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Il deserto dei Tartari
Silence fini è il racconto di tre settimane nel Mediterraneo centrale a bordo del veliero Nadir 1 di RESQSHIP, in cui ho vissuto il soccorso in mare e osservato da vicino le vite delle persone migranti e dell’equipaggio, tra responsabilità, vulnerabilità e privilegio, in un mare che resta coerente e implacabile. Attraverso la mia esperienza personale, esploro cosa sia un soccorso e come frontiere, norme e gerarchie si manifestino nei corpi, nei gesti, nelle decisioni e negli sguardi. Silence fini vuole aprire ad una riflessione sulle contraddizioni etiche e politiche del Mediterraneo contemporaneo. Il racconto della navigazione a bordo di questo veliero della Civil fleet che opera monitoraggio e soccorso nel central med, vuole ricordare la violenza strutturale che colpisce chi attraversa, tra respingimenti, detenzioni e pratiche di Stati che negano sicurezza e diritti fondamentali. SILENCE ET ATTENTE. IL DESERTO DEI TARTARI Se mi chiedessero quanto tempo dura un soccorso, potrò dire che può durare 26 minuti e che quei minuti ovviamente perdono dimensione: si dilatano, allungano, sparpagliano.  Notte insonne o quasi.  Alle dieci di mattina del 5 novembre, riceviamo un Mayday relay forte e chiaro da Eagle 1, Frontex: un gommone sgonfio con a bordo circa 70 persone. Siamo a solo due ore dal target, o poco più.  Ci prepariamo, con calma, con ordine: sappiamo che siamo in SAR Libica e che la segnalazione di frontex via radio arriva a tutti, compresa alla so called Libyan GC. Siamo, quasi, poco convinti… in questi giorni le segnalazioni sono state numerose, ma alla fine qualcosa ci ha sottratto al soccorso: un’altra barca della civil fleet nella migliore delle situazioni, un naufragio o una cattura da parte di GC tunisine o libiche, nelle altre. Nel frattempo arriva la comunicazione via VHF anche da SB, aereo che fa parte della flotta civile. Ci conferma le informazioni di E1, ma aggiunge che i libici si stanno dirigendo veloci verso quella direzione e che sono armati fino ai denti. Lascio che questa informazione mi scivoli addosso, come molte di quelle che arriveranno nelle ore che seguono: giusto parole, una dopo l’altra, che non si aggrappano al cervello. Non trattengo, non “processo”, non registro. Quanto di più tipico durante un’azione d’urgenza. Mi ci soffermerò dopo, ad operazione finita, lo farò nei prossimi giorni. Una certezza: chi presta soccorso, non è e non deve essere armato, se non di forza, coraggio, speranza, desiderio, cura e molto altro. Ma no, nella lista le armi non sono previste.  Ci dirigiamo e continuiamo la corsa.  Poi, li avvistiamo e ci facciamo riconoscere. L’immagine che si profila e che appare poco a poco più netta, mi sembra quella tipica di un soccorso, come se ne vedono molte: le persone sono a bordo di un gommone mezzo sgonfio, sovraffollato. Sono dentro e a cavalcioni di questa cosa che galleggia. Ovunque persone: sui lati, all’interno. Piedi nudi,  gambe sospese nel vuoto.  Niente di rosso ci appare: nessun gilet di salvataggio, solo qualche pneumatico nero attorno alle braccia di quelli che sono più esterni, seduti sui bordi.  Facciamo segno, ci riconoscono, esultano. L’accoglienza che ci riservano, le benedizioni che ci inviano è bella ma pericolosa: il loro equilibrio è talmente precario che in un attimo lacosachegalleggia potrebbe capovolgersi. Li invitiamo alla calma. Con le parole, coi gesti.  Le procedure standard, su cui siamo formati, prevederebbero di mettere in mare il nostro RHIB. Ma la corsa contro il tempo non lo consente e quindi ci limitiamo ad avvicinarci e a comunicare in modo chiaro e forte chi siamo, che li porteremo a bordo e come lo faremo. Il resto non so spiegarlo. Come un film al rallentatore,  una serie di gesti che si incollano un pezzo alla volta. Noi dell’equipaggio funzioniamo come un corpo a cui la testa ha dato i comandi. Io a prua e un’altra persona a poppa dobbiamo lanciare una cima che le persone a bordo di quella cosa sgonfia dovranno tenere, dall’inizio alla fine, senza mai lasciarla. Due persone devono stare all’interno, per accogliere chi entrerà a bordo, due alla porta d’ingresso per farle passare dalla zattera alla nostra nave, primo porto sicuro. Il capitano al comando di questa manovra.  Iniziamo e da questo momento fino al termine dell’operazione sono concentrata su quello che devo fare senza avere una completa visibilità su quello che i miei compagni compiono. Eppure siamo coordinati. Scoprirò alla fine che per far salire a bordo tutte le 71 persone, ci abbiamo messo soltanto 26 minuti. Lancio loro la cima. Non ricordo se sono la prima a farlo o il mio compagno a poppa. Reportage e inchieste/In mare SILENCE FINI Il racconto di una navigazione a bordo del veliero Nadir Roberta Derosas 27 Novembre 2025 Lancio e la prendono, la afferrano, la stringono. Se potessero, mi sembra che se la legherebbe attorno. Dall’altro lato è uguale. Il gommone nero si attacca alla chiglia della nostra N. Le braccia si tendono. La maggior parte delle persone è adulta: dalla posizione in cui mi trovo, mi ricordano i miei figli quando da piccoli mi tendevano le braccia. Vedo i visi, gli occhi, gli sguardi.  E ancora le braccia tese.  Si appendono alle cime, cercano di arrampicarsi, mentre gridiamo per farci sentire: è pericoloso quello che che accade. Il loro barcone ondeggia mentre sono tutti in piedi nel suo ventre sgonfio e bagnato. Grida di paura, grida di ordine, di comando, di indicazioni, di pretese e richieste di essere accolti per primi.  Sollevano i bambini, vogliono passarceli, salvarli. D’istinto ne prendo uno che qualcuno mi passa.  Penso a quella celebre frase che ricorda che nessun genitore affronterebbe quel viaggio se avesse un’altra scelta. Nessuno metterebbe in mare i propri figli dandoli in pasto alla morte, prima del tempo.  Comincia il trasbordo: cerchiamo di far passare prima le donne e i bambini. Ma non sempre è possibile. le persone si pressano, accalcano: la paura di non farcela li rende aggressivi tra loro all’inizio. Uno, due, tre, quattro… “mantenete la calma, salirete a bordo tutti”.  Cinque, sei, sette, otto…  “Non lasciate le cime”  Nove, dieci, undici e ancora, ancora, ancora, uno di più, senza smettere, senza pace né tregua, correndo per portarli tutti a bordo.  E mentre alcuni salgono, altri aspettano il loro turno, chi con calma, chi con ansia, mentre li rassicuriamo. A gesti e a parole.  Un ragazzo di fronte a me, un minore che viaggia da solo. Mi guarda e mantengo il contatto con lo sguardo, gli sorrido, lo rassicura. Potrebbe avere l’età di mia figlia. Tra i 16 e i 17 anni. Lei è al caldo, a quest’ora è a scuola. Le persone salgono a bordo e io indico agli uomini che salgono sul ponte dove sedersi a prua. Le donne e i bambini all’interno. Il gommone nero si svuota. Ne restano a bordo tre, due, uno. Nessuno.  Sono tutti qui ora nella nostra barca.  Tutti al sicuro.  La procedura prevede mail e chiamate, compreso la MRCC libica. Tocca a me, fa parte delle mie funzioni a bordo. Al primo e secondo numero non risponde nessuno. Al terzo, mi rispondono. “No english, only arabic”. Ripeto e provo anche in francese. La risposta è la stessa. Silenzio. Riagganciano. Da MRCC Malta non risponde nessuno. Solo una segreteria telefonica. Da Roma invece qualcuno all’altro capo del filo. L’ufficiale di servizio conferma di aver ricevuto la mail. Sudo. Questa è la parte che mi fa più timore, eppure ho sempre l’appoggio del capitano. Ma basta una mail mandata al momento sbagliato, una parola non precisa che si rischia l’arresto delle operazioni da parte delle autorità. Nel frattempo, la N si trasforma: non esiste uno spazio vuoto. Le nostre cabine sono piene di oggetti. Altrove, persone ovunque.  E poi odore di urina, di escrementi, di paura, di mare bagnato.  Gente che vomita ovunque.  Le persone sono fradice: di viaggio, di fatica, di anni di lotta ed erranza. Se mi chiedessero quale odore associo alla migrazione di chi arriva dall’Africa attraverso il mare, è questo. Lo stesso che ho sentito ai moli durante gli approdi.  Cominciamo ad aiutare le donne a lavarsi, a mettere vestiti asciutti. Ancora una volta: una, due, tre, quattro…. Ci vuole qualche ora perché siano tutte coi vestiti asciutti. I sacchi si riempiono di panni bagnati pieni di vomito, urina, dolore.  Siamo in tre donne a prenderci cura di loro. Le aiutiamo a lavarsi, a passare il sapone su schiene, seni, ventri che hanno cicatrici di colpi e smagliature dei parti. Corpi nudi, indifesi. A cui cerchiamo di restituire ciò che mi sembra sia stato tolto per anni. Non smetto di pensare a come mi sentirei se una sconosciuta mi guardasse nuda. Cerco di essere discreta, a me non piacerebbe. Credo vorrei solo chiudermi da qualche parte lontano da tutto. Chiediamo loro se vogliano essere aiutate. Nessuna rifiuta. Metto tenerezza in quel gesto, la stessa cura che userei verso i miei figli, verso me stessa, verso chi conosco e amo. Alcune parlano, altre distolgono lo sguardo, altre ancora raccontano la loro storia. Una donna nigeriana mi dice che è rimasta in Libia oltre un anno dopo aver restituito il debito alla madam. “Ho continuato a lavorare per conto mio, mi sono pagata il viaggio”. Ha una grossa ferita sul seno. Mi dice che le è esplosa una bombola di gas addosso mentre cucinava. Non faccio domande, ascolto chi ha voglia di raccontare. Osservo i corpi, in silenzio: i lividi, le cicatrici, le scarificazioni, la forma, le macchie; Siamo tutti sfiancati:  le persone a bordo sono stanche, gli ospiti si addormentano, adattando i corpi ai posti disponibili. Noi ci diamo i turni per avere qualche ora di riposo. Il ponte è dorato dalle coperte termiche; fa lo stesso rumore della carta di una caramella. Solo che le caramelle qui sono persone. 49 uomini. Dentro 26 donne. 5 bambini, tra cui una neonata di soli 21 giorni, che una madre sfinita allatta senza sosta ad ogni risveglio. Per fortuna, non ricorderà nulla di questa notte senza fine.  Avrà memoria degli anni che arriveranno, delle procedure, dei centri, dei cambiamenti di case e paesi. Forse.  Ma non dei 26 minuti di questo soccorso. 1. Nadir è un veliero che svolge operazioni di search and rescue nel Mediterraneo e fa parte della Civil Fleet ↩︎
Humanity 1 trattenuta a Ortona: l’ennesimo fermo contro il soccorso civile
Dopo lo sbarco di 85 persone, tra cui vari minori non accompagnati, avvenuto lunedì 1° dicembre, la nave di soccorso Humanity 1, dell’organizzazione SOS Humanity, è stata nuovamente trattenuta dalle autorità italiane. Il fermo provvisorio è scattato martedì 2 dicembre 2025 nel porto abruzzese, con l’accusa di non aver comunicato con il Centro di coordinamento libico, in base agli obblighi imposti dalla legge Piantedosi. L’ordine è stato firmato da Ministero dell’Interno, Guardia di Finanza e Ministero dei Trasporti, e resterà in vigore finché la Prefettura non avrà concluso l’indagine. Il fermo si basa sull’ipotesi di violazione della legge Piantedosi per non aver contattato il centro di coordinamento libico. Ma SOS Humanity respinge le accuse, spiegando che la mancata comunicazione è una scelta legittima, coerente con il diritto internazionale e condivisa da tutte le organizzazioni della Justice Fleet Alliance. Approfondimenti/In mare JUSTICE FLEET ALLIANCE: LE ONG DEL MEDITERRANEO INTERROMPONO I CONTATTI CON TRIPOLI «Non è solo moralmente giusto, ma anche giuridicamente necessario» Giulia Stella Ingallina 17 Novembre 2025 «Questo fermo provvisorio è incompatibile con il diritto internazionale» afferma Marie Michel, esperta politica di SOS Humanity. «La cosiddetta Guardia Costiera libica è responsabile di gravi violazioni dei diritti umani. Rifiutarsi di comunicare con attori coinvolti in questi crimini è l’unico modo per difendere il diritto marittimo e i diritti umani». E aggiunge: «Mentre questi attori continuano a essere sostenuti dall’Unione Europea, le navi che salvano vite vengono bloccate. La capacità di soccorso diminuisce e le morti in mare aumentano». La Humanity 1 è solo l’ultima di una lunga serie di navi della flotta di soccorso civile colpite da fermi amministrativi e procedure punitive. Un provvedimento del tutto illegittimo, come del resto hanno ribadito più volte le sentenze dei tribunali italiani ma che Piantedosi continua a non leggere, che blocca ancora una volta una nave umanitaria (è il terzo fermo subito da Humanity 1), e che arriva al termine di una missione complessa, segnata da condizioni meteo avverse, operazioni di salvataggio ravvicinate e un trasferimento prolungato verso un porto assegnato a oltre 1.300 chilometri di distanza. Ph: Sofia Bifulco – SOS Humanity LA RICOSTRUZIONE DELLA MISSIONE E DEI SOCCORSI1 Il 19 novembre la nave Humanity lascia Siracusa e raggiunge l’area SAR. Il 24 novembre il primo soccorso: 75 persone in pericolo. La segnalazione arriva da Alarm Phone: una barca di legno sovraccarica e senza motore, nella zona SAR tunisina. Le condizioni sono critiche: disidratazione, ipotermia, maltempo e mare grosso. Tutte le 75 persone vengono soccorse e, poche ore dopo, trasferite su una motovedetta della Guardia Costiera italiana e condotte a Lampedusa, permettendo alla Humanity 1 di rimettersi subito in navigazione verso nuove possibili emergenze. Il 24 novembre il secondo soccorso: 85 naufraghi in area SAR libica. A circa 100 km dalla costa libica, l’equipaggio individua una barca blu alla deriva, con tre motori spenti e oltre 80 persone a bordo. Le comunicazioni con MRCC Roma, JRCC Malta e il centro tedesco MRCC Bremen iniziano subito. Tra le 09:14 e le 11:15, si alternano valutazioni, soccorsi con le RHIB, distribuzione di giubbotti di salvataggio e mail ufficiali ai centri SAR. Alle 10:49, tutti gli 85 naufraghi sono al sicuro a bordo della Humanity 1. Alle 10:59, la nave comunica formalmente che non può coordinarsi con il MRCC libico, né trasferire i sopravvissuti in Libia, poiché non costituisce un porto sicuro, come stabilito dal diritto internazionale e ribadito dal Tribunale di Catanzaro. Il 1° dicembre l’arrivo a Ortona: dopo quasi una settimana in mare, attraversando il Golfo di Taranto per evitare il maltempo, le 85 persone sfiancate dal viaggio vengono finalmente sbarcate nel porto di Ortona. Ph: Marcel Beloqui Evardone – Alcuni scatti dall’operazione SAR di SOS Humanity «Una traversata inutile e pericolosa». Il maltempo e la distanza del porto assegnato hanno determinato un lungo e rischioso trasferimento che ha aggravato le condizioni fisiche e psicologiche delle persone soccorse. «Questa lunga traversata è stata inutile e pericolosa per la salute fisica e mentale delle persone che abbiamo avuto a bordo» ha denunciato Stefania, responsabile della protezione sanitaria. «Abbiamo registrato casi di scabbia, infezioni respiratorie, febbre alta, dolori muscolari, malattie parassitarie. Alcune persone erano sotto antibiotici. Molti ci hanno raccontato torture subite in Libia». SOS Humanity aveva chiesto più volte l’assegnazione di un porto vicino, ma MRCC Roma ha respinto ogni richiesta. «Il diritto internazionale prescrive lo sbarco senza indugio» ha ricordato Sofia Bifulco, coordinatrice della comunicazione. «Davanti a noi c’erano porti raggiungibili in poche ore. Invece sono state esposte persone vulnerabili a quasi una settimana di transito inutile». 1. Leggi la ricostruzione completa di Sos Humanity ↩︎
Silence fini
Silence fini è il racconto di tre settimane nel Mediterraneo centrale a bordo del veliero Nadir 1 di RESQSHIP, in cui ho vissuto il soccorso in mare e osservato da vicino le vite delle persone migranti e dell’equipaggio, tra responsabilità, vulnerabilità e privilegio, in un mare che resta coerente e implacabile. Attraverso la mia esperienza personale, esploro cosa sia un soccorso e come frontiere, norme e gerarchie si manifestino nei corpi, nei gesti, nelle decisioni e negli sguardi. Silence fini vuole aprire ad una riflessione sulle contraddizioni etiche e politiche del Mediterraneo contemporaneo. Il racconto della navigazione a bordo di questo veliero della Civil fleet che opera monitoraggio e soccorso nel central med, vuole ricordare la violenza strutturale che colpisce chi attraversa, tra respingimenti, detenzioni e pratiche di Stati che negano sicurezza e diritti fondamentali. SILENCE, ATTENTION. C’è molto da raccontare dopo tre settimane a bordo della Nadir: le vite che l’hanno attraversata e abitata, il dovere dei soccorsi a cui ho preso parte, il dolore, la miseria. E non penso solo a quella di chi parte e sale al sicuro: quella è una povertà facile.  Mi riferisco a quella sporca, di esseri umani che infliggono tortura e degradazione ad altri, quella di chi nega diritti,  quella in cui gli Stati bianchi e protetti da una fortezza pagano complici a sud per ricacciare indietro uomini, donne, bambini: vite che hanno diritti di cui si tenta di ignorare l’esistenza, vittime di un’indecenza a cui si tenta di rispondere. Tre settimane in un veliero, eterotopia per eccellenza in cui si rende onore al dovere di soccorso e in cui navigare è pratica politica. Ventuno giorni che, nel loro dispiegarsi, hanno disegnato, affermato, cancellato e sospeso frontiere. Il mare continua a essere perfetto anche quando tutto il resto non lo è, fa il suo mestiere con coerenza millimetrica: ospita, custodisce, trasporta, ingoia, mentre gli uomini sembrano smarrire il proprio compito, quando cercano senza trovare o ignorano ciò che si vede.  L’attesa talvolta è stata una compagna complessa, faticosa, che mi si è attorcigliata come un filo mal teso. Durante la navigazione, il mare mi è apparso, talvolta,  come una superficie uniforme. Più spesso, mi ha rivelato correnti, decisioni, ruoli, movimenti. Sono stata a bordo con sette persone  che lo hanno vissuto per il tempo sospeso della rotation #10. Quattro uomini e tre donne che, nel tempo di questa navigazione tra il 25 ottobre e il 15 novembre, sono stati marinai, volontari, ricercatori, giuristi, film maker, fotografi, esperti di logistica, sia rivestendo ruoli già conosciuti perché parte del loro quotidiano nel loro paese di origine, ma altrettanto nuovi e differenti nello spazio marino.  Abbiamo abitato l’ordine mobile imposto dall’acqua e dal vento,  nel ritmo altalenante delle onde, nel perimetro stretto delle manovre, nel silenzio che precede le comunicazioni radio, nel gracchiare di un canale VHF connesso h 24 rumoroso nei momenti più inopportuni. Ogni gesto quotidiano – tra nodi, scelta delle rotte, controllo di motori, mail, cibo cucinato e condiviso, soccorsi – ha disegnato una coreografia ripetuta eppure varia.  Per tre settimane ho osservato il mare e suoi i movimenti, chi lo lo abita e lo traversa, chi lo confina o ne apre i varchi e, allo stesso tempo, me  stessa lì dentro: ciò che che ho temuto, affrontato, invocato, curato. Quello che mi ha suscitato domande e quello che ha generato certezze, in un costante movimento di relazione all’Altro. Etnografia e auto etnografia del mare. Ho condiviso un tempo e uno spazio con altre persone a cominciare dalla crew. L’equipaggio aveva, in parte, esperienze pregresse di SAR nel Mediterraneo Centrale. Tutti provenienti dalla Germania tranne due persone, la comunicazione a bordo è sempre stata l’inglese, ma talvolta una lingua ibrida si è usata tra i membri, un broken english, sporcato da accenti diversi e parole tedesche, italiane e francesi, a seconda delle lingue comuni. Il capitano, I., tedesco, oltre che essere uno dei fondatori di questa OnG, lo è stato anche di un’altra, da cui si è allontanato nel 2019. Meccanico in pensione, ha profonde conoscenze dei salvataggi in mare, in cui opera come capitano volontario da oltre dieci anni. Il meccanico di bordo, ma anche responsabile degli ospiti, M.,  ha già partecipato con diverse organizzazioni a missioni di soccorso. In Germania si occupa a domicilio di persone paraplegiche, con un ruolo che prevede la cura fisica e quella amministrativa.  Il medico, una donna, ha una lunga esperienza nei contesti di emergenza in Germania, ma era alla sua prima navigazione. Il fatto di partecipare a questa rotazione è un’idea che si è fatta strada, per lei, nel corso del 2025. Come Filmmaker e Official Media Communicator oltre che RHIB driver, T., un altro tedesco appassionato di fotografia, ma di mestiere operatore sanitario nei contesti di urgenza da più di 25 anni nella sua città, nel nord della Germania. Di operazioni di soccorso, ne ha fatte molteplici. Come guest care un altro tedesco, J, che ha partecipato, anche lui, a molte operazioni. In Germania è avvocato penalista. Poi D, una ragazza greca che vive in Francia come me: è stata co- skipper e nel RHIB si è occupata di avere il primo contatto con le persone migranti. È la più giovane del gruppo e si affaccia alla search and rescue bubble, ma ha al suo attivo una forte esperienza di militanza con persone migranti. Naviga per mestiere. E poi ci sono io, a metà tra Italia e Francia, a metà tra lavoro sociale e ricerca. Ho il compito di comunicare con le autorità sia per scritto che via radio VHF e telefono, ma anche degli ospiti a bordo insieme a J., sia per la distribuzione di vestiti e cibo quando le persone saranno soccorse che per spiegare loro cosa significa arrivare in Europa. Questa è la seconda operazione a cui partecipo: ciò non fa di me una grande esperta, solo una persona cosciente di cosa mi aspetta. Le motivazioni che ci hanno spinti a bordo sono molteplici e col denominatore comune di pensare al soccorso in mare come un atto doveroso quando le persone attraversano. Ne abbiamo parlato in queste tre settimane di vita comune, ma più sono aumentati i giorni di navigazione che hanno trasformato la terra in un miraggio alle nostre spalle, meno sono stati gli spazi condivisi di discussione sulle motivazioni che ci avevano spinti a bordo: abbiamo vissuto in un sistema di shift in cui, due alla volta, ci siamo divisi le giornate a spicchi e quando non siamo stati di watch, spesso abbiamo cercato di dormire. La fatica  e il sonno rendono silenziosi. Il tempo in barca si ritesse come la frontiera che abbiamo percorso senza sosta.  Accanto alla relazione a me stessa e all’equipaggio di cui ho fatto parte, si è aggiunta quella con tutti gli altri attori del Mediterraneo, dalle persone in movimento, ai pescatori, dagli altri membri della civil fleet marina, aerea e terrestre, a quelli istituzionali, compagni talvolta imposti dal mare e dal diritto che lo regola, ma profondamente temuti e indesiderati, come le GC Tunisina e Libica. Nelle note che seguono, il Mediterraneo centrale è al contempo attore e scenario: con la sua bellezza ha accolto e accompagnato la nostra azione e la navigazione di questa barca, accentuando il contrasto indecente tra la perfezione della natura – che mi stupisce sempre – e l’assoluta assenza di logica che abita talvolta il soccorso in mare, tra barche segnalate che non si trovano e altre cariche solo di oggetti lasciati a macerare, ma prive di persone di cui non si conosce il destino. Siamo partiti da Malta, dove la barca è ancorata tra un’operazione e l’altra, isola che scopro per la prima volta. Mi fa pensare a Lampedusa, che arrivando dall’aereo, appare piccola piccola. Il maltese mi sembra un insieme strano di inglese, siciliano, arabo. Una lingua vecchia di rapporti e dominazione, di parole eleganti e suoni duri, un archivio di incontri, ferite, scambi, compromessi. Nelle parole si sente chi è arrivato dal mare e chi dal deserto. Mi fa pensare a chi, nei secoli, attraverso questa lingua, ha perso una patria o ne ha conquistata una, chi ha scelto di rimanere e chi è stato costretto a farlo. In fondo, un idioma è più onesto delle politiche che si applicano in migrazione: non c’è lingua che resta pura, né confine che rimane intatto. Le vocali sono un prestito, le consonanti diventano testimoni di un movimento umano: di lavoro, di fuga, di desiderio, di sopravvivenza. Le lingue si sporcano e tessono di incontri: sono testimoni del fatto che nessun popolo è mai stato solo e isolato. A bordo, navigando, si sono tessute conversazioni. A volte, il mondo si è apparentemente diviso tra noi e loro, The migrants come li chiamano nella bubble SAR: Corpi bruciati, carne ossidata dal sale, mare, gasolio che laviamo con acqua e sapone quando salgono a bordo. Persone, cicatrici, dolore, movimento, oggetto, soggetto, vittime, attori. Ossimoro vivente, continuamente riprodotto dal mare e dallo sguardo di chi lo attraversa. Io faccio fatica, all’inizio della navigazione, a usare questa parola per indicare le persone che si incontrano perché mi pare di ridurle al solo fatto della migrazione, di dimenticare che sono molto altro che il viaggio che affrontano. Penso a Sayed quando dice che l’immigrato, per definizione, non é jamais tout à fait un homme: il est d’abord immigré, un’identità che cancella la biografia, una parola che descrive la persona solo attraverso una lente e lo riduce, esclusivamente, a soggetto in movimento. Ma quante storie esistono dentro queste persone che si muovono? Penso a H. Arendt e a Judith Butler che invita a riflettere a come il linguaggio crei una frontiera tra “noi” e “loro”. Se loro sono “migranti da soccorrere”, allora automaticamente noi siamo “soccorritori”. Siamo categorie: i salvati da una parte, i salvatori dall’altra, come se non esistessero alternative. E invece la realtà è meno ordinata di così. Il viaggio ci mette tutti in una condizione vulnerabile, solo in forme diverse. C’è chi ha perso la terra da cui viene, chi si misura con la frattura tra ciò che vede e ciò che il mondo finge di non vedere e il movimento non lascia nessuno intatto. Cosa significa essere soccorsi o soccorrere, essere tratti dall’acqua, riconosciuti come persone? Cosa significa avere il diritto a esistere senza dover giustificare la propria esistenza? Le frontiere non sono solo nel mare o tra le terre, ma cominciano dalle parole e dagli sguardi.  Durante la navigazione, in mare, non esistono confini tracciati a vista o muri fatti di reti, eppure ogni tratto d’acqua ha qualcuno che ne ascolta le voci. Nella zona SAR, quando un’emergenza appare, la centrale di coordinamento di quell’area deve intervenire e distribuire i ruoli: chi si avvicina, chi rimane in attesa, chi osserva. Non si tratta di approvare o giudicare, ma di mantenere l’ordine necessario perché le vite sull’acqua non vadano disperse nella confusione. Nel soccorso in mare il paese “proprietario” di quelle acque è destinato ad averne il controllo e  riportare nella propria terra, nei propri porti. Ma da quando la Libia è un porto sicuro? E la Tunisia lo è? Perché in questi luoghi gli esseri umani sono venduti, torturati e liberati solo a condizione di pagare un riscatto. Il principio di non refoulement, che detto in francese suona elegante,  e il duty to render assistance sono solo parole inanellate le une alle altre. Il Mediterraneo Centrale è un’Odissea moderna, popolata da creature strane, luoghi, farabutti, avventurieri, eroi, protagonisti e personaggi che fanno da sfondo. Abbiamo navigato percorrendo la banana route, derivato accanto alla piattaforma di Miskar nel Golfo di Gabes: una struttura innaturale che, eppure, si confonde col paesaggio. Un sistema di piani, scale e tubature che lavora per catturare ciò che si nasconde sotto il fondale. Di giorno, il metallo sembra un’anima priva di vita; di notte, le luci la rendono una presenza spettrale. Miskar non è soltanto metallo. È anche una specie di frontiera: tra l’uomo e il mare, tra ciò che si estrae dal profondo e ciò che resta in superficie, in una sorta di dimensione sospesa. Senza essere un luogo, lo diventa, come una barca ancorata in eterno. Ne ho sentito parlare senza sosta da chi ha già navigato nel Mediterraneo Centrale partecipando a operazioni di soccorso e ne ho memoria dai racconti di un amico etiope, che lasciando la Libia nel 2006, l’ha incrociata di notte e confusa con una nave insieme ai compagni d’avventura. Mi ha raccontato dell’entusiasmo, mentre navigava con gli altri, nel vedere le luci in lontananza, ma poi della delusione alla certezza che non si trattasse di una barca.  Nel cuore di questo sud liquido, abbiamo incontrato imbarcazioni: piene di persone, vuote. Di lamiera, di gomma, di legno, di vetroresina. Blu, nere, azzurre, grigie, ruggine. Anonime o col marchio di fabbrica: una tra tutte quella incontrata  dopo qualche giorno di navigazione. Dieci metri di lamiera stridenti incollata con lo sputo e il sudore destinate ad accogliere almeno ottanta persone. Sulla chiglia, a prua, il marchio di chi l’ha prodotta: King 24. Di questo mostro di metallo, Marinetti avrebbe riprodotto una serie di suoni sinistri. È un affronto alle leggi della fisica. Dentro, qualche scarpa, qualche pneumatico nero, uno zaino da bambino, due macchinine giocattolo, distrazione infantile durante un viaggio insensato. Abbiamo tentato di affondarlo, questo mostro, ma ci ha resistito cigolando in modo sinistro.  In ventuno giorni, abbiamo perlustrato, derivato, corso, veleggiato, usato il motore: ci siamo imbattuti per caso in barche abbandonate, ci siamo diretti verso mezzi di fortuna segnalati che non abbiamo mai trovato. Certi giorni abbiamo lottato, altri abbiamo dovuto riporre la speranza. Penso al giorno in cui siamo andati la mattina in direzione di un target che non abbiamo mai raggiunto e di cui, la sera, abbiamo conosciuto il triste epilogo: uomini che, partiti dalla Libia, sono rimasti troppo vicini alle coste e entrati nella SAR tunisina. Sottratti al mare dalla GC Tunisina, sono stati immediatamente detenuti. L’epilogo si conosce: saranno portati alla frontiera tra Tunisia e Libia, incarcerati, trasferiti e poi venduti dagli agenti di Stato Tunisini ai miliziani libici. Ne parlano anche i testimoni del rapporto State Trafficking del collettivo RRX. Si sa; è storia nota che si vuole tenere all’oscuro. C’è un privilegio che ho sentito dolorosamente a bordo: quello della bellezza costante di questo mare, quella della navigazione su un veliero, quella di essere bianchi e nati dentro la fortezza e non al di fuori, quella di scegliere sempre da che parte stare.  1. Nadir è un veliero che svolge operazioni di search and rescue nel Mediterraneo e fa parte della Civil Fleet ↩︎
Justice Fleet Alliance: le ONG del Mediterraneo interrompono i contatti con Tripoli
Il 5 novembre 2025 a Bruxelles la Justice Fleet Alliance ha tenuto la sua prima conferenza stampa congiunta, trasmessa in diretta streaming. Le organizzazioni coinvolte hanno annunciato una decisione storica: sospendere ogni comunicazione operativa con il JRCC (Joint Rescue Coordination Centre) libico. Dopo anni di violazioni dei diritti umani da parte delle autorità libiche, le organizzazioni non governative di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale hanno creato una “coalizione per la giustizia”, con il supporto del Centro europeo per i diritti costituzionali e umani e di Refugees in Libya. «Dieci anni dopo l’estate della migrazione, stiamo fondando la Justice Fleet. I nostri obiettivi? Lottare insieme contro i crimini di Stato. Vogliamo creare pressione pubblica e legale per realizzare un cambiamento politico 1» Durante la conferenza, i partner coinvolti sono intervenuti in merito ai fondamenti legali e morali della decisione e alle richieste rivolte ai policy makers europei: SEA-WATCH: COS’È LA JUSTICE FLEET E QUAL’È IL SUO BACKGROUND L’Unione Europea, nel tentativo di bloccare le traversate nel Mediterraneo, si rende complice di crimini contro l’umanità e ostacola la società civile impegnata nei soccorsi, criminalizzandola e diffamandola. In risposta a queste violazioni sistematiche, tredici organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani e del diritto marittimo internazionale si sono unite per dare vita alla Justice Fleet, la più grande alleanza civile di organizzazioni di ricerca e soccorso in mare. «È una risposta alla coercizione degli Stati europei a comunicare con le milizie libiche, autori di quotidiane violenze in mare e in opposizione al rinnovo tacito del Memorandum d’Intesa Italia-Libia. 2» Alliance Members (Germania, Francia, Italia e Spagna) CompassCollective – Louise Michel – Mediterranea Saving Humans – Mission Lifeline – Pilotes Volontaires – RESQSHIP – r42-Sail And Rescue – Salvamento Marítimo Humanitario – Sea-Eye – SEA PUNKS – Sea-Watch – SOS Humanity – Tutti gli Occhi sul Mediterraneo La campagna della Justice Fleet Alliance nasce dopo che la nave civile Mediterranea, di Mediterranea Saving Humans, il 4 novembre 2025 ha sbarcato a Porto Empedocle 92 persone soccorse, rifiutando il porto assegnato di Livorno, distante oltre 1.200 km e quattro giorni di navigazione. Notizie/In mare «ABBIAMO AGITO PER SALVARE VITE»: SBARCATE LE 92 PERSONE SOCCORSE DA MEDITERRANEA Lo Stato minaccia nuove sanzioni per aver scelto Porto Empedocle Redazione 5 Novembre 2025 L’equipaggio ha disobbedito agli ordini illegittimi del Governo italiano, agendo in “stato di necessità” (art. 54 c.p.), nel pieno rispetto del diritto marittimo nazionale e internazionale, a tutela dei diritti fondamentali della vita e della dignità delle persone soccorse, giudicate dal medico di bordo non idonee a ulteriori giorni di navigazione. Per questa decisione la nave è stata bloccata e il comandante ha ricevuto una contestazione per presunta violazione del Decreto Piantedosi per “non aver raggiunto senza ritardo il porto di sbarco assegnato”. L’episodio evidenzia la volontà del Governo di ostacolare il soccorso civile, inumana ossessione che guida l’imposizione di norme che mettono a rischio la vita delle persone. «Lo spirito con cui la nave ha agito è lo spirito che anima la Justice Fleet e per questo esprimiamo tutta la nostra solidarietà a Mediterranea 3» L’obiettivo della Justice Fleet è quello di unire azioni legali, politiche e comunicative per rafforzare le reti di solidarietà nei confronti delle persone in movimento, soprattutto quelle bloccate in Libia. L’alleanza si prefigge di sostenere i soccorsi, contrastare respingimenti illegali, repressione e criminalizzazione delle ONG, opponendosi alle politiche di morte europee che, in nome della sicurezza delle frontiere, impediscono i salvataggi ledendo i diritti umani. COMPASS COLLECTIVE: SULL’ILLEGITTIMITÀ DEL CENTRO DI COORDINAMENTO DEI SOCCORSI IN LIBIA Dall’istituzione di una zona SAR libica nel 2018 e la successiva creazione di un centro di coordinamento dei soccorsi associato a Tripoli, viene esercitata una pressione crescente sulle ONG affinché comunichino con le autorità libiche. Tuttavia, la cosiddetta Guardia Costiera Libica è in realtà una rete di milizie armate che, invece di soccorrere, rapisce le persone durante l’attraversata, perpetrando violenze sistematiche. Non disponendo di un governo centrale, questa rete è stata addestrata e finanziata dall’UE nell’ambito delle politiche di “controllo della migrazione”. Il JRCC di Tripoli non rispetta gli standard stabiliti dall’Organizzazione marittima internazionale previsti nelle convenzioni SOLAS e SAR: non è operativo 24 ore su 24, manca di capacità linguistiche e infrastrutture tecniche adeguate. Le azioni violente che mettono in atto in mare non possono ovviamente essere considerate salvataggi, ma costituiscono la prima linea di un sistema di crimini istituzionalizzato. Anche le Corti europee – da quelle italiane a quella dei diritti dell’uomo – hanno confermato che i respingimenti verso la Libia violano il diritto internazionale. Nel marzo 2024, dopo un salvataggio coordinato dalla Humanity 1 e il fermo imposto alla nave, il Tribunale di Crotone ha revocato il provvedimento, stabilendo 4 che la “guardia costiera libica” e il JRCC non sono autorità legittimate al soccorso. La Corte d’Appello di Catanzaro ha confermato la decisione nel giugno successivo, ribadendo che la Libia non è un porto sicuro e che le ONG agiscono nel rispetto del diritto internazionale. L’8 luglio 2025, in riferimento al caso Ocean Viking 5, la Corte costituzionale italiana ha precisato che i comandanti devono seguire solo istruzioni legittime e conformi alle norme di soccorso in mare: ordini che mettono in pericolo vite umane non sono vincolanti e la loro disobbedienza non è punibile. Ne deriva che le istruzioni della “guardia costiera libica” non sono mai legittime: «Seguire le loro istruzioni illegali è contro il diritto internazionale. […] Quindi la decisione della Justice Fleet di sospendere tutte le comunicazioni operative con le autorità marittime libiche non è solo moralmente giusta, ma è giuridicamente necessaria 6». In linea con le decisioni giudiziarie, la Justice Fleet Alliance rifiuta quindi ogni collaborazione con la Libia, considerata un “attore illegittimo in mare”, garantendo che il dovere di soccorso non si trasformi in complicità con crimini politici. La Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita in mare impone a ogni comandante di soccorrere chi è in pericolo e di garantirne lo sbarco in un luogo sicuro, indipendentemente da nazionalità o status. La Libia, priva di un sistema d’asilo e responsabile di gravi violazioni dei diritti umani, non può essere considerata un luogo che soddisfa gli standard. Ne consegue che portare i naufraghi in Libia è illegale e, di fatto, nel momento in cui le autorità italiane ed europee ordinano alle ONG di coordinarsi con le unità libiche, chiedono loro di commettere un illecito. Obbedire significherebbe rendersi complici di un sistema criminale, e il rifiuto non è una sfida ma un atto di rispetto del diritto internazionale. «La Justice Fleet oggi sta tracciando un’importante linea giuridica e morale secondo cui la vita umana viene prima degli ordini. 7» CENTRO EUROPEO PER I DIRITTI COSTITUZIONALI E UMANI: SUI CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ NEL MAR MEDITERRANEO E SULLA TERRAFERMA DA PARTE DI ATTORI LIBICI La Libia non può essere considerata un “place of safety”: rapporti internazionali documentano torture, abusi, schiavitù, stupri e lavoro forzato all’interno di campi dove le persone in movimento vengono imprigionate 8. Le autorità marittime libiche e le milizie affiliate, incluse la cosiddetta Guardia costiera, il JRCC di Tripoli e gruppi come la brigata TBZ 9, hanno abitualmente fatto ricorso alle armi e a manovre calcolate per mettere in pericolo le persone in mare. Per ragioni politiche, le persone intercettate vengono riportate con la forza in Libia e rinchiuse in prigioni gestite da agenzie statali, milizie e attori privati, dando vita a un sistema detentivo divenuto altamente redditizio. Dal 2011 questo sistema è parte dell’economia del conflitto libico, ulteriormente rafforzata nel 2016 dalle politiche europee di esternalizzazione delle frontiere, che hanno rimodellato quest’industria della detenzione contribuendo alla creazione di una struttura transnazionale di contenimento che si traduce in crimini contro l’umanità. «È importante notare che ciò che sta accadendo nel Mediterraneo non è una crisi umanitaria o un fallimento della governance, ma un sistema deliberato di violenza organizzata 10» Il 27 marzo 2023, la missione di inchiesta delle Nazioni Unite (NU) sulla Libia ha dichiarato:  «L’UE e i suoi Stati membri sostengono la cosiddetta guardia costiera libica […]; in questo modo, contribuiscono al sequestro illegale di rifugiati in mare e alla detenzione illegittima 11.» Nella stessa indagine, le NU classificano le intercettazioni e i respingimenti in mare come equivalenti alla reclusione o ad altre gravi privazioni della libertà personale, violando alcuni tra i primi articoli della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) 12. Gli attori della politica congiunta di “prevenzione della migrazione”, sono pienamente consapevoli che tali azioni prevedibilmente si concretizzano in atti violenti, eppure l’importanza ricade sull’agenda coordinata di contenimento. Nel loro obiettivo tacito nascondono e sminuiscono il quadro, ma gli orrori incasellati come “abusi isolati” sono evidentemente parte di un attacco diffuso e sistematico contro migranti e rifugiati che tentano di lasciare la Libia. RIFUGIATI IN LIBIA – SULLE ESPERIENZE DI VIOLENZA DELLE MILIZIE LIBICHE «Mentre continuiamo a sensibilizzare sulla condizione di chi attraversa il mediterraneo, la situazione in Libia peggiora di giorno in giorno. 13» Dal 2016 le milizie libiche attaccano in mare persone in fuga dal paese e soccorritori civili.  Un rapporto di Sea Watch documenta oltre 60 episodi negli ultimi dieci anni, tra sparatorie, speronamenti, blocchi, aggressioni, minacce e intimidazioni. Anche in condizioni meteorologiche avverse, le milizie libiche hanno inseguito le imbarcazioni con l’unico obiettivo di riportale in Libia. La Justice Fleet Alliance ha stilato un elenco dei casi 14 avvenuti negli ultimi anni; di seguito un estratto: Le spiegazioni degli episodi citati: Incidenti violenti in mare da parte delle milizie libiche | Justice Fleet 2025: Inseguimento di una barca mentre le persone erano cadute in acqua; una persona annegata 2025: Una motovedetta donata dall’UE spara in direzione della Sea-Watch 5 2025: Attacco armato di 20 minuti contro l’Ocean Viking 2024: Intercettate donne e bambini sotto la minaccia delle armi 2024: Minaccia alla Mare Jonio durante un’operazione di soccorso 2024: Manovre pericolose intorno all’Humanity1 2023: Molestato un gommone da una motovedetta libica 2022: Minaccia agli aerei civili con missili SAM (missili terra-aria) 2022: Sparatoria contro persone in acqua 2021: Tentativo di speronare un’imbarcazione in fuga 2020: Uccisione di tre persone allo sbarco 2018: Interferenza con un’operazione di soccorso, causando la scomparsa di cinque persone 2017: Sparatoria contro una nave della Guardia Costiera italiana 2016: Interferenza con un’operazione di soccorso, causando una serie di decessi SOS HUMANITY: SULLA COOPERAZIONE UE-LIBIA Dalla fine dell’operazione Mare Nostrum, l’UE ha indirizzato fondi per impedire alle persone di raggiungere l’Europa, sviluppando un complesso sistema di mezzi e strumenti per impedire l’esercizio del diritto di asilo e stringendo accordi con la Libia sulla “gestione delle frontiere nel Mediterraneo centrale”. Uno dei principali canali di finanziamento è stato il Fondo d’Emergenza per l’Africa (EUTF for Africa), lanciato nel 2015. Questi fondi, che avrebbero dovuto affrontare le cause profonde degli sfollamenti, sono stati invece dirottati (per 57,2 milioni di euro) verso il controllo della migrazione e la gestione militarizzata delle frontiere. Nell’ambito della strategia di prevenzione della migrazione definita propagandisticamente “illegale” l’UE ha fornito imbarcazioni, attrezzature e risorse finanziarie, nonché addestramento ed equipaggiamento delle milizie svolgendo un ruolo chiave nella creazione del centro di coordinamento del “salvataggio libico”. Da allora, secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per le Migrazioni, più di 145.000 persone sono state intercettate e riportate in Libia. Nel 2024, la Corte dei conti europea ha rilevato che i progetti UTF risultano frammentati, inefficaci e privi di adeguate tutele per i diritti umani. Nel 2021 la strategia europea è confluita nel nuovo strumento di vicinato, cooperazione allo sviluppo e cooperazione internazionale (NDICI) – Europa globale, valido fino al 2027, che per la gestione delle frontiere libiche ha stanziato 12 milioni di euro per un’accademia di frontiera, 8 per la modernizzazione del centro libico di coordinamento dei “soccorsi” e 5 per la formazione delle forze di sicurezza. Entro il 2027 l’UE avrà speso almeno 84 milioni di euro in misure di deterrenza in Libia. Documenti del Consiglio Europeo mostrano che il NDICI mira a potenziare le intercettazioni e collegare i centri di coordinamento, rafforzando il sistema che intrappola le persone in Libia. «Formando, equipaggiando e finanziando gli attori marittimi in Libia che commettono sistematicamente violazioni dei diritti umani, l’Unione Europea è direttamente complice di questi abusi. Ogni euro speso per una gestione violenta delle frontiere rappresenta un’Europa che avrebbe potuto salvare vite umane. È tempo che l’UE smetta di esternalizzare le proprie responsabilità legali e morali e inizi a sostenerle. 15» Il 2 novembre 2025 il Memorandum Italia-Libia, firmato nel 2017, è stato rinnovato tra le proteste delle organizzazioni per i diritti umani, della Search and Rescue Organization e dei gruppi auto-organizzati di rifugiati. Notizie/In mare LA PAROLA A REFUGEES IN LIBYA: «STOP MEMORANDUM!» "Stage of Survivors" ha concluso a Roma una settimana di mobilitazione 20 Ottobre 2025 A metà ottobre 2025 la Camera, con una mozione della maggioranza, lo ha tacitamente prorogato 16 fino al 2 febbraio 2026, richiamando la retorica del “contrasto ai trafficanti” e della “prevenzione delle partenze”, nonostante il patto implichi di fatto una collaborazione con i criminali, poiché prevede il finanziamento dei centri di detenzione e il sostegno alle milizie. La natura di questa cooperazione risulta più evidente alla luce dell’accusa rivolta all’Italia dalla Procura della Corte Penale Internazionale (CPI) per il mancato trasferimento a L’Aja di Osama Almasri, ex capo della polizia giudiziaria di Tripoli sospettato di crimini contro l’umanità. Proseguendo su questa linea, consapevoli delle conseguenze lesive dei diritti umani, UE e Stati membri alimentano un ciclo di violenza e sfruttamento. Questo è stato denunciato già nel novembre 2022 dal Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (ECCHR), che ha presentato un esposto 17 alla Corte penale internazionale contro funzionari di UE, Italia, Malta e Libia per il loro ruolo nelle intercettazioni sistematiche delle persone in movimento. «Porre fine alla nostra comunicazione di salvataggio con l’JRCC libico che coordina questi gruppi è una necessità e una linea chiara contro la complicità europea con i crimini che si stanno verificando in Libia. 18» NON CI SI ARRENDE DAVANTI ALLE POLITICHE INGIUSTE: «LORO INFRANGONO LA LEGGE. NOI VINCIAMO IN TRIBUNALE.» Oggi, Italia, Germania, Malta, Frontex e l’UE stanno violando il diritto di asilo, attaccando i diritti umani e il diritto internazionale. Il Mar Mediterraneo è diventato un luogo di illegalità, non perché manchino le leggi, ma perché gli Stati europei scelgono deliberatamente di non rispettarle. Le organizzazioni civili di soccorso, insieme a partner internazionali e sulla base di rapporti delle Nazioni Unite, stanno portando questi crimini davanti alla giustizia – dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ai tribunali italiani – dove emerge un giudizio coerente: le attuali politiche europee sono illegali. In dieci anni di violazioni, numerosi procedimenti hanno evidenziato l’illiceità delle pratiche dell’Unione nel Mediterraneo, confermando al contrario la legittimità delle operazioni di salvataggio delle ONG. 2009Il tribunale di Agrigento assolve l’equipaggio della nave Cap Anamur riconoscendo la scriminante dell’adempimento al dovere di soccorrere.2017La nave Iuventa viene sequestrata per presunto favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (articolo 12, TUI); dopo sette anni di processo il tribunale dichiara l’insussistenza del fatto.2018La nave Open Arms è sequestrata con l’accusa di associazione a delinquere e favoreggiamento. Il provvedimento viene annullato vista la sussistenza dello stato di necessità.2019La capitana della nave See Watch 3, Carola Rakete, è accusata ex. articolo 12, TUI. Caso concluso con il riconoscimento della giustificazione per adempimento al dovere derivante dagli obblighi internazionali.2019La nave Vos Thalassa sbarca 66 naufraghi che si erano opposti al respingimento in Libia. Nel 2021, la Corte Suprema Italiana riconosce il loro diritto di resistere ai respingimenti illegali, per legittima difesa.2021Alla nave Vos Triton viene imposto di riportare in Libia 170 persone soccorse. Il Tribunale di Roma 19 giudica l’Italia responsabile di sequestro e ordina il rilascio di un visto umanitario alla vittima che ha avviato il procedimento. Questi casi mostrano che chi contesta le politiche euro-libiche diventa bersaglio della repressione, mentre le decisioni giudiziarie evidenziano l’illegalità delle azioni della guardia costiera libica e degli Stati europei. Le sentenze confermano che un’imbarcazione non idonea è già in distress e, per il diritto del mare, chi è in distress, prima di essere un migrante, è un naufrago che deve essere soccorso; lo stato di necessità è inoltre aggravato dalla condizione di fuga dalle torture libiche. «Gli Stati hanno trasformato il mare in un’arma contro gli esseri umani. Ma quando la nostra lotta collettiva per la libertà viene criminalizzata, la resistenza diventa un dovere. La Justice Fleet si schiera esattamente dove dobbiamo schierarci: contro un sistema che punisce la solidarietà e sancisce il razzismo». Carola Rakete – Ex deputata del Parlamento europeo Le organizzazioni civili portano sempre più spesso queste battaglie davanti ai giudici, riaffermando la supremazia del diritto sulle logiche politiche. Nonostante ciò, la maggior parte dei respingimenti e delle violenze rimane nell’ombra, impunita e scoperta da tutele giuridiche, rendendo estremamente importante e necessaria l’azione della Justice Fleet. Il controllo statale sui flussi migratori deve cedere di fronte all’obbligo di soccorrere in sicurezza fino a un “porto sicuro”, per questo l’Alleanza assume una posizione chiara: stop alla collaborazione con i criminali. «Chiediamo la fine immediata di ogni cooperazione tra l’UE e gli attori libici violenti, la fine immediata del sostegno ai crimini contro l’umanità in mare e sulla terraferma. 20» RIBELLIONE È RIVOLUZIONE CONTRO LE INGIUSTIZIE: «CONTINUEREMO I SOCCORSI MA CI SCHIERIAMO CONTRO LA COMPLICITÀ» In risposta alle violenze dei libici nel Mediterraneo e alla complicità degli Stati europei, le organizzazioni di ricerca e salvataggio hanno intrapreso quindi un passo storico: «Non riconosceremo mai gli attori libici come autorità competenti di ricerca e salvataggio e non obbediremo alla coercizione dello Stato italiano 21» La sospensione delle comunicazioni operative con il JRCC, imposta dalla Legge 15/23 (“Decreto Piantedosi”), può comportare multe, detenzioni e la confisca dei mezzi delle ONG, evidenziando ancora una volta la distanza tra le leggi italiane, frutto di un decennio di politiche schierate, e il diritto internazionale. Le organizzazioni della Justice Fleet Alliance scelgono la via della disobbedienza giusta opponendosi al riconoscimento delle pattuglie libiche e ai probabili futuri ordini di collaborazione che ne deriverebbero. Sono pronte a sostenere le conseguenze delle loro decisioni morali e legali; in un Mediterraneo trasformato in confine armato, non comunicare con chi rapisce, tortura e uccide non è un atto di sfida ma di umanità: disobbedire significa oggi riaffermare il diritto del mare. «Rischieremo la detenzione o addirittura la confisca delle nostre navi e dei nostri aerei in Italia, cosa che combatteremo davanti a tutti i tribunali 22» A fianco della Justice Fleet Alliance, si schierano altre realtà che contrastano i crimini commessi in mare e nei lager libici. JLProject 23, nato nel 2019 e impegnato da anni in indagini forensi pro bono per intentare azioni legali contro gli Stati responsabili dei respingimenti illegali in Libia, ha dichiarato il suo sostegno all’Alleanza: «Noi stiamo indagando molto sui crimini della cosiddetta guardia costiera libica e siamo molto soddisfatte della decisione di non comunicare con quei criminali.» Sara Fratini – JL Project La Justice Fleet Alliance si inserisce quindi in una più ampia cornice di resistenza civile che, unendo giurisprudenza e attivismo, difende la centralità della persona e i principi del diritto internazionale. In un contesto in cui la legalità è piegata alle politiche di controllo, riaffermare che il soccorso non è un reato ma un dovere rappresenta un vero atto di giustizia: in mare come a terra, il diritto non si negozia, la migrazione non va criminalizzata e chi salva vite non può essere condannato. > «Quando gli ordini rendono i soccorritori potenzialmente complici di crimini > contro l’umanità, il rifiuto è l’unica risposta legittima. 24» 1. Dichiarazione rilasciata il 5 novembre 2025 durante la prima conferenza stampa congiunta della Justice Fleet Alliance, tenutasi a Bruxelles. Dichiarazioni rilasciate in lingua inglese e tradotte dall’autrice ↩︎ 2. Ibidem ↩︎ 3. Le Ong del soccorso in mare si uniscono nella Justice Fleet e interrompono le comunicazioni con Tripoli, Sea Watch (5 novembre 2025) ↩︎ 4. Court confirms: Detention Unlawful, SOS Humanity (12 giugno 2025) ↩︎ 5. LaOcean Viking è stata la prima nave umanitaria a ricevere un fermo amministrativo in base al Decreto Piantedosi, accusata di aver ignorato l’ordine libico di «lasciare il soccorso». L’equipaggio ha completato l’operazione, ritenendo l’ordine imposto ex lege al comandante illegittimo e contrario agli obblighi italiani sui diritti fondamentali. La giudice di Brindisi, annullando il fermo, ha dichiarato: « Imporre il fermo a una nave umanitaria va a compromettere il diritto di essere soccorsi ». Ha inoltre rimesso gli atti alla Corte costituzionale, rilevando una presunta violazione dell’art. 25, comma 2, a causa dei «presupposti inadeguati per l’applicazione del fermo», non riconoscendo la «delega in bianco» all’autorità libica ↩︎ 6. Dichiarazione rilasciata il 5 novembre 2025 durante la prima conferenza stampa congiunta della Justice Fleet Alliance, tenutasi a Bruxelles ↩︎ 7. Ibidem ↩︎ 8. «Migrants and refugees suffer unimaginable horrors during their transit through and stay in Libya» – Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights (OHCHR) / United Nations Support Mission in Libya (UNSMIL). Report on the human-rights situation of migrants and refugees in Libya (20 dicembre 2018) ↩︎ 9. La Brigata Tariq Ben Zeyad (TBZ) è un’organizzazione delle forze armate libiche, guidata da Saddam Haftar, figlio del comandante dell’Esercito nazionale libico (LNA) Khalifa Haftar. Attiva dal 2016, comprendente ex soldati gheddafisti, è accusata di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui uccisioni, torture, sequestri, stupri e sfollamenti forzati. Amnesty International documenta un “catalogo degli orrori” commessi dal 2016, tra cui l’espulsione collettiva di migliaia di rifugiati e migranti da Sabha e dal sud della Libia. ↩︎ 10. Bruxelles, dichiarazione del 5 novembre 2025 durante la prima conferenza stampa congiunta della Justice Fleet Alliance ↩︎ 11. HRC – Press Conference: Fact-Finding Mission on Libya | UN Web TV; Report of the Independent Fact-Finding Mission on Libya – Human Rights Council (marzo 2023) ↩︎ 12. CEDU – Art.1: Obbligo di rispettare i diritti dell’uomo; Art.2: Diritto alla vita; Art.3: Proibizione della tortura; Art.4: Proibizione della schiavitù e del lavoro forzato; Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza ↩︎ 13. Bruxelles, dichiarazione del 5 novembre 2025 durante la prima conferenza stampa congiunta della Justice Fleet Alliance ↩︎ 14. Sul sito justice-fleet.org la lista delle violenze della cosiddetta guardia costiera libica documentate dalla società civile negli ultimi 10 anni e in continuo aggiornamento: 60 Libyan attacks at sea as EU rolls out red carpet for militias, new data shows • Sea-Watch e.V. ↩︎ 15. Bruxelles, dichiarazione del 5 novembre 2025 durante la prima conferenza stampa congiunta della Justice Fleet Alliance ↩︎ 16. Grazie a una clausola all’articolo 8 che prevede il rinnovo automatico triennale salvo richiesta scritta di revoca con preavviso di tre mesi di una delle parti ↩︎ 17. Qui il testo dell’esposto ↩︎ 18. Bruxelles, dichiarazione del 5 novembre 2025 durante la prima conferenza stampa congiunta della Justice Fleet Alliance ↩︎ 19. Caso Vos Triton: Italia ritenuta responsabile per il respingimento delegato verso la Libia. A. arriva in sicurezza a Roma, Asgi (marzo 2025) ↩︎ 20. Bruxelles, dichiarazione del 5 novembre 2025 durante la prima conferenza stampa congiunta della Justice Fleet Alliance ↩︎ 21. Ibidem ↩︎ 22. Ibidem ↩︎ 23. Qui il sito di JLProject ↩︎ 24. Bruxelles, dichiarazione del 5 novembre 2025 durante la prima conferenza stampa congiunta della Justice Fleet Alliance ↩︎
Nel Mediterraneo si continua a morire mentre chi salva vite è criminalizzato
Nel Mediterraneo si continua a morire, mentre chi salva vite continua a essere criminalizzato. È uno stesso tragico e odioso copione che ormai si ripete da tempo. Da una parte sempre più persone muoiono nell’indifferenza e nel silenzio istituzionale, dall’altra il governo italiano, nonostante le sentenze dei tribunali, non mostra segni di ravvedimento e prosegue nella sua opera di attacco alle organizzazioni di soccorso: l’ultima è Mediterranea Saving Humans, colpita da un nuovo blocco amministrativo dopo l’ultimo salvataggio e approdo a Porto Empedocle. Notizie/In mare «ABBIAMO AGITO PER SALVARE VITE»: SBARCATE LE 92 PERSONE SOCCORSE DA MEDITERRANEA Lo Stato minaccia nuove sanzioni per aver scelto Porto Empedocle Redazione 5 Novembre 2025 L’associazione, che rivendica giustamente di aver salvato la vita a 92 persone, ha replicato alle accuse del ministro dell’Interno Piantedosi, che sui social ha diffuso false informazioni sull’operato della nave.  «Siamo indignati dalle menzogne del ministro: da parte nostra c’è sempre stata la massima collaborazione con la Sanità marittima», ha dichiarato MSH. A bordo, ha raccontato il medico Gabriele Risica, «abbiamo accolto la medica dell’USMAF, le abbiamo messo a disposizione l’ospedale di bordo e visitato insieme le persone soccorse». Anche la capomissione Sheila Melosu ha denunciato «la vergogna di un ministro che parla di sicurezza delle persone mentre è indagato per aver protetto un torturatore di migranti, e che voleva far viaggiare fino a Livorno persone malate e bisognose di cure immediate». Un episodio che si inserisce nella costante strategia di criminalizzazione delle ONG, con la nave Mediterranea che subisce un altro fermo illegittimo nel porto siciliano per violazione del Decreto Piantedosi, mentre le autorità italiane continuano a ostacolare chi salva vite in mare e a finanziare chi le intercetta e le imprigiona. Il 2 novembre, infatti, si è rinnovato automaticamente il Memorandum tra Italia e Libia, che resterà in vigore fino al 2026, assicurando nuovi fondi e mezzi alla guardia costiera libica, la stessa che cattura e riporta nei lager migliaia di persone e che attacca le navi della flotta civile. Approfondimenti/In mare MEMORANDUM ITALIA-LIBIA, UN PATTO DI VIOLAZIONI E ABUSI Il 2 novembre l’accordo sarà rinnovato. Refugees in Libya: manifestiamo a Roma il 18 ottobre Carlotta Zaccarelli 29 Settembre 2025 Nel frattempo, solo negli ultimi 30 giorni, cinque naufragi hanno aggiornato il conto delle vittime e dei dispersi lungo le rotte del Mediterraneo. Il 18 ottobre, Sea-Watch ha denunciato un naufragio ignorato dalle autorità: un morto accertato e 22 persone disperse, mentre le navi umanitarie venivano tenute lontane dall’area dei soccorsi. “Abbiamo chiesto aiuto per ore, nessuno è intervenuto”, ha riferito l’Ong, accusando Roma e La Valletta di omissione di soccorso. Il 22 ottobre, al largo di Salakta, in Tunisia, almeno 40 persone migranti, tra cui diversi neonati, sono morte dopo che la loro imbarcazione si è capovolta. Solo 30 persone sono state salvate. Le vittime provenivano da Paesi dell’Africa subsahariana e cercavano di raggiungere l’Italia da una delle rotte più brevi e più letali del Mediterraneo. Diverse inchieste hanno evidenziato come la Tunisia sia un Paese non sicuro nel garantire i diritti fondamentali e come le persone nere siano sottoposte a violenze e tratta gestite dalle stesse autorità. Rapporti e dossier/In mare STATE TRAFFICKING SVELA LA TRATTA DI MIGRANTI TRA TUNISIA E LIBIA Un rapporto con 30 testimonianze da un confine esterno della UE Redazione 1 Marzo 2025 Il 24 ottobre, 14 persone migranti sono annegate nel mar Egeo, al largo di Bodrum, in Turchia. Solo due si sono salvate, tra cui un giovane afgano che ha nuotato per sei ore fino a riva. Tre giorni dopo, il 27 ottobre, quattro migranti sono morti al largo della Grecia, dopo l’affondamento di un gommone. E il 28 ottobre un altro barcone è affondato davanti a Surman, in Libia: 18 morti e oltre 60 sopravvissuti, secondo la Croce Rossa libica e l’OIM. Le vittime erano in gran parte uomini sudanesi, bengalesi e pakistani in fuga da guerre e povertà. Cinque naufragi in dieci giorni: più di 70 morti accertati, decine di dispersi e un mare che continua a inghiottire vite nell’indifferenza politica. Secondo l’ultimo aggiornamento dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), al 25 ottobre 2025 sono 472 le persone morte e 479 quelle disperse sulla rotta del Mediterraneo centrale dall’inizio dell’anno. A questo bollettino di guerra vanno aggiunti gli ultimi naufragi: nel 2025 si può stimare che circa 550 persone abbiano perso la vita, senza contare i naufragi cosiddetti “fantasma” che non finiscono nei conteggi ufficiali. Nello stesso periodo, 22.509 persone migranti – tra cui 832 minori – sono state intercettate e riportate in Libia, dove finiscono spesso in centri di detenzione, subendo torture, violenze sessuali, estorsioni, privazione di cibo e cure. Nemmeno l’arresto del generale libico Al Masri cambia la sostanza: la Libia rimane un Paese diviso e controllato da milizie e trafficanti che si arricchiscono sulla pelle dei migranti. Nonostante la situazione sia nota e denunciata da anni, resta un alleato politico e operativo dell’Europa, che continua a esternalizzare il controllo delle proprie frontiere. Come ha rivelato un’inchiesta di Irpimedia, la Commissione europea e Frontex hanno ospitato a metà ottobre una delegazione tecnica libica, con esponenti provenienti sia dall’est sia dall’ovest del Paese: per la prima volta anche funzionari della Cirenaica, sotto il controllo del generale Khalifa Haftar, sono stati invitati presso la sede di Frontex a Varsavia e a Bruxelles. Il Mediterraneo centrale continua a essere la rotta migratoria più mortale del mondo. Ma ogni nuovo naufragio rimane a sé stante, invisibilizzato e velocemente archiviato come un fatto di cronaca. I media fanno sempre più fatica ad andare oltre la notizia flash e a costruire una narrazione diversa, e così queste stragi scompaiono in fretta. Dove sono le storie che danno dignità ai numeri, ai volti, alle famiglie, ai sogni interrotti, al dolore? Cosa serve perché si trovi finalmente una risposta a quella domanda che da anni viene ripetuta e mai ascoltata: quante morti ancora serviranno prima che l’Europa apra vie legali e sicure di accesso, affinché si affronti il tema politico e sociale della libertà di movimento? Finché la risposta sarà il rinnovo di accordi come quello con la Libia e il blocco delle navi umanitarie, il Mediterraneo continuerà a essere una tomba. E l’Italia, insieme all’Unione Europea, continuerà a chiamare “cooperazione” ciò che è in realtà complicità nelle stragi. Fonti: InfoMigrants, OIM, UNHCR, ANSA, Reuters, Sea-Watch, Mediterranea Saving Humans, Mosaique FM. Interviste/In mare «RIPRISTINARE LA LIBERTÀ DI MOVIMENTO È L’UNICA RISPOSTA POLITICA ALLE MIGRAZIONI» Intervista a Gabriele Del Grande, giornalista e documentarista Laura Pauletto 3 Novembre 2025
«Abbiamo agito per salvare vite»: sbarcate le 92 persone soccorse da Mediterranea
Dopo tre giorni di navigazione e di tensione crescente, la nave Mediterranea è finalmente entrata nel porto di Porto Empedocle alle 16:30 di martedì 4 novembre. Tre ore più tardi, alle 19:35, si sono concluse le operazioni di sbarco di tutte le 92 persone soccorse nel Mediterraneo centrale, tra cui 31 minori non accompagnati. La decisione di entrare nel porto siciliano è arrivata dopo ore di attesa e di richieste rimaste senza risposta. «Il Comandante ha dichiarato lo stato di necessità a tutela dell’incolumità, della salute e della sicurezza di tutte le persone a bordo», ha spiegato in una nota stampa l’equipaggio. A bordo la situazione era ormai insostenibile: «Le persone superstiti, già fortemente provate fisicamente e psicologicamente, temevano che ulteriori ritardi comportassero una deportazione in Libia e avevano cominciato a minacciare gesti disperati di autolesionismo». Mentre le operazioni di sbarco erano in corso, intorno alle 18, la Capitaneria di Porto ha notificato a Mediterranea una diffida formale, intimando alla nave di «riprendere la navigazione senza ritardo verso il porto di Livorno, successivamente allo sbarco dei soli minori». L’organizzazione parla di un atteggiamento assurdo: «Da una parte è stato riconosciuto che le condizioni di vulnerabilità fisiche e mentali non avrebbero consentito ai naufraghi di affrontare altri tre giorni di navigazione verso Livorno. Dall’altra, le Autorità minacciano ingiustificate ritorsioni contro la nave, colpevole solo di aver adempiuto al proprio dovere». Ph: Mediterranea IL PORTO LONTANO E LA SCELTA DI APPRODARE IN SICILIA Le autorità italiane avevano assegnato a Mediterranea come “porto sicuro” quello di Livorno, distante oltre 630 miglia nautiche – quasi 1.200 chilometri – dalla zona in cui erano stati effettuati i salvataggi. Una decisione definita dall’equipaggio «incomprensibile e pericolosa». «Un viaggio del genere – aveva denunciato l’organizzazione già la mattina del 4 novembre – non può essere affrontato in sicurezza da persone che hanno sofferto lunghi periodi di detenzione in Libia, terribili violenze e che sono pesantemente traumatizzate. Sono state tre giorni alla deriva senza acqua né cibo». La situazione era ulteriormente aggravata dal maltempo nel Canale di Sicilia: «Venti di Maestrale oltre i venti nodi e onde superiori ai due metri. Non si poteva navigare verso Nord in sicurezza». Per questo Mediterranea aveva chiesto lo sbarco urgente a Porto Empedocle, segnalando in particolare le condizioni dei minori alla Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni di Palermo. La stessa Procura, insieme al Centro internazionale per la salute in mare (CIRM), aveva chiesto di disporre lo sbarco immediato almeno dei minori. Ma dal Viminale non era arrivata nessuna risposta. «Se davvero le Autorità intendessero farci proseguire con le restanti 61 persone – aveva avvertito Mediterranea – il Governo violerebbe tutte le regole del diritto marittimo e umanitario, calpestando i diritti fondamentali alla vita, alla cura e alla dignità. Nessuna propaganda viene prima degli esseri umani». > 🔵 65 VITE SOCCORSE OGGI DA #MEDITERRANEA. > > La nostra nave ha soccorso in mattinata 37 persone che si trovavano su una > prima imbarcazione in vetroresina sovraffollata a rischio naufragio in acque > internazionali in zona SAR sotto il controllo libico. > > 1/3 pic.twitter.com/ufp2yaaxpG > > — Mediterranea Saving Humans (@RescueMed) November 2, 2025 La missione di soccorso di questi giorni era la seconda della nave Mediterranea dopo la sospensione della sua detenzione amministrativa, imposta dal famigerato decreto Piantedosi. Il 29 ottobre il Tribunale di Trapani aveva infatti accolto il ricorso dell’organizzazione, permettendo alla nave di tornare in mare. Notizie/In mare LA NAVE MEDITERRANEA LIBERA, SMENTITO IL DECRETO PIANTEDOSI Il Tribunale di Trapani dà ragione a Mediterranea: «Il diritto più forte della propaganda» 8 Ottobre 2025 «Ripartiamo – aveva dichiarato la presidente Laura Marmorale – grazie alla decisione del Tribunale che ha riconosciuto la piena legittimità delle nostre scelte quando, per garantire cure adeguate alle persone soccorse, rifiutammo un porto lontano. Abbiamo agito per salvare vite, non per sfidare nessuno». «Solo nelle ultime due settimane – aveva aggiunto la capomissione Sheila Melosu – si sono verificati quattro naufragi con decine di vittime. È una situazione drammatica, inaccettabile». Ph: Mediterranea > «Abbiamo fatto il nostro dovere» Con lo sbarco a Porto Empedocle si conclude una missione difficile e l’organizzazione teme ripercussioni amministrative o penali. «Le Autorità minacciano sanzioni contro la nave, ma abbiamo solo adempiuto al nostro dovere nel rispetto del diritto marittimo e umanitario». Per Mediterranea, «la vera violazione è quella di chi impone porti lontani a persone fragili, contro ogni principio di sicurezza e umanità. Tutte le persone soccorse avevano bisogno di cure a terra subito. Lo abbiamo detto e lo abbiamo fatto». Con la nuova missione, questa volta fortunatamente portata a termine senza attacchi da parte della Guardia costiera libica, Mediterranea ha voluto denunciare che «i governi europei continuano a rafforzare la collaborazione con milizie e regimi criminali responsabili di violenze inaudite. Non possiamo accettare che il Mediterraneo sia trasformato in una zona di guerra contro l’umanità».
SOS Humanity vince la sua prima causa contro il fermo illegale di navi di soccorso
SOS Humanity ha ottenuto un’altra vittoria in tribunale contro il governo italiano. La Corte di Appello di Catanzaro ha confermato la sentenza del Tribunale di Crotone del giugno 2024 1, stabilendo che il fermo della nave di soccorso Humanity 1 nel marzo 2024 era illegale e ribadendo che la cosiddetta Guardia Costiera libica non può essere considerata un soggetto legittimo di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Comunicati stampa e appelli/In mare LA DETENZIONE DI HUMANITY 1 ERA ILLEGALE! Lo stabilisce la sentenza del Tribunale civile di Crotone 28 Giugno 2024 Il provvedimento conferma che SOS Humanity ha agito in piena conformità con il diritto internazionale durante le operazioni di soccorso, intervenendo a tutela di 77 persone in pericolo. Il governo italiano, rappresentato dai ministeri dell’Interno, dei Trasporti e delle Finanze, ha deciso di non impugnare la decisione, mentre l’organizzazione chiede ora un risarcimento per i danni finanziari subiti a causa del sequestro della nave. Il caso è del marzo 2024, quando la Humanity 1 fu fermata dopo aver soccorso persone migranti nel Mediterraneo centrale. Il fermo era motivato dall’accusa di aver ignorato le istruzioni della cosiddetta Guardia Costiera libica e di aver messo in pericolo vite umane. Il Tribunale civile di Crotone aveva allora ordinato l’immediato rilascio della nave, chiarendo che la Libia non può essere considerata un luogo sicuro per rifugiati e migranti e che le istruzioni delle autorità libiche non sono vincolanti. La Corte di Appello di Catanzaro ha confermato tale orientamento, ribadendo che la cosiddetta Guardia Costiera libica, finanziata ed equipaggiata dall’Unione Europea per intercettare le persone e riportarle in Libia, non può essere considerata un attore legittimo nel soccorso in mare. Secondo le Nazioni Unite, le pratiche della Guardia Costiera libica configurano abusi che possono costituire crimini contro l’umanità 2. Questa nuova sentenza arriva dopo che a inizio ottobre, anche il tribunale di Trapani aveva accolto il ricorso presentato da Mediterranea contro le sanzioni imposte dal Ministero dell’Interno che avevano previsto sessanta giorni di fermo amministrativo e una multa da 10mila euro. Notizie/In mare LA NAVE MEDITERRANEA LIBERA, SMENTITO IL DECRETO PIANTEDOSI Il Tribunale di Trapani dà ragione a Mediterranea: «Il diritto più forte della propaganda» 8 Ottobre 2025 La vittoria di Sos Humanity rappresenta così un altro caso simbolo nella battaglia legale contro i fermi illegali delle ONG nel Mediterraneo previsti dal decreto Piantedosi e nella difesa del diritto internazionale marittimo a tutela delle vite in mare. Corte di Appello di Catanzaro, sentenza n. 603 del 17 giugno 2025 1. Leggi la sentenza ↩︎ 2. Libya: Urgent action needed to remedy deteriorating human rights situation, UN Fact-Finding Mission warns in final report (marzo 2023) ↩︎
Le forze libiche sparano sulle persone migranti in fuga nel Mediterraneo centrale
Nel primo pomeriggio del 12 ottobre 2025, il telefono SOS di Alarm Phone riceve una chiamata dal Mediterraneo centrale: un gruppo di circa 150 persone è in fuga dalla Libia su un peschereccio, alcuni gridano che stanno sparando su di loro 1 . «Ci stanno colpendo con proiettili veri», ripetono agli operatori, «sono una milizia libica!». Alle 13:30, il segnale GPS colloca l’imbarcazione in acque internazionali, nella zona di ricerca e soccorso (SAR) di Malta. Nonostante le segnalazioni inviate immediatamente alle autorità italiane e maltesi, nessuno interviene. Per più di dodici ore, nessuna nave della Guardia costiera, nessun elicottero, nessun mezzo ufficiale si avvicina al peschereccio sotto attacco. Secondo il resoconto pubblicato da Alarm Phone, le milizie libiche non si limitano a sparare. Rimangono accanto alla barca per ore, la speronano più volte, rischiando di capovolgerla. «Ci stanno uccidendo, per favore aiutateci», gridano le persone al telefono. Nel tardo pomeriggio, un nuovo messaggio: «Una persona è morta, tre sono ferite». Le autorità continuano a tacere. Solo la mattina del 13 ottobre si scopre che il gruppo è stato infine soccorso dalla Guardia costiera italiana e poi sbarcato a Pozzallo. Ma il bilancio è pesante: una persona è in coma, con un proiettile conficcato nel cranio, e almeno altre due sono gravemente ferite. «Siamo sconvolti da un altro crimine di frontiera nel Mediterraneo centrale», denuncia Alarm Phone. «Le milizie libiche, finanziate e legittimate dall’Unione europea, agiscono con aggressività e impunità in mare, mentre le autorità italiane e maltesi violano sistematicamente le leggi del mare». Poche ore dopo lo sbarco, arriva anche la denuncia di Mediterranea Saving Humans. L’organizzazione, presente al porto di Pozzallo, parla di un intervento tardivo e di una catena di responsabilità precisa. «Una persona, con una pallottola nel cranio, è in coma e sta lottando tra la vita e la morte», scrive Mediterranea in un comunicato. «Altre due risultano gravemente ferite, al volto e a una mano, vittime dei colpi sparati da una motovedetta libica». Il gruppo di 140 persone è arrivato in Sicilia dopo 24 ore di attesa, «inascoltati per un giorno intero», dice l’organizzazione. «Insieme ad Alarm Phone avevamo avvisato le autorità italiane fin dal pomeriggio di ieri (12 ottobre ndr.), ma solo oggi (13 ottobre ndr.), con ventiquattr’ore di ritardo dalla tragica sparatoria, sono partiti i soccorsi». «La persona ora in fin di vita poteva essere raggiunta subito da un elicottero maltese o italiano», aggiungono. «Se dovesse finire diversamente, di fronte alla scelta di omettere un necessario soccorso urgente, sappiamo di chi sono le responsabilità». Per Mediterranea, si tratta di un altro episodio in una guerra dichiarata contro i migranti: «Erano in 140 a bordo di un motopeschereccio e cercavano di sfuggire alla guerra contro i migranti in corso in Libia, finanziata dal governo italiano, da quello maltese e dalle istituzioni dell’Unione Europea». L’episodio rientra in un modello ormai consolidato. Le milizie e le forze libiche, sostenute economicamente e politicamente dall’Unione europea, agiscono come una vera e propria polizia di frontiera delegata. I loro compiti: intercettare le persone migranti prima che raggiungano le coste europee e togliere di mezzo i testimoni scomodi come le Ong del mare. «Con il sostegno dell’Ue e dei suoi Stati membri», scrive Alarm Phone, «le milizie libiche si sono trasformate in una brutale forza di frontiera che opera con impunità». Mediterranea punta il dito contro la cooperazione istituzionale: «Il diritto internazionale è carta straccia per i governi che permettono e coprono tutto questo», si legge nel comunicato. «Alla vigilia del rinnovo del famigerato Memorandum Italia-Libia, chiediamo al Parlamento italiano di istruire finalmente un dibattito serio sulla necessità di non rinnovare un patto scellerato con degli assassini». IL MEMORANDUM CHE NON SI FERMA Il centrosinistra in Parlamento ha chiesto di fermare gli accordi con Tripoli, ma il Memorandum Italia-Libia, anche quest’anno, verrà rinnovato. Nonostante le continue denunce di attacchi e violenze da parte della Guardia costiera libica, grazie alle motovedette e all’addestramento fornito dall’Italia, il patto firmato nel 2017, quando al Viminale c’era Marco Minniti, continuerà a valere dal 2 novembre. Il termine ultimo per fermare il rinnovo automatico sarebbe stato proprio quel giorno, ma ieri – 15 ottobre – la Camera ha respinto le due mozioni delle opposizioni che chiedevano lo stop alla cooperazione con Tripoli. La mozione a prima firma Elly Schlein del PD, sottoscritta anche da Avs, Iv e Più Europa, proponeva di «non procedere a nuovi rinnovi automatici del Memorandum con la Libia, sospendendo immediatamente ogni forma di cooperazione tecnica, materiale e operativa che comporti il ritorno forzato di persone verso il territorio libico». Un testo simile, presentato dal Movimento 5 Stelle, chiedeva «l’interruzione del rinnovo automatico al fine di procedere alla sua revisione». Entrambe sono state bocciate. È invece passata, con 153 voti favorevoli, 112 contrari e 9 astensioni, la mozione della maggioranza che impegna il governo a «proseguire la strategia di contrasto ai trafficanti e di prevenzione delle partenze dalla Libia, fondata sul Memorandum del 2017». Mentre si conferma la linea della continuità, nel Mediterraneo centrale continuano gli spari e i respingimenti: non si tratta solo di effetti collaterali, ma di un vero e proprio sostegno del Parlamento. E’ qui che siedono i mandanti di queste violenze. 1. La cronologia degli avvenimenti è disponibile in questa ricostruzione di Alarm Phone del 13 ottobre: Stop the shootings at sea! ↩︎
La nave Mediterranea libera, smentito il decreto Piantedosi
Il Tribunale di Trapani ha accolto il ricorso presentato dal comandante e dall’armatore della nave Mediterranea contro le sanzioni imposte dal Ministero dell’Interno dopo l’operazione di soccorso del 21 agosto scorso. Il provvedimento del Viminale prevedeva sessanta giorni di fermo amministrativo e una multa da 10mila euro per aver disobbedito all’ordine di raggiungere il porto di Genova, scegliendo invece di fare rotta su Trapani per sbarcare dieci persone soccorse al largo della Libia. Notizie/In mare MEDITERRANEA “IN CATENE” PER DUE MESI E 10MILA EURO DI MULTA L’Ong: «Il provvedimento di Piantedosi è una vendetta abnorme e illegittima» Redazione 3 Settembre 2025 La giudice Federica Emanuela Lipari ha disposto la sospensione della detenzione della nave, definendo illegittima la sanzione «sotto il profilo della quantificazione», in attesa della decisione sul merito complessivo del caso. Nelle motivazioni, il Tribunale riconosce che il Ministero dell’Interno ha ignorato le richieste di riassegnazione di un porto sicuro «sempre motivate in ragione delle circostanze concrete», come evidenziato dalle avvocate Cristina Laura Cecchini e Lucia Gennari, legali dell’associazione. Particolarmente significativo il passaggio in cui la giudice riconosce la legittimità delle scelte dell’equipaggio, che avrebbe agito «a tutela delle persone tratte in salvo», tenendo conto «delle loro condizioni di vulnerabilità e di fragilità, sia sul piano fisico che psicologico». Secondo il Tribunale, la decisione di dirigersi verso Trapani nasce da «esclusivo spirito solidaristico», con l’obiettivo di «salvaguardare la vita e la salute in mare» come previsto dal diritto internazionale. Il giudice ha inoltre sottolineato la necessità di liberare al più presto la nave, perché il prolungamento del fermo «pregiudicherebbe gli obiettivi umanitari e solidaristici, particolarmente meritevoli di tutela poiché finalizzati alla salvaguardia della vita umana» perseguiti da Mediterranea. Da Mediterranea Saving Humans commentano la decisione come una vittoria della legalità sulle logiche punitive del governo. «Il ministro Piantedosi voleva una punizione esemplare per colpire la nostra nave, il soccorso civile e la solidarietà in mare», si legge nella nota diffusa. «Ma questa volta il diritto è più forte della propaganda governativa: la vita e la salute delle persone vengono per prime, e l’imposizione di un porto lontano si rivela per quello che è, una inutile e illegale crudeltà». La nave Mediterranea, conclude, «tornerà presto in missione in mare, a fare invece quello che è giusto fare: soccorrere».
Dodici anni dopo Lampedusa, nel Mediterraneo si continua a morire
Il 3 ottobre 2013 centinaia di persone persero la vita a poche miglia da Lampedusa. Dodici anni dopo, nel giorno di quell’anniversario, la cronaca restituisce l’ennesima strage: nel Mediterraneo centrale la violenza del confine continua a uccidere. L’equipaggio della nave Humanity 1 di SOS Humanity ha, infatti, soccorso 41 persone da un gommone sovraffollato alla deriva a sud-est dell’isola, nella zona di soccorso maltese. Ma i sopravvissuti hanno raccontato che almeno sette persone erano cadute in mare prima dell’arrivo della nave, mentre durante la notte altre due persone soccorse a bordo sono decedute. Secondo SOS Humanity, “diverse persone erano incoscienti quando sono state portate a bordo, molte riuscivano a malapena a stare in piedi o a camminare, e tutte erano disidratate, ipotermiche ed estremamente esauste”. L’operazione di soccorso è avvenuta in condizioni proibitive, con onde fino a tre metri e forti venti. Una madre e un bambino hanno riportato gravi ustioni causate dalla miscela di benzina e acqua salata presente nel gommone. I tentativi di evacuazione d’emergenza in elicottero sono falliti a causa delle condizioni meteorologiche; solo al terzo tentativo la Guardia Costiera italiana è riuscita a trasferire cinque persone direttamente al largo di Lampedusa. Nonostante la situazione medica critica a bordo e le cattive condizioni del mare, le autorità italiane avevano inizialmente assegnato Bari come porto di sbarco, a oltre mille chilometri di distanza dalla zona del soccorso. Dopo ripetute richieste dell’equipaggio, il porto è stato cambiato in Porto Empedocle, in Sicilia. SOS Humanity ha definito l’assegnazione di un porto lontano “non solo una violazione del diritto marittimo, ma anche disumana”. Queste morti seguono una lunga sequela di naufragi e omissioni di soccorso, nonché una serie di azioni violente della guardia costieri libica nei confronti delle Ong del mare. Il 13 agosto 2025, a 14 miglia da Lampedusa, un’imbarcazione si è capovolta provocando almeno 23 morti e oltre 15 dispersi. Nonostante la presenza della Guardia Costiera e di Frontex, i soccorsi non sono arrivati in tempo, mentre la gestione dello sbarco dei sopravvissuti è stata problematica, evidenziando ancora una volta la piena responsabilità delle politiche europee nelle morti del Mediterraneo centrale. Pochi giorni dopo, il 22 agosto, a Lampedusa sono arrivati i corpi di tre bambine di 9, 11 e 17 anni, morte in mare insieme alla madre sopravvissuta, oggi rinchiusa nell’hotspot. Rapporti e dossier/In mare LAMPEDUSA, 13 AGOSTO 2025: LA STRAGE CHE NON DEVE DIVENTARE OBLIO Nel rapporto di Mem.Med la denuncia: omissioni istituzionali, corpi dispersi e lutti negati Redazione 1 Ottobre 2025 Dodici anni dopo il naufragio di Lampedusa, una media di tre persone al giorno continuano a morire sulla rotta centrale del Mediterraneo, denuncia SOS Humanity. Non esiste un programma europeo di ricerca e soccorso coordinato, nonostante il diritto internazionale obblighi gli Stati a intervenire. SOS Humanity e le altre organizzazioni della flotta civile restano gli unici attori capaci di garantire un presidio in mare, cercando di colmare un vuoto che continua a costare troppe vite. Le stragi nel Mediterraneo hanno responsabilità precise, e la storia ne chiederà conto. Continueranno finché non saranno garantiti canali legali e sicuri per l’ingresso in Europa, finché il diritto alla libertà di circolazione non sarà riconosciuto a tutte e tutti. Il Mar Mediterraneo potrebbe tornare a essere un luogo di incontro e di scambio, ma è stato trasformato in una frontiera liquida, una fossa comune, un teatro di violenza contro le persone in movimento. E nessuno dovrebbe accettare la “normalizzazione della morte“.