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«Vi affido la Palestina. Non dimenticate Gaza». Le ultime parole di Anas al-Sharif, ennesimo giornalista ucciso da Israele.
Pubblichiamo il testamento di Anas al-Sharif, giornalista di Al Jazeera, ucciso da un bombardamento delle forze di occupazione israeliane, insieme ad altri quattro colleghi. Anas sapeva di essere nel mirino dell’esercito israeliano: il Committee to Protect Journalists aveva lanciato l’allarme proprio il mese scorso riguardo alla sua incolumità, in seguito alle accuse di «combattente di Hamas» che Israele rivolgeva al giornalista. Sempre senza alcuna prova a supporto di accuse che invece i giornali mainstream italiani, da Repubblica al Foglio, hanno immediatamente rilanciato, ribadendo il ruolo embedded dei «grandi» giornali di questo paese. Il numero di giornalisti uccisi a Gaza dal 7 ottobre ha raggiunto le 242 unità, una cifra di gran lunga maggiore di qualunque altro conflitto. Israele non vuole testimoni del genocidio che sta perpetrando, a maggior ragione adesso in presenza di una drammatica carestia e alla vigilia dell’invasione di terra di Gaza City. Se nel corso di questi due anni il mondo ha potuto ricevere informazioni da Gaza non filtrate da Israele è grazie a un gruppo di giornalisti/e, spesso giovani, che hanno documentato la distruzione e la morte, ma anche la determinazione dei e delle gazawi. Rischiando appunto la vita. Esprimiamo tutta la nostra solidarietà e vicinanza alla famiglia di Anas e al popolo palestinese. Palestina Libera! Questa è la mia volontà e il mio messaggio finale. Se queste parole vi giungono, sappiate che Israele è riuscito a uccidermi e a mettere a tacere la mia voce. Prima di tutto, la pace sia su di voi e la misericordia e le benedizioni di Dio. Dio sa che ho dedicato tutto l’impegno e la forza che avevo per essere un sostegno e una voce per il mio popolo, fin da quando ho aperto gli occhi alla vita nei vicoli e nelle strade del campo profughi di Jabalia. La mia speranza era che Dio prolungasse la mia vita così da poter tornare con la mia famiglia e i miei cari nella nostra città natale, Asqalan (al-Majdal) occupata. Ma la volontà di Dio è venuta prima e il Suo decreto è stato eseguito. Ho vissuto il dolore in ogni suo dettaglio. Ho assaporato il dolore e la perdita molte volte. Eppure non ho mai esitato un solo giorno a trasmettere la verità così com’è, senza falsificazioni o distorsioni. Che Dio sia testimone contro coloro che sono rimasti in silenzio, coloro che hanno accettato la nostra uccisione, coloro che hanno soffocato i nostri respiri e coloro i cui cuori sono rimasti insensibili ai corpi dei nostri bambini e delle nostre donne, e che non hanno fatto nulla per fermare il massacro che è inflitto al nostro popolo da più di un anno e mezzo. Vi esorto a tenere stretta la Palestina, il gioiello della corona dei musulmani e il cuore pulsante di ogni persona libera in questo mondo. Vi esorto a prendervi cura del suo popolo, dei suoi bambini oppressi a cui non è stata data la possibilità di sognare o di vivere in sicurezza e pace, i cui corpi puri sono stati schiacciati da migliaia di tonnellate di bombe e missili israeliani, fatti a pezzi, i cui resti sono stati sparsi sui muri. Vi esorto a non lasciarvi mettere a tacere dalle catene o fermare dai confini. Siate ponti verso la liberazione della terra e del popolo, finché il sole della dignità e della libertà non sorgerà sulla nostra patria rubata. Vi esorto a prendervi cura della mia famiglia. Vi esorto a prendervi cura della pupilla dei miei occhi, la mia amata figlia Sham, che la vita non mi ha permesso di vedere crescere come sognavo. Vi esorto a prendervi cura del mio amato figlio Salah, a cui desideravo stare accanto finché non fosse diventato forte, per portare il mio fardello e continuare  la missione. Vi esorto a prendervi cura della mia amata madre, le cui preghiere benedette mi hanno portato dove sono. Le sue preghiere sono state la mia fortezza, la sua luce il mio cammino. Chiedo a Dio di confortare il suo cuore e di ricompensarla grandemente per me. Vi esorto anche a prendervi cura della mia compagna di vita, la mia amata moglie, Umm Salah, Bayan, dalla quale la guerra mi ha separato per lunghi giorni e mesi. Eppure è rimasta fedele alla sua promessa, salda come il tronco di un ulivo che non si piega, paziente e fiduciosa in Dio, portando la responsabilità in mia assenza con forza e fede. Vi esorto a stringervi attorno a loro e ad essere il loro sostegno dopo Dio Onnipotente. Se dovessi morire, morirei saldo nei miei principi. Rendo testimonianza davanti a Dio che sono contento del Suo decreto, certo di incontrarLo e convinto che ciò che è con Dio è migliore ed eterno. O Dio, accettami tra i martiri. Perdona i miei peccati passati e futuri. Fa’ che il mio sangue sia una luce che illumini il cammino della libertà per il mio popolo e la mia famiglia. Perdonami se ho mancato e prego per la mia misericordia, perché ho mantenuto la mia promessa e non l’ho mai cambiata né tradita. Non dimenticate Gaza… E non dimenticatemi nelle vostre sincere preghiere per il perdono e l’accettazione. Anas Jamal al-Sharif, 6 aprile 2025 L’immagine di copertina è tratta dal profilo Instagram di Anas Jamal al-Sharif SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo «Vi affido la Palestina. Non dimenticate Gaza». Le ultime parole di Anas al-Sharif, ennesimo giornalista ucciso da Israele. proviene da DINAMOpress.
Il messaggio di don Nandino Capovilla, testimone del genocidio dei palestinesi
Ieri, 11 agosto, il sacerdote veneziano che è stato un coordinatore di Pax Christi Italia veniva bloccato all’aeroporto di Tel Aviv e, dopo 7 ore di arresto, espulso da Israele. Immediatamente dopo il rilascio don Nandino Capovilla ha pubblicato sulla propria pagina Facebook questo messaggio, collegato a due immagini, qui riportato integralmente, senza correggere i refusi del testo originale: > SONO LIBERO! Mi hanno fatto uscire ora. Restituito cellulare e valigia. Tutto > bene. aspetto che se ne vadano le ultime mie due guardie per scrivervi queste > righe. Volo per la Grecia stanotte. G > Questi alcuni dei miei numerosissimi di guardia in queste 7 ore. MA PER > PIACERE: DITE A CHIUNQUE SCRIVA CHE BASTA UNA RIGA PER DIRE VHE STO BENE > MENTRE LE ALTRE VANNO USATE PER CHIEDERE SANZIONI ALLO STATO CHE tra i suoi > “errori” bombarda moschee e chiese mentre i suoi ORRORI si continua a fingere > che siano solo esagerazioni. NON AUTORIZZO NESSUN GIORNALISTA A INTERVISTARMI > SULLE MIE SETTE ORE DI DETENZIONE SE NON SVRIVONO DEL POPOLO CHE DA > SETTANT’ANNI È PROGINOERO SILLA SUS TERRA > QUESTA IMMAGINE RIPORTA L’ULTIMO MESSAGGIO CHE STAVO SCRIVENDO PRIMA VHE MI > SEQUESTRASSERO IL FELL. ERA LA PREGHIERA DEL GIORNK DEL PATRIARCA DABBAH https://www.facebook.com/nandinocapovilla/posts/pfbid035S9NmffCqFTctuHg41umZLLfYkac9UUqxFAP5rMDip6uMPAK3tGLaW7tTbaYD3Jhl Don Nandino Capovilla si era recato in Israele insieme a un gruppo, composto da una quindicina di persone, partito dall’Italia per un pellegrinaggio di giustizia in terra santa. Guidata dal presidente di Pax Christi, don Giovanni Ricchiuti, la missione a Gerusalemme, Betlemme e in Cisgiordania è stata organizzata e realizzata nell’ambito delle attività di solidarietà del movimento pacifista cristiano con la popolazione palestinese. Inoltre, è intesa anche come testimonianza della partecipazione del movimento pacifista cristiano alla mobilitazione promossa dalla Rete Pace e Disarmo insieme ai firmatari della dichiarazione Basta dichiarazioni rituali: di fronte a ipotesi di occupazione di Gaza servono azioni concrete proclamata il 9 agosto. Pax Christi Italia lo annuncia nella pagina del proprio sito intitolata Uscire dall’ambiguità ed evindenziando di aver aderito all’appello con cui la società civile italiana sollecita il governo affinchè “esca finalmente dall’ormai insopportabile ambiguità e prenda decisamente posizione in favore del DIRITTO INTERNAZIONALE e dei DIRITTI UMANI”. Appena ha potuto avvisare di star bene ed essere stato liberato, don Nandino Capovilla ha anche reso noto di non voler rilasciare dichiarazioni e interviste pubblicate in notizie sulla vicenda della propria detenzione all’aeroporto di Tel Aviv che non riferiscano correttamente le informazioni sul motivo della sua missione in Terra Santa e, quindi, sulla necessità di ogni intervento efficace a far cessare la sofferenza della popolazione palestinese da 70 anni prigioneria in patria perché vive, subendo abusi e violenze, segregata nei territori controllati e assediati dallo stato israeliano. E, sebbene le abbia scritte nella concitazione del frangente, tutte le parole che don Nandino Capovilla ha usato per esprimersi mostrano che fosse lucidamente consapevole del significato di ciascuna. Infatti si è espressamente rivolto ai giornalisti esplicitamente esortandoli a non tacere la verità, ovvero a parlare delle atrocità inflitte alla popolazione palestinese senza omissioni e senza accreditare le versioni dei fatti fornite dal governo e dall’esercito di Israele, narrazioni che falsificano la realtà definendo “errori” le conseguenze delle azioni militari ed “esagerazioni” le testimonianze che documentano gli orrori di una carneficina, il genocidio che invece documentato dalle vittime, come il giovane reporter Anas Al-Sharif della cui morte don Nandino Capovilla ha appreso proprio mentre era detenuto all’aeroporto di Tel Aviv leggendo la preghiera, la supplica “La giustizia si affacci dal cielo. Presto, oggi stesso, Sognore”, composta in quella giornata dal patriarca di Gerusalemme, Michel Sabbah. Maddalena Brunasti
L’impegno dei giornali USA nel sostenere la causa sionista
Traduciamo e riportiamo un articolo apparso su Mondoweiss con la firma collettiva di Writers against the war on Gaza, una sigla sotto la quale si riunisce una lunga lista di scrittori, accademici, artisti, giornalisti e anche associazioni. In esso, vengono esposti i legami di 20 tra dirigenti e giornalisti del […] L'articolo L’impegno dei giornali USA nel sostenere la causa sionista su Contropiano.
Sahara Occidentale: arriva khaima.net per dare voce agli attivisti
“Khaima”, cioè tenda in lingua araba, vuol dire “luogo del cuore” nella cultura saharawi, simbolo di ciò che accoglie ma anche di resistenza: per questo un gruppo di giornalisti e attivisti ha scelto questa parola per il nuovo portale di approfondimento Khaima.net. Con l’agenzia Dire ne parla uno dei suoi membri e fondatori, Mohamad Dihani, rifugiato saharawi in Italia. “Intendiamo portare la voce del popolo saharawi in Italia” spiega. “L’idea è partita da giornalisti e attivisti che si trovano nelle regioni occupate dal Marocco e coinvolgerà anche attivisti che, come me, vivono all’estero con lo status di rifugiati”. Nel 1976 il popolo saharawi proclamò la nascita di una Repubblica democratica araba in un territorio ricco di fosfati e risorse naturali, a poche ore dalla fine del mandato spagnolo – di eredità coloniale – del territorio collocato tra il sud del Marocco e il nord della Mauritania, che passava sotto il controllo del Marocco. Rabat da allora ne rivendica la piena sovranità. Fino al 1991 si era però combattuta una guerra, che si era conclusa con un cessate il fuoco e una risoluzione delle Nazioni Unite che aveva stabilito la tenuta di un referendum tra le popolazioni locali per scegliere tra l’annessione della regione al Marocco oppure la nascita dello Stato indipendente. Come avverte Dihani, però, “i saharawi ancora aspettano di vedere riconosciuto il proprio diritto all’autodeterminazione”, mentre il cessate il fuoco che aveva retto per tre decenni, “tre anni fa è stato rotto”. Oggi, continua il reporter-attivista, “vediamo che il diritto internazionale viene violato in tutto il mondo e quindi anche nel Sahara occidentale: rileviamo violazioni sistematiche contro gli attivisti, con arresti e aggressioni sono continue”. Khaima.net riporta di quattro attivisti aggrediti dalla polizia marocchina a maggio, citando un comunicato dell’Isiacom, l’Organizzazione saharawi contro l’occupazione marocchina. Parte della popolazione saharawi vive nel sud dell’Algeria, dove fanno base anche i vertici del governo dell’autoproclamata Repubblica democratica araba guidata dal Fronte Polisario. Secondo Dihani, le violenze colpirebbero “anche i rifugiati laggiù”. L’attivista inoltre denuncia che quando questi rifugiati tentano di “tornare nelle parti liberate, vengono bombardati da droni marocchini”. A livello politico, Dihani avverte che la risoluzione Onu del 1991 “viene ancora bloccata alle Nazioni Unite da Francia e Spagna, che sostengono le rivendicazioni del Marocco”. E così, essendo decaduto il cessate il fuoco, “è tornata la guerra” denuncia il giornalista: “Le due parti si colpiscono a vicenda, come accade in tante zone dell’Africa e del Medio Oriente”. Quest’ultima regione secondo il co-fondatore di Khaima.net “sta oscurando mediaticamente tanti conflitti, come quello in Sudan, dato che il mondo è concentrato sul genocidio in corso a Gaza, che invece viene protetto da quei governi che dovrebbero fermarlo e che appoggiano anche il governo che lo sta commettendo”. Dihani sottolinea: “Riteniamo che tutto ciò danneggi la fiducia per i governi democratici e le istituzioni internazionali (come Onu e Ue)”. Il giornalista continua: “Noi africani abbiamo sempre creduto nella democrazia ma oggi vediamo violate tutte le leggi, locali e internazionali, pur di opprimere le voci di chi vorrebbe denunciare”. Secondo Dihani, Israele non sarebbe un pericolo solo per i palestinesi, ma per gli stessi saharawi per via della “collaborazione molto stretta e sorprendente” che si sarebbe instaurata a partire dal 2021 tra Tel Aviv e Rabat, dopo la firma dei cosiddetti Accordi di Abramo. Questa si espliciterebbe, denuncia Dihani, attraverso “la costruzione di basi militari israeliane in Marocco, vendita di armi – tra cui i droni usati anche contro i civili – e programmi di spionaggio” impiegati “contro attivisti saharawi, tramite società israeliane” che avrebbero permesso di “rafforzare l’occupazione”. Relazioni che, sempre stando al giornalista-attivista, “portano molti cittadini africani a riferirsi al Marocco ormai come all’Israele del Nord Africa”. Agenzia DIRE
Dentro un regime: una reporter svela il Sudan
DENTRO UN REGIME: UNA REPORTER SVELA IL SUDAN Il vestito azzurro ✏ Antonella Napoli 9 Settembre 2021/di Arianna Obinu CATEGORIE: Libreria  / Saggistica Tempo di lettura: 6 minuti * Il vestito azzurro. Un regime dimenticato e il coraggio di una giornalista, Antonella Napoli, People, 2021. «È SOLAMENTE LA SORTE CHE CI FA NASCERE AL SICURO O IN PERICOLO. E CHI È PIÙ FORTUNATO HA DELLE RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DEGLI ALTRI. SOPRATTUTTO QUANDO SEI UNA DONNA.» [ANTONELLA NAPOLI] Il giornalista inglese Robert Fisk, unico reporter occidentale ad aver incontrato in ben tre occasioni Osama Bin Laden, in Cronache Mediorientali (Il Saggiatore, 2006) ha descritto il Sudan come un Paese “con un’dentità debole, esausta ed irrisolta” a causa dei sessant’anni di dominio anglo-egiziano, di una parentesi nazionalista guidata da un religioso proclamatosi Mahdi*, di quarant’anni di indipendenza segnata da guerre civili e golpe militari. All’epoca della pubblicazione, l’analisi di Fisk non poteva prevedere che la tirannia di Omar Al-Bashir inaugurata nel 1989 sarebbe durata fino all’aprile del 2019, passando per un fatto epocale avvenuto nel 2011, ossia la divisione del Sudan in due Stati. Fino all’indipendenza del Sud Sudan, il Paese unito era stato il colosso d’Africa per dimensioni, nonché crocevia tra mondo arabo e Africa tropicale. Osservando una carta fisica, il Nord vi apparirà color giallo deserto, mentre il Sud verde foresta. Le differenze tra i due blocchi sudanesi non si esauriscono nelle caratteristiche del paesaggio: la parte settentrionale fu terra di migrazioni arabe che diffusero l’islam tra le popolazioni animiste, la parte meridionale fu terra di missione cristiana nel XIX secolo; la parte nord era la sede del potere dell’etnia araba e dello sviluppo, il sud dei nuer e dei dinka lasciato a se stesso, sebbene i giacimenti di petrolio si trovino nel suo territorio; a nord il sistema scolastico era imperniato sull’arabo, a sud sull’inglese poiché delegato ai comboniani. Il potere centrale in Sudan non ha mai tollerato disallineamenti rispetto al modello arabo-islamico propugnato con forza da Al-Bashir e dall’ideologo islamico Al-Turabi. La sharì’a fu introdotta nel Paese nel 1983 e solo nel 2020 il nuovo governo sudanese ha scelto di abolire alcune pene derivanti dall’applicazione letterale delle norme del diritto islamico: non più pena di morte per chi lascia l’islam per abbracciare una nuova fede; non più pubbliche frustate contro i consumatori di alcolici o le donne che indossavano i pantaloni o abiti giudicati succinti. La transizione democratica è tuttavia contrassegnata dalle violenze tra gruppi etnici e tra compagini politiche contrapposte. Il vecchio despota che fine ha fatto? La Corte Penale Internazionale (CPI) dal 2009 ha steso dei capi d’accusa nei suoi confronti che fanno raccapricciare la pelle: genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Di agosto la notizia che il Sudan ha dato il via libera all’estradizione di Al Bashir affinché subisca il processo nella sede dell’Aja. All’epoca del primo mandato internazionale contro di lui, l’arroganza del potere gli fece dire che la CPI non era che “una zanzara nell’orecchio di un elefante”. Di fatto, continuò a viaggiare all’estero indisturbato, segno che la sua presenza a capo del Sudan, non dispiaceva, nonostante tutto, alla comunità internazionale. Il Darfur, regione dell’ovest abitata dalle etnie fur, zaghawa e masalit, è stato negli anni terreno di scontro e violenze inaudite. Oltre trecentomila morti tra il 2003 e il 2009 secondo le Nazioni Unite. Due milioni gli sfollati costretti a vivere in immensi campi profughi nella precarietà sanitaria ed economica, nella promiscuità, senza protezione alcuna. «UN RETICOLO DI QUADRATI IRREGOLARI DI CAPANNE, BARACCHE DI FANGO E LAMIERE SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITÀ. IMMENSE DISTESE NEL DESERTO, LONTANE DAGLI INSEDIAMENTI URBANI, CHE SI ESTENDONO FINO AI CONFINI CON IL SUD SUDAN. GIÀ SOLO L’IMPATTO VISIVO DELLA FOTO DEI CAMPI PROFUGHI IN DARFUR SULLA COPERTINA DEL RAPPORTO ONU SUGGERISCE LA VASTITÀ DELL’EMERGENZA UMANITARIA IN CORSO NELLA REGIONE OCCIDENTALE SUDANESE. EPPURE, NONOSTANTE RESTI TRA LE PIÙ GRAVI CRISI AL MONDO, È ORMAI DIMENTICATA DA TUTTI. O QUASI.» Le donne sono state crudelmente stuprate, con quel che significa in queste culture in cui la vittima è doppiamente vittima: prima lo stupro e poi l’abbandono dei familiari o l’uccisione. Laddove l’onore del gruppo dipende dalla condotta sessuale delle sue donne, e laddove detta condotta è lecita unicamente all’interno del patto matrimoniale, non si soccorrono le vittime di stupro, non c’è pietas per loro, solo lo sdegno e l’urgenza di dissociarsi dalla prova vivente dell’accaduto, in pratica dalla vittima. I sudanesi affrontano la loro storia sanguinosa senza che la loro causa assurga agli onori della cronaca. Eppure durante le rivolte del 2019, una giornalista italiana era lì, pronta a testimoniare con i propri occhi quel che avveniva nella capitale Khartoum ed in altre zone periferiche come il Darfur. Si chiama Antonella Napoli e al pari di Robert Fisk afferma di avere il dovere di raccontare la verità, perché nessuno abbia a dire che non sapeva. Nel suo libro Il vestito azzurro (People, 2021) veniamo a sapere. Scopriamo un regime razzista e onnipotente e assistiamo ai suoi ultimi istanti di vita. Scopriamo il sangue freddo di una giornalista fermata dai Servizi di sicurezza sudanesi mentre faceva delle riprese nei giorni delle rivolte contro Al Bashir. Leggiamo storie al femminile raccolte nei campi profughi da cui trapela grande tenerezza e dignità. Vestiamo i panni di una reporter intelligente, empatica e rispettosa delle persone che incontra al punto da non rendere il suo inquietante fermo protagonista delle pagine che scorriamo. Al centro dei suoi pensieri ci sono i colleghi sudanesi, le donne sudanesi, i profughi, le vittime di interminabili guerre intestine e tutte le persone coraggiose che, dal dicembre 2018, hanno creduto di poter cambiare qualcosa nel Paese scrivendo nuove pagine di una storia finalmente democratica. «HO SEMPRE SCRITTO, FOTOGRAFATO, FATTO RIPRESE CHE DOCUMENTASSERO IN MODO INEQUIVOCABILE CIÒ CHE STAVO VIVENDO […]. NON POTREI E NON SAPREI FARE ALTRO. PERCHÉ QUESTO MESTIERE NON È UN LAVORO, È UNA PASSIONE CHE DIVENTA DOVERE. A TRENTADUE ANNI DAI MIEI PRIMI PASSI NEL GIORNALISMO, SO CHE QUESTO NON POTRÀ MAI CAMBIARE. ILLUMINARE LE PERIFERIE DEL MONDO È STATA, È E RESTA UNA PRIORITÀ. SEMPRE. ANCHE DOPO LE MINACCE DEI FRATELLI MUSULMANI […].» Protagonista è volutamente il popolo sudanese in rivolta. Protagoniste sono le donne, scese in piazza come gli altri, e che grazie alla fine della tirannide possono ora sperare in un futuro diverso, senza più infibulazioni, fustigazioni, umiliazioni e ingiuste condanne a morte. Donne come Meriam, Alaa, Amina, Kalima, Hiba «che resteranno l’immagine migliore della battaglia per la libertà e la giustizia che si è compiuta nel Paese».✎ *Il Mahdì (in ar. “il guidato” sottinteso da Allah) nell’islam è una figura che comparirà alla fine del mondo e istituirà la giustizia in terra. Il libro è stato presentato il 3 settembre a Udine, in un evento organizzato da Time for Africa e Borgo Stazione Udine. Qui ritrovate il dialogo fra l’autrice e Arianna Obinu. INCIPIT «Quando il 15 maggio del 2014 in Sudan un giudice pronunciava la sentenza che condannava a morte Meriam Ishag Ibrahim per apostasia, in una Khartoum più ostile che mai verso chiunque si opponesse alle violazioni dei diritti umani e alle repressioni delle libertà, o chi come me le raccontava, non pensavo che sarei diventata un bersaglio per il regime guidato da Omar Hassan al-Bashir. Il Presidente sudanese, al potere da trent’anni, aveva pendente su di sé un mandato di arresto della Corte penale internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Chiunque ne scrivesse, o parlasse del governo in chiave critica, diventata un “nemico del Sudan”. Cinque anni dopo, mentre raccontavo un’altra storia, quella che avrebbe cambiato per sempre il Paese – e la mia vita -, venivo privata della libertà per diverse ore. Avevo rischiato di subire lo stesso trattamento riservato alla protagonista della vicenda che nel 2014 avevo contribuito a far conoscere al mondo.» Tags: Antonella Napoli, evidenza, giornalismo, Italia, italiano, Khartoum, People Pub, Sudan CORRELATI RISCOPRENDO LA FALCE D’ORO TRA CAMPI STELLATI. IL LIBRO DELLA LUNA, DI FATOUMATA KÉBÉ 26 Settembre 2021 / 0 Commenti Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2021/09/Fatoumata-Kebe_Il-libro-della-luna_slider2.jpg 844 1500 Adele Akinyi Manassero https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Adele Akinyi Manassero2021-09-26 11:17:212021-09-26 11:30:21Riscoprendo la falce d’oro tra campi stellati. Il libro della Luna, di Fatoumata Kébé DENTRO UN REGIME: UNA REPORTER SVELA IL SUDAN 9 Settembre 2021 / 0 Commenti Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2021/09/Antonella-Napoli_Il-vestito-azzurro_slider.jpeg 844 1500 Arianna Obinu https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Arianna Obinu2021-09-09 20:44:002021-09-09 20:44:00Dentro un regime: una reporter svela il Sudan DIARIO DI UNA SOPRAVVIVENZA 27 Giugno 2020 / 0 Commenti Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2020/06/IMG_20200613_152725-scaled.jpg 1439 2560 Eleonora Salvatore https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Eleonora Salvatore2020-06-27 12:39:152021-07-19 11:29:50Diario di una sopravvivenza L'articolo Dentro un regime: una reporter svela il Sudan proviene da Afrologist.