il tabloid, di un altro grande grafico italiano, Piergiorgio Maoloni, evocava, dicevano alcuni, i quotidiani popolari e scandalistici inglesi tutti forma urlata e niente contenuto. Mentre il “manifesto”, fino ad allora, aveva prediletto, anche nella titolazione, uno stile discorsivo, un racconto pacato, un sommarione. Soprattutto il titolo di apertura diceva, in due, tre, perfino quattro righe, di cosa quel giorno il quotidiano aveva scritto, quali le priorità. > Il giornale lenzuolo si componeva all’inizio di sole quattro pagine ma quelle > quattro pagine mostravano che il panorama delle notizie non è “dato” una volta > per tutte e che si tratta sempre di scelte che corrispondono a criteri e > convinzioni ben definiti. Chi ancora crede che i giornali si limitino a riferire i fatti? Il manifesto ribaltava le sacre gerarchie dell’informazione “ufficiale” (o mainstream come dicono quelli che ci capiscono) e sceglieva di stare dalla parte di quelli che sui giornali di solito ci finivano solo se commettevano qualche reato. Una formula, quella del “manifesto” delle origini, ripresa dal “Foglio”, quotidiano fondato da Giuliano Ferrara nel ’96, anche se il direttore non lo ha mai ammesso. Del resto, la “Settimana enigmistica” lo scrive come elemento di successo di vantare innumerevoli tentativi di imitazione. Ma bisognava essere sufficientemente sicuri di sé per fare in modo che uno con la carta di identità di Ferrara potesse riconoscere questa ovvietà e evidentemente lui non lo è stato. Per tornare al 1994, il “manifesto” diventa tabloid. Il che significa banalmente che non si poteva continuare a fare i titoli/sommarione perché avrebbero riempito l’intera pagina. Occorreva inventare una forma più stringata ma non meno densa per reggere quella che definimmo “la copertina”: poche parole, più che altro suggestioni ma sempre dall’altra parte, quella “del torto”. Nasce così quella forma spregiudicata, ironica senza mai essere sprezzante, di titolazione basata sul “détournement”, cioè sul deviare o cambiare di senso per sovvertire il significato originale. Il “manifesto” diventa a volte “situazionista” alla maniera di Guy Debord, sferzante, allusivo. Altre volte sembra quasi richiamare Emile Zola e il suo J’accuse. Niente di nuovo, dunque? Il situazionismo è della metà degli anni ’50, Zola e la sua difesa di Dreyfus addirittura del 1898. > Invece, nel panorama dell’editoria il “manifesto” crea una discontinuità > mettendo assieme l’Uomo morde cane di Umberto Eco con la denuncia verso i > poteri, ma sempre con stile. Due esempi, quello politico è del 23 novembre 1994 a pagina intera c’è una grande targa stradale in marmo, come quelle di Roma e di tante città. La scritta è: “Via S. Berlusconi. E sotto: Presidente del consiglio 1994-1994”. La copertina si riferisce alle inchieste di Milano e Roma sull’allora presidente del consiglio. E poi le due indelebili nella memoria di molte e molti: 25 aprile 1994: una manifestazione indetta il 7 aprile da una prima pagina interamente scritta da Pintor. È il Si potrebbe che portò a Milano centinaia di migliaia di persone. Altrettanto dirompente la copertina per il giorno della Liberazione, il 25 aprile: una doppia copertina a “incartare” letteralmente la giornata. Il titolo: Che Liberazione. Chi altri avrebbe potuto fare una simile sgrammaticatura? E perché due copertine? Ecco, nella risposta a queste domande sta un po’ il cuore di quel vascello corsaro in grado di fare sortite nei territori nemici restando sempre sul pelo dell’onda, qualche volta cavalcandola, qualche volta rischiando di essere sommerso. Eppure, quella aporia chiamata “manifesto” la cui possibilità di soluzione era di per sé impossibile poiché nasceva dalla contraddizione, ha lasciato qualche traccia indelebile. Per esempio, c’era sempre qualcuno che ti chiedeva, elogiando i titoli: chi è che li fa? Senza capire che per sua natura e per scelta si trattava di un “fatto” collettivo, la cui paternità e maternità risiedeva nell’insieme delle persone che ci lavoravano e che in fine di giornata si riunivano (e chiunque poteva dire la sua) e cominciavano a tirar fuori parole in libertà e attraverso approssimazioni successive (brainstorming come dicono quelli che ci capiscono) si arrivava a comporre la musica. Oggi quella forma la si trova molto di frequente su molti media, segno che l’irriverenza, l’ironia senza sarcasmo, ha “bucato”. Peccato però che se non è accompagnata da una intenzionalità forte resta solo un gioco di parole. Intenzionalità come la intendeva Husserl ovvero «l’attitudine costitutiva del pensiero ad avere sempre un contenuto, a essere essenzialmente rivolto a un oggetto, senza il quale il pensiero stesso non sussisterebbe». > Oltre alla titolazione, Luigi Pintor è stato in grado di introdurre, nel > lessico giornalistico, alcune suggestioni linguistiche che hanno fatto scuola. A cominciare da quella mutuata dalla poetessa Gertrude Stein su «un giornale è un giornale è un giornale è un giornale» come «una rosa è una rosa, è una rosa è una rosa». Una tautologia ma al tempo stesso un indirizzo volto, tra l’altro, a dire che ogni regola, per essere violata, ha bisogno di essere confermata. E anche, come scriveva Umberto Eco, una voluta ridondanza per generare tensione e con essa catturare l’attenzione. Pintor ne scriveva in una carteggio tra lui e Rossana, quando si trattava di definire cosa sarebbe stato il quotidiano a cui volevano dare vita, a proposito della necessità o meno di un direttore. Un po’ come il direttore d’orchestra di cui parla Karl Marx nel Capitale, in cui a prevalere non è il concetto di proprietà (il direttore d’orchestra non è il proprietario degli strumenti ovvero dei mezzi di produzione) ma colui che coordina e dirige verso un obiettivo comune, la creazione di un prodotto finale. Forse non tutte e tutti sanno che Pintor amava la musica ed era un bravissimo pianista per questo la metafora del direttore d’orchestra non è casuale. > Una seconda frase “topos” riguarda la natura di un quotidiano: «Che a > mezzogiorno – diceva Pintor – è buono solo per incartare il pesce». E aggiungeva «ogni numero dura poche ore, scivola come acqua fresca, non lascia tracce, e quindi deve proporsi al massimo di esercitare una “suggestione”». Cadono le liturgie attorno a una professione che, nel bene e nel male, è stata oggetto di centinaia di film e di romanzi e che nell’immaginario collettivo ha un alto valore simbolico. Non che nella realtà non ci siano e non ci siano stati giornalisti e giornaliste che hanno saputo comunicare al di là dell’effimero, del contingente. Ma è la forma giornale che Pintor voleva relativizzare senza però sminuirla. E questo ha cercato di essere il “manifesto”, una suggestione, una comunicazione orizzontale e al tempo stesso uno scandalo voluto non per stupire con gli effetti speciali ma per dare concretezza alle idee che, senza infingimenti, dichiarava: essere, insomma, dalla parte del torto, come recitava una fortunata campagna pubblicitaria ideata con il contributo fondamentale dell’agenzia Fca di Sandro Baldoni. La campagna ebbe un certo successo come l’ebbe la più delicata ma altrettanto situazionista “La rivoluzione non russa” con l’immagine di un paffuto neonato. C’è un terza metafora cara a Pintor, quella del calabrone. Secondo le leggi della fisica, diceva Pintor, il calabrone con il suo grosso corpo e le ali piccole e corte non dovrebbe poter volare eppure vola. Lo diceva innanzitutto per sottolineare l’anomalia “manifesto” ma anche per dire della determinazione che può rendere possibile ciò che è ritenuto impossibile. In realtà gli studi della fisica hanno dimostrato che i calabroni possono tranquillamente volare perché il battito delle ali molto veloce e il particolare movimento creano la spinta necessaria. Tutto questo oggi può apparire fuori tempo massimo, giornali nati da una spinta così determinata non ne esistono forse più e i calabroni pare siano in via di estinzione, così come le rose di Gertrude Stein sono appassite ed è ormai proibito incartare il pesce con il giornale. Eppure, le ragioni per continuare a credere che l’informazione possa ancora oggi nutrirsi di libertà e autodeterminazione sono ancora più necessarie che in passato. E forse ancora più che in passato, ci sarebbe bisogno di titoli come quello del primo numero della rivista del “manifesto”, era il 1969, Praga è sola che costò la radiazione dal Pci a Pintor, Rossanda, Magri, Castellina. Ma oggi la Palestina è sola. In copertina il murales che ritrae Luigi Pintor a Orgosolo, dove è nato SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Le invenzioni di Pintor proviene da DINAMOpress.
Fake news, propaganda e linguaggio mediatico: una conversazione con Giuliana Sgrena
Dalla manipolazione dell’informazione alla narrazione dei femminicidi: la riflessione di Giuliana Sgrena risuona oggi con forza e lucidità. Viviamo nell’epoca della manipolazione digitale, dei conflitti raccontati in diretta e delle narrazioni tossiche che deformano la realtà più rapidamente di quanto la si possa verificare. Le fake news non sono più semplici distorsioni: sono strumenti politici, economici e bellici, capaci di orientare masse, polarizzare società, innescare crisi e condizionare decisioni cruciali. Nel corso degli anni, Giuliana Sgrena ha denunciato con forza come la manipolazione dell’informazione non sia un fenomeno isolato, ma una distorsione trasversale che attraversa ogni ambito del dibattito pubblico. Nel suo saggio Manifesto per la verità (Il Saggiatore), compie una diagnosi impietosa dei mali dell’informazione contemporanea, mostrando come la falsificazione della realtà colpisca in modo particolare i soggetti più vulnerabili: le donne, raccontate con un linguaggio che giustifica la violenza; i migranti, la cui verità “si inabissa come un corpo affogato”; le popolazioni in guerra, di cui arrivano solo frammenti distorti, piegati agli interessi dei governi. «Per papa Francesco», ricorda Sgrena, «Eva è stata vittima della prima fake news uscita dalla bocca del serpente». Una metafora che conserva oggi una drammatica attualità e che ben descrive il peso che le narrazioni tossiche continuano ad avere nelle società moderne. Una voce autorevole, rigorosa e sempre attenta a questi meccanismi, Sgrena offre strumenti fondamentali per comprendere il presente. Di seguito, la conversazione integrale. INTERVISTA A GIULIANA SGRENA «Fu un giorno fatale quello nel quale il pubblico scoprì che la penna è più potente del ciottolo e può diventare più dannosa di una sassata», scrive Oscar Wilde. Quanto ritiene sia ancora attuale questa famosa citazione di Wilde? La libertà di espressione è una grande conquista ma è anche una spina nel fianco dei regimi autoritari e dei dittatori che utilizzano ogni mezzo per impedire qualsiasi critica o qualsiasi pensiero libero. Nel suo saggio Manifesto per la verità, racconta come si possano innescare conflitti dalla scintilla di una notizia falsa o manipolata. Come è possibile difendersi e accedere a informazioni sicure? Purtroppo quando una falsa notizia ha l’obiettivo di scatenare una guerra è sostenuta da una campagna di propaganda mediatica che non si può fermare. Lo si è visto nella seconda guerra del Golfo (2003), quando il movimento pacifista portò in piazza milioni di persone, e fu definito dal New York Times la seconda potenza mondiale, ma non riuscì a bloccare l’invasione dell’Iraq. «La fotografia sconfigge le fake news», queste le parole di Oliviero Toscani durante la conferenza stampa del 2017 per la presentazione della seconda edizione del talent show Master of Photography. Ritiene veritiera questa affermazione? Non è vera. Purtroppo oggi anche le fotografie sono manipolabili e falsificabili. Un esempio clamoroso è quello del fotografo brasiliano Eduardo Martins, che si era costruito un profilo perfetto sui social: trentadue anni, alto, biondo, bellissimo, surfista, scampato alla leucemia. Presente in tutte le guerre, dove scattava foto bellissime vendute alle più note agenzie del mondo. Le foto migliori venivano vendute per beneficenza e il ricavato devoluto ai bambini di Gaza. Troppo bello per essere vero e infatti era tutto falso. Martins non è mai esistito e le sue foto erano tutte rubate e falsificate. Ma anche senza arrivare a questo estremo ci sono foto manipolate e altre diffuse con una falsa didascalia. Alcuni politici si servono di Twitter (280 caratteri) per comunicare, a discapito del confronto giornalistico. Cosa pensa della politica ai tempi del social? I politici si sono facilmente convertiti a Twitter che permette loro di lanciare solo slogan, perché in 280 battute non si può esprimere un concetto complesso. I social sono diventati lo strumento per fare politica evitando il confronto con i giornalisti, che vengono sbeffeggiati per minare la loro credibilità. Così possono far circolare fake news e dati falsi senza essere smentiti e, quando lo sono, definiscono le proprie affermazioni «fatti alternativi», come ha fatto Trump. Nelle cronache di violenze verso le donne troppo spesso incontriamo superficialità linguistica. Espressioni come “amore malato”, “raptus di passione”, “era un gigante buono” lasciano nelle donne violate il dubbio sulle loro ragioni. In quale direzione bisognerebbe andare per invertire una rotta così dannosa? Il modo di descrivere la violenza contro le donne è impregnato di cultura patriarcale. La donna stuprata e ammazzata viene descritta come una che se l’è andata a cercare, mentre si cercano le attenuanti o giustificazioni per chi commette un femminicidio. Le giornaliste dell’Associazione Giulia, insieme alle Commissioni Pari Opportunità della Fnsi e dell’Usigrai, hanno elaborato il Manifesto di Venezia, che indica le regole per una corretta informazione. Gli argomenti trattati nei suoi libri mettono spesso sotto accusa il mondo del giornalismo. Non si è mai lasciata impressionare dalle naturali ripercussioni che questo tipo di inchieste avrebbero comportato? Nel mio libro (Manifesto per la verità) ho fatto un’analisi spietata del modo di fare informazione soprattutto su alcuni temi particolarmente sensibili o manipolabili, per responsabilizzare chi fa informazione e chi ha il diritto di essere informato. Presentando questo libro, che è stato utilizzato anche in alcuni corsi di formazione per giornalisti, ho trovato molti colleghi che condividono le mie critiche. Si avvicina una data importante: il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Lei, che si è sempre occupata di condizione femminile, quale pensiero desidera lasciare alle donne abusate che cercano di reagire ai loro carnefici? Le donne devono denunciare le violenze subite, ma le autorità devono proteggerle. Non basta aumentare le pene per chi commette femminicidi: occorre evitarli. E questo si può fare finanziando le case che accolgono le donne che hanno subito violenze; invece questi finanziamenti vengono tagliati e le case chiuse. Giuliana Sgrena venne rapita il 4 febbraio 2005 dall’Organizzazione del Jihād islamico mentre si trovava a Baghdad per realizzare reportage. Fu liberata trenta giorni dopo, in un’operazione in cui rimase ucciso Nicola Calipari. Cosa è cambiato nella sua vita da quel tragico giorno? Preferirei non rispondere a questa domanda. Le parole di Giuliana Sgrena mostrano come la ricerca della verità sia un impegno che non riguarda solo i giornalisti, ma l’intera società. Nel rumore informativo che caratterizza il nostro tempo, riconoscere le manipolazioni, denunciare le distorsioni e pretendere un linguaggio rispettoso e accurato è un atto di responsabilità collettiva. Lucia Montanaro
Giovedì 27 novembre: incontro con Giuliana Sgrena, reporter di guerra
Nel libro intitolato “Me la sono andata a cercare” la giornalista racconta le proprie esperienze e ricorda alcuni suoi colleghi vittime del lavoro, il mestiere di documentare i conflitti armati e bellici del presente: Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli,… Nicola Calipari, che quando lei era stata sequestrata di un gruppo islamista in Iraq l’aveva liberata e mentre l’accompagnava all’aeroporto di Baghdad è stato ucciso da un soldato americano. Per oltre 30 anni corrispondente da Algeria, Somalia, Palestina e altri paesi del Medio Oriente, nel 2001 in Afghanistan e nel 2003 in Iraq, anche autrice di Fuoco amico (2006), Dio odia le donne (2016) e Donne ingannate. Il velo come religione, identità e libertà (2022), Giuliana Sgrena presenterà il proprio libro pubblicato quest’anno da Editori GLF Laterza a un incontro pubblico, giovedì 27 novembre prossimo, con Alberto Deambrogio e Mirella Ruo. L’iniziativa è organizzata da Rete delle Alternative e collettivo Donne insieme di Casale Monferrato, che spiegano: > Per Luigi Pintor, di cui ricorre il centenario della nascita, il giornalismo > doveva, tra altre cose, essere un mezzo per riscoprire la realtà e non solo > un’eco della propaganda. > > Giuliana Sgrena ha lavorato al quotidiano Il Manifesto lungamente accanto a > Pintor e ha saputo praticare nei fatti quell’indicazione, ricercando sempre le > vie più efficaci, anche se faticose, per restituire fatti e dare ai lettori e > alle lettrici argomenti critici su cui orientarsi nel mondo. > > Il suo libro è un memoriale che riporta a luoghi e situazioni che hanno visto > la giornalista impegnata per anni in condizioni spesso proibitive, con le > poche risorse messe a disposizione da un piccolo giornale battagliero. Quello > che emerge a tutto tondo è una forma di giornalismo ormai in via di > sparizione, basato sulla verifica e testimonianza diretta dei fatti, per > offrire un’informazione qualificata e documentata. > > Oggi si parla molto di guerra e spesso per via indiretta, poiché i giornalisti > e le giornaliste rimangono nelle redazioni europee a lavorare con notizie di > seconda mano. Somalia, Algeria, Afghanistan, Siria, Kurdistan: in ognuno di > questi paesi, teatro di guerre e conflitti dai contorni complessi e duraturi, > emerge sempre uno scenario di violenza e sopraffazione, ma anche la > possibilità per la giornalista di stringere legami profondi che sono durati > negli anni. Il ruolo delle donne, nella ricostruzione della sua esperienza nei > diversi paesi , è di profondo interesse: le donne costituiscono una rete di > protezione nelle situazioni rischiose, un riferimento organizzato nelle > battaglie progressiste, ma – nel loro costante protagonismo – offrono a Sgrena > anche una efficace chiave di lettura della realtà osservata. > > La conoscenza approfondita di situazioni, dinamiche e attori locali ha dato a > Sgrena la possibilità di costruirsi una visione di prima mano su come sono > andate vicende che hanno segnato la politica e la società italiana e > internazionale: basti pensare alla vicenda di Ilaria Alpi, di Maria Grazia > Cutuli o, per altri drammatici versi, al suo rapimento in Iraq conclusosi con > la morte di Nicola Calipari. > > Il libro di Giuliana Sgrena è anche uno strumento che aiuta a riflettere sulla > grave differenza con cui il punto di vista femminile, quello di una > giornalista può essere messo a confronto con uno maschile. Il chiacchiericcio, > il commento diffuso anche nel mondo politico all’epoca del suo rapimento > descriveva Sgrena come una che ‘se l’era andata a cercare’, tradendo un > pensiero che delegittima l’intraprendenza e libertà d’azione femminile. > > Questo era ed è un problema irrisolto, che pone soprattutto gli uomini di > fronte alla necessità di cambiamenti profondi della loro cultura, delle loro > espressioni e delle loro azioni. Maddalena Brunasti
‘Media di guerra e media di pace sulla guerra in Ucraina’: a Palermo, il 12 novembre
Alla sala di lettura dei Cantieri culturali alla Zisa (ex Officine Ducrot – via Poalo Gili 4), alle h 16:30 il presidente dell’Istituto Gramsci Siciliano, Salvatore Nicosia, dialoga con l’autore del libro recentemente edito da Mimesis, e insieme alla giornalista Tiziana Martorana e ad Augusto Cavadi del centro Movimento Nonviolento cittadino-territoriale. Docente di lingua e letteratura greca all’Università degli Studi di Palermo, dove per otto anni ha tenuto anche un laboratorio di Teoria e pratica della nonviolenza, Andrea Cozzo è un pacifista che si autodefinisce ‘amico della nonviolenza’. Tra i suoi libri si annoverano: “Nel mezzo”. Microfisica della mediazione nel mondo greco antico (2014), Riso e sorriso e altri saggi sulla nonviolenza nella Grecia antica (2018), La nonviolenza oltre i pregiudizi. Cose da sapere prima di condividerla o rifiutarla (con A. Cavadi e M. D’Asaro, 2022), La logica della guerra nella Grecia antica. Contenuti, forme, contraddizioni (2024). In Media di guerra e media di pace sulla guerra in Ucraina. Promemoria e istruzioni per il futuro analizza filologicamente il linguaggio utilizzato e le argomentazioni proposte, cercando di individuarne i presupposti, esplicitarne le retoriche e mostrarne le costruzioni e le contraddizioni del modo in cui i media italiani – giornali, telegiornali e talk show con opinionisti e intellettuali – narrano la guerra in Ucraina. La sua ricerca dimostra che il ‘giornalismo di guerra’ ha esercitato fin dall’inizio una violenza culturale continuata a danno dell’opinione pubblica, poiché in nome di una pretesa difesa dell’“aggredito” ha descritto questo conflitto parteggiando per uno dei belligeranti e non perseguendo la ricerca delle verità di tutte le parti e non mostrando le soluzioni possibili attraverso mezzi pacifici secondo le regole, che qui vengono presentate ed esemplificate nella loro applicazione, del ‘giornalismo di pace’. L’autore illustra il modo in cui la guerra poteva essere evitata e quale sia invece la strada, autoritaria e militarista, che, come già Gandhi aveva previsto, la democrazia attuale sta pericolosamente imboccando. Redazione Italia
EJMDCS: la nuova rivista scientifica internazionale sulla comunicazione nell’era digitale
È online da oggi European Journal of Media and Digital Communication Studies – Sociological Perspectives on Communication in the Digital Age, una rivista peer-reviewed a diffusione internazionale che analizza le dimensioni sociologiche, culturali e tecnologiche della comunicazione nell’era digitale. Offrendo un nuovo spazio per la ricerca e il dialogo interdisciplinare, con particolare attenzione alle trasformazioni sociali e culturali generate dall’ambiente digitale, EJMDCS si propone come una piattaforma accademica aperta al confronto tra studiosi, ricercatori e professionisti del settore e si prefigge di promuovere la ricerca e il dialogo internazionale sui media e la comunicazione. Un periodico trimestrale iscritto al Registro della Stampa del Tribunale di Roma (n° 70 – 03/07/2025) ed edito con l’ISSN (n° 3103-4004) intestato al Consiglio Nazionale delle Ricerche, che ne sancisce la piena registrazione come rivista scientifica, EJMDCS pubblica – in lingua inglese – contributi originali di ricerca, saggi teorici e recensioni sui vari argomenti e temi: sociologia della comunicazione, giornalismo, semiotica, comunicazione di massa, studi transmediali, digital media, marketing digitale, reti sociali, gender diversity nei media,… Viene redatta applicando il double-blind peer review, cioè il rigoroso sistema di revisione conforme alle linee guida del Committee on Publication Ethics (COPE) che garantisce imparzialità, trasparenza e integrità scientifica, a cura dell’International Center for Social Research, che con la sua pubblicazione consolida il proprio impegno nel promuovere la ricerca scientifica e il dialogo internazionale sui media come strumenti fondamentali di comprensione e trasformazione della società contemporanea. Il suo direttore responsabile è Alejandro Gastón Jantus Lordi de Sobremonte, giornalista professionista e sociologo, già ricercatore alla Universidad del Salvador di Buenos Aires, dove nel 2000 ha presentato la propria ricerca – Guerra y paz: los conflictos de la última década – alla presenza del Premio Nobel Ilya Prigogine, tra le altre pubblicazioni a carattere scientifico autore del libro L’influenza dei mass media nella genesi dell’ideale estetico e divulgatore di notizie e informazioni mediante i profili e canali social-media collegati al proprio blog personale. Il primo numero di EJMDCS presenta un suo studio sulla percezione limitata della crisi climatica come emergenza sanitaria tra i professionisti dei media in Italia: «Lo studio evidenzia l’urgente necessità di una comunicazione scientifica più competente e di liberare il giornalismo dai vincoli economici e ideologici imposti dalle industrie più inquinanti», spiega Jantus Lordi de Sobremonte. Basandosi su un’indagine quantitativa da lui condotta su un campione di 548 giornalisti e i cui risultati rivelano che la grande maggioranza di loro sottovaluta o nega la correlazione tra degrado ambientale e salute umana, con solo il 38,6% che riconosce il cambiamento climatico come una minaccia significativa o imminente per la salute, nel saggio analizza come i media influenzino la consapevolezza pubblica sui legami tra cambiamento climatico e salute. Redazione Italia
GARANTE PRIVACY: DOPO IL SERVIZIO DI “REPORT”, L’OPPOSIZIONE CHIEDE LE DIMISSIONI DEL CONSIGLIO
Opposizioni parlamentari all’attacco dopo che ieri sera, domenica 9 novembre 2025, un servizio della trasmissione Rai Report ha delineato un quadro definito “grave e desolante” sulle modalità di gestione dell’Autorità del Garante per la Privacy. L’inchiesta ha rivelato l’esistenza di un sistema poco trasparente, caratterizzato da conflitti di interesse e permeabile alle pressioni politiche. “Il Consiglio va azzerato e rifatto da capo”, è la posizione espressa dalla segretaria del Pd Elly Schlein e da Angelo Bonelli di Avs. FdI risponde annunciando una mozione di maggioranza che definisce “a tutela del buon giornalismo”, contro i format come quello di Report e non meglio precisate “altre testate” che – secondo il deputato Federico Mollicone – non sarebbero a suo dire “d’inchiesta”, ma “militanti”. Radio Onda d’Urto ha raccolto il contributo sulla vicenda di Vincenzo Vita, ex vice-presidente della Commissione cultura al Senato ed ex membro della Commissione di Vigilanza Rai. Ascolta o scarica.
Segnali da un futuro possibile: sognare, vivere e costruire la pace
Pubblichiamo integralmente il comunicato stampa della due giorni che si svolgerà a Iglesias  il 14 e 15 novembre 2025. SEGNALI DA UN FUTURO POSSIBILE – SOGNARE, VIVERE E COSTRUIRE LA PACE ATTRAVERSO L’ARTE, IL GIORNALISMO, L’ECONOMIA E LA CITTADINANZA ATTIVA – IGLESIAS / CENTRO CULTURALE DI VIA CATTANEO / 14 -15 NOVEMBRE 2025 Due giorni di aggiornamento, riflessione e dibattito, a Iglesias, per approfondire le ragioni della resistenza alla cultura della guerra e dare spazio ad una forte alleanza nella società come fondamento di una politica industriale di pace Si parte il 14 novembre 2025 dalle 16:30 alle 20, dibattito aperto al pubblico, con valore di formazione e aggiornamento, riconosciuto dall’Ordine dei Giornalisti della Sardegna (3 crediti). Il seminario intende affrontare il nodo delle conseguenze sui territori dell’annunciata necessaria trasformazione dell’economia in assetto di guerra così come esplicitamente dichiarato dai vertici della Commissione europea con la redazione del piano di riarmo Re Arm Eu, definito in un secondo momento con il nome Readiness 2030. Una decisione strategica connessa con gli impegni presi dai Paesi Nato, tra cui l’Italia, di raggiungere progressivamente l’obiettivo di spesa militare pari al 5% del Pil. In questo scenario la Sardegna rappresenta un caso esemplare per la presenza nell’area del Sulcis Iglesiente di una società specializzata nella produzione bellica controllata dalla multinazionale Rheinmetall, cioè dal gruppo industriale al centro del notevole piano di riarmo della Germania che mira a ridiventare leader nel settore bellico in Europa. Che tipo di ascolto riesce a ad avere nei media quella parte della società civile che è riuscita dal 2019 al 2023 a fermare l’invio dalla Sardegna di missili e bombe dirette ad essere utilizzate in conflitti dimenticati come quello dello Yemen che coinvolge l’Arabia Saudita e i suoi alleati? È davvero non notiziabile l’esigenza di un’economia libera dalla logica della guerra e che quindi oltre a dire dei NO propone l’uso delle risorse pubbliche per una politica economica e industriale orientata alla conversione ecologica con effetti moltiplicatori dell’occupazione? Il seminario si propone di andare oltre ogni riduzione localistica del caso del Sulcis Iglesiente per renderne evidente il valore paradigmatico di carattere planetario, per analizzare la possibilità di un’informazione in grado di affrontare questo momento storico segnato dalla trasformazione progressiva dell’economia in assetto di guerra, esplorando e dando voce alle reali alternative possibili. Il 15 novembre, dalle 10 alle 13, il dibattito si allargherà alle possibilità concrete di riconversione industriale e territoriale, dopo i danni provocati sul piano sociale e su quello ambientale dagli insediamenti chimico-metallurgici e dalla fabbrica di bombe. Tra i vari esperti e testimoni della riconversione, sarà presente anche Vito Alfieri Fontana che, da produttore bellico, è diventato sminatore. Sono invitate a partecipare tutte le forze sociali e le istituzioni del territorio, nel tentativo di avviare un confronto fecondo per la costruzione collettiva di un futuro più umano e sostenibile. Durante entrambe le giornate sarà visitabile la mostra di arte contemporanea 20 di pace a cura di ColLAB – Collettivo laboratorio curatela e comunicazione – Scuola Civica Arte Contemporanea – Giuseppefraugallery. Presentazione dei curatori il 14 alle 15:30 e il 15 alle 9:30. Contatti: presidenza@warfree.net, 346 1275482 – 327 819 4752 Redazione Sardigna
L’assassinio di Shireen Abu Akleh coperto dal Dipartimento di Stato USA
Stando alle dichiarazioni rilasciate al New York Times da Steve Gabavics, un esperto membro della polizia militare USA, la giornalista statunitense-palestinese Shireen Abu Akleh è stata uccisa deliberatamente dalle forze armate israeliane, e il Dipartimento di Stato stelle-e-strisce avrebbe attivamente coperto l’omicidio. Ricordiamo brevemente i fatti. Nel maggio 2022 Shireen […] L'articolo L’assassinio di Shireen Abu Akleh coperto dal Dipartimento di Stato USA su Contropiano.