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f.Lotta: occupare il Mediterraneo per la libertà di movimento
IL CONTESTO E LE RAGIONI Dal 14 al 16 settembre 2025, ci sarà un  appuntamento in mare per partecipare ad un’azione il cui nome contiene il programma:  f.Lotta, un gioco di parole tra “flotta di mare” e “lotta“ ad “indicare la natura politica e intransigente dell’iniziativa”. Notizie F.LOTTA: UN’OCCUPAZIONE MARITTIMA CONTRO IL SISTEMA DEI CONFINI Dal 10 al 20 settembre a sud di Lampedusa 28 Luglio 2025 Un movimento indipendente, orizzontale e auto-organizzato che prevede una massiccia occupazione del Mediterraneo Centrale, a sud di Lampedusa per rivendicare la libertà di movimento per ogni cittadino del mondo. Questa “critical mass” del mare, nata dal basso, vuole contrastare il modello di controllo e esternalizzazione – razzista, capitalista e neocoloniale – proposto dalla Fortezza Europa. Per tre giorni, in un “spazio” sempre attraversato da soggetti diversi -persone che cercano di passare da una sponda all’altra, cosiddette guardie costiere libiche e tunisine, droni, aerei e navi di Frontex, flotte civili che operano il salvataggio e barche di pescatori – una quindicina di barche si danno appuntamento. Da Lampedusa al cuore del central Med, con l’idea di abitare questa frontiera liquida. Il messaggio generale di f.Lotta è la libertà di movimento, ma, accanto ad esso, si declinano 15 campagne politiche specifiche 1 di cui ogni barca sarà portavoce e testimone. A questa f.Lotta partecipa anche Tanimar, il cui progetto nasce nel 2022: da marinaie e marinai, da ricercatrici e ricercatori che hanno deciso di entrare in relazione con il Mediterraneo, provando a realizzare un’etnografia del mare e nel mare, a cominciare dallo stretto di Sicilia, per continuare con la Tunisia (2023) e con l’Egeo (2025).  Fotografia tratta da Linosa. Isolitudine. Equipaggio della Tanimar (2022) Durante le precedenti navigazioni, hanno tentato di disegnare un percorso che si intreccia con le rotte delle persone in movimento: per ricomporre memorie e analisi, per rendere più visibile la polifonia di voci e la pluralità di visioni sul futuro del Mediterraneo. Per questa nuova navigazione, saliranno a bordo persone e organizzazioni diverse, che, pur con linguaggio e strumenti diversi, hanno un comune fondamentale denominatore: considerano le migrazioni come fenomeni che attraversano confini – geografici, culturali, giuridici – e implicano memorie, diritti e immaginari condivisi. A bordo una fotografa e una filmaker, due professori di sociologia dei processi culturali e migrazioni a Genova e Parma, un mediatore culturale per The Routes Journal, volontari attivisti legati a OnBorders e Mem.Med. E poi il Progetto Melting Pot che ha una storia comune con Tanimar e ne ha già amplificato la voce che questa volta affida a me questa il racconto. Avremo un equipaggio di terra, con gli studenti delle radio universitarie, ma soprattutto coi testimoni del rapporto RRx che aspettano, nascosti negli uliveti e in qualche hangar tra Tunisia e Libia, di poter partire.  In questa prospettiva Tanimar ha deciso di aderire alla campagna lanciata da f.Lotta, organizzazione dal basso che promuove “un’occupazione massiccia del Mediterraneo Centrale, con un’iniziativa orizzontale, dal basso, spontanea”. Le ragioni di questa scelta sono evidenti per l’equipaggio che sale a bordo durante l’iniziativa, dal 14 al 16 settembre. Innanzitutto, perché il discorso politico e mediatico in Italia descrive il Mediterraneo come una barriera naturale tra mondi distanti, una frontiera liquida da controllare, setacciare, luogo in cui si scontrano le politiche europee di sorveglianza e repressione della mobilità e la volontà delle persone migranti di continuare a muoversi. Ma il Central Med non è solo questo. Questo mare, il cui confine che separa non si vede all’orizzonte ma su radar a bordo di barche, ha una storia che racconta di incontri, attraversamenti, scambi. PH: Roberta Derosas Nelle sue acque fatte di incroci si intrecciano persone migranti, pescatori, marinai, guardacoste, funzionari europei e statali, operatori umanitari e solidali, ciascuno portatore di interessi e prospettive diverse. Politiche migratorie europee basate sulla militarizzazione delle frontiere marittime e terrestri hanno contribuito, come conseguenza diretta, a trasformare il Mediterraneo in un confine mortale. Da una sponda all’altra, viene criminalizzato chi offre sostegno e solidarietà a chi è in transito, ma anche chi migra nel tentativo di raggiungere l’Europa: l’assenza di vie legali di accesso all’Europa lascia alle persone che partono l’unica possibilità di intraprendere viaggi rischiosi, su imbarcazioni di fortuna. Eppure, lo spazio mediterraneo continua a generare relazioni e pratiche che superano le dicotomie sociali, intrecciando storie e vissuti in un tessuto complesso. Luogo di incontro e campo di battaglia, spazio cruciale della contemporaneità in cui si riproducono processi di razzializzazione legati alla governance migratoria, il Mediterraneo è ugualmente orizzonte di desiderio e possibilità. Viverlo, percorrerlo, osservarlo è l’unico modo per comprenderlo davvero. Questo Mediterraneo, che si tenta di chiudere con blocchi navali, fermi amministrativi alle navi dei soccorritori civili, respingimenti operati dalle cd. guardie costiere libiche e tunisine e accordi bilaterali che lasciano dietro di sé una scia di sangue e morti, resta comunque aperto e poroso: continua ad essere attraversato con ogni mezzo da chi esercita il proprio diritto alla fuga. Ci sono molti modi di “stare” nel  Mediterraneo: pattugliare, controllare, soccorrere, osservare, accogliere, respingere, affondare, tessere, raccontare sono tutte azioni possibili. Tanimar, ancora una volta, vuole essere testimone civile di ciò che altrove viene nascosto o ridotto a spettacolo.  Per l’azione proposta da f.lotta, con il suo invito a “occupare in modo massiccio il Mediterraneo”, l’equipaggio di Tanimar sarà composto da cittadini provenienti da Africa ed Europa, filmaker, artist3, lavoratori sociali, rifugiat3,  ricercatrici e ricercatori, navigatrici e navigatori: al di là del background, delle funzioni e delle professioni, li unisce credere alle leggi del mare, all’obbligo di rendere soccorso, al doveroso diritto  di ogni singolo essere umano di poter scegliere dove vivere e di non essere respinto, violato, mercificato, soggiogato, torturato. Accanto al suo equipaggio di mare, ne avrà anche a terra: in Tunisia e in Libia, grazie al contributo dei corrispondenti del Giornale delle Rotte (un progetto di comunicazione alternativa sul tema della mobilità impedita animato da persone in viaggio o bloccate in attesa di partire) e ai testimoni del rapporto RR[X]  sul fenomeno della  tratta di Stato, ma anche grazie agli studenti delle radio universitarie di Parma e Bologna e ai volontari che agiscono in altre frontiere, di terra, che arrivano dopo l’approdo a Lampedusa.  Intrecciando attivismo, arte, nautica ed etnografia, Tanimar e i suoi equipaggi vogliono continuare a raccontare l’incontro con il Mediterraneo attraverso parole e immagini, suoni e visioni, in una tessitura che sia insieme politica e poetica. Il desiderio e la volontà dell’equipaggio sono di amplificare le voci di chi è privato del diritto al movimento sulla sponda sud del Mediterraneo, partendo dalle loro stesse parole, per non sostituirsi ad esse, ma condividere con chi vive l’attraversamento, il diritto al racconto, costruendo narrazioni che devono e possono essere incrocio di sguardi, parole, fili tessuti, patchwork a colori che formano una sola coperta. Ed è anche per questo che a bordo sarà portata quella di Yousuf, che è nata e continua a crescere per creare un legame tra le storie dei singoli, primo passo verso la nascita di una comunità. Partecipare a f.Lotta nella navigazione dello spazio mediterraneo significa anche diventare portabandiera e testimone di una specifica campagna nel contesto globale della lotta per la libertà di movimento. La Tanimar Anche Tanimar ne porta una: Stop State trafficking of human beings between Tunisia and Libya. Fermare la tratta di stato di esseri umani tra Tunisia e Libia.  Come rivelato dal Rapporto 2 di RR[X] (un gruppo di ricerca  internazionale che ha deciso di anonimizzarsi sotto uno pseudonimo collettivo per proteggere le proprie fonti), presentato al Parlamento europeo il 25 febbraio, il progressivo inasprimento delle politiche di frontiera dell’UE ha generato una conseguenza inquietante: la vendita e lo riduzione in schiavitù delle persone migranti subsahariani ad opera degli apparati militari e di polizia tunisini. Rapporti e dossier STATE TRAFFICKING SVELA LA TRATTA DI MIGRANTI TRA TUNISIA E LIBIA Un rapporto con 30 testimonianze da un confine esterno della UE Redazione 1 Marzo 2025 Il rapporto Tratta di Stato, accompagnato da un accurato sommario delle violazioni dei diritti umani nel corso delle operazioni di espulsione e deportazione curato da ASGI, intende riaprire il dibattito sulla responsabilità dell’Unione e dei singoli stati nell’esposizione alla morte e alla schiavitù delle persone in viaggio, così come sullo statuto di “paese sicuro” assegnato alla Tunisia, al suo ruolo di partner e beneficiario economico nella gestione della frontiera esterna della UE.  L’equipaggio di Tanimar è potuto entrare in relazione con i testimoni del rapporto RR[X]  sulla Tratta di Stato fra Tunisia e Libia e ha deciso di contribuire ad amplificare le loro storie e le loro richieste.   I testimoni di RR[X] dopo la presentazione del rapporto al parlamento europeo, e in Italia al Senato e alla Camera dei deputati, hanno presentato numerose interrogazioni parlamentari  senza ricevere risposta alcuna dalle istituzioni a cui si sono rivolti. La richiesta principale di questo collettivo che l’equipaggio di Tanimar vuole veicolare è l’apertura di un corridoio legale-umanitario affinché le voci delle vittime della tratta di Stato possano arrivare di fronte a un tribunale europeo. Durante i giorni dell’imbarco, testimoni e corrispondenti ancora in Libia e Tunisia racconteranno non solo la loro esperienza di vendita e deportazione alla frontiera, ma anche la loro lotta per il diritto alla mobilità e per avere giustizia e riparazione.   Attraverso diversi canali – la pagina Instagram del Giornale delle Rotte, una rete di radio universitarie studentesche, il progetto Melting Pot – l’equipaggio di Tanimar intende così contribuire ad amplificare la consapevolezza su un fenomeno recente e ancora poco conosciuto.  Nonostante la retorica europea della lotta ai trafficanti, le politiche di esternalizzazione della frontiera hanno generato un effetto paradossale: alla frontiera tunisino-libica, il trafficante di esseri umani indossa ora un’uniforme. In questo mare che è insieme luogo di transito, crocevia di esistenze, spazio di azione e di resistenza, gli equipaggi di Tanimar navigheranno ascoltando, osservando, raccogliendo, raccontando. Portare a bordo la coperta di Yousuf, amplificare la voce dei testimoni della Tratta di Stato, intrecciare saperi e pratiche dal mare e dalla terra, significa parlare di un altro Mediterraneo: aperto, solidale, plurale, fondato non sul possesso o sul controllo, ma sull’incontro, sulla cura e sulla responsabilità collettiva e condivisa. 1. Tutte le informazioni sulle campagne ↩︎ 2. Consulta il sito del rapporto ↩︎
Piccoli Schiavi Invisibili 2025, il nuovo rapporto di Save The Children
Nel nuovo dossier di Save The Children, il 38% delle vittime di tratta è un minore: cresce lo sfruttamento, alimentato anche dalle nuove tecnologie È un mondo iperconnesso, il nostro. Social media, gaming online, app di messaggistica, piattaforme di live streaming: lì dove passiamo la maggior parte del nostro tempo, oggi si sviluppano nuove forme di sfruttamento, che colpiscono soprattutto chi ha meno strumenti di difesa. Sono bambini e adolescenti, sempre più esposti offline e online. Aumentano, infatti, i casi di sfruttamento e tratta “tradizionali”, ma anche quelli virtuali, al centro del nuovo rapporto “Piccoli Schiavi Invisibili 2025 – La digitalizzazione della tratta: Come il digitale sta trasformando i fenomeni di tratta e sfruttamento dei minori” 1, pubblicato da Save The Children nella sua quindicesima edizione. Nel 2021, secondo i dati della ONG, 49,6 milioni di persone vivevano in condizioni di schiavitù moderna: una su quattro (24,8%) era minorenne. In gran parte vittime di matrimoni forzati (9 milioni di bambine e bambini), ma anche di sfruttamento sessuale e lavorativo, o impiegati in attività illecite come lo spaccio. Altri dati ci restituiscono un quadro complesso, e sicuramente sottostimato, data la difficoltà di raccogliere dati puntuali: secondo il Global Report on Trafficking in Persons 2024 2, redatto dallo United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) – l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di contrasto al crimine organizzato, al traffico di esseri umani, alla corruzione e al narcotraffico – le vittime di tratta identificate nel 2022 sono state 74 mila, in aumento del 25% rispetto al periodo pre Covid. Il 38% di loro, più di uno su tre, è un minore. Lo sfruttamento sessuale colpisce soprattutto le bambine (60%), mentre tra i casi di lavoro forzato il 45% riguarda i ragazzi e il 21% ragazze. Tre i fattori che hanno contribuito all’aumento delle vittime: «una maggiore incidenza delle ragazze tra le vittime trafficate a fini di sfruttamento sessuale», «un aumento dei ragazzi vittime di tratta per lavoro forzato», specialmente in Europa e Nord America, e «una forte crescita delle vittime minorenni in Africa Sub-Sahariana», racconta il dossier di Save The Children. Numeri e tipologie di sfruttamento cambiano in base al luogo in cui avvengono: più di 3 vittime su 5 in America Centrale e nei Caraibi sono minorenni, spesso legati a contesti di criminalità organizzata, e i bambini sono destinati principalmente al traffico di sostanze e ad altre attività criminali forzate. In Africa Sub-Sahariana e nel Nord Africa il 61% delle vittime di tratta identificate ha meno di 18 anni, sfruttati in agricoltura, estrazione mineraria, pesca e lavoro domestico. Nel Sud-est asiatico cresce il fenomeno del turismo sessuale minorile, nel Sahel rimane costante l’accattonaggio. I contesti di conflitto rappresentano le aree più a rischio. Oltre un bambino su sei oggi vive in zone di crisi: è il dato più alto dalla fine della seconda guerra mondiale. Alle brutalità della guerra, si sommano i casi di reclutamento da parte dei gruppi armati, le violenze sessuali e i matrimoni forzati. Nel 2024 i casi documentati sono stati 7.400 – dato fortemente sottostimato – soprattutto in Repubblica Democratica del Congo, Nigeria, Somalia, Siria e Myanmar. Per le bambine, il fenomeno dei matrimoni forzati o precoci cresce nelle aree colpite da guerre e crisi umanitarie, dove le famiglie spinte dalla povertà e dall’insicurezza, vedono nel matrimonio precoce una forma di protezione dalle violenze sessuali, dalla fame o da altre minacce. L’UNICEF stima che nel mondo circa 640 milioni di ragazze si siano sposate prima dei 18 anni. Al vertice della classifica c’è l’Asia del Sud (45% dei matrimoni avvenuto prima della maggiore età), seguita da Africa Sub-sahariana (20%), Asia dell’Est e Pacifico (15%).  TRATTA E SFRUTTAMENTO: LA SITUAZIONE IN EUROPA E ITALIA Il fenomeno ha una forte rilevanza anche in Europa, dove nel 2023 sono state identificate 1.358 vittime minorenni, pari al 12,6% del totale. In Italia, i numeri ufficiali restano contenuti – 82 minori identificati nel 2023 su 2.051 vittime totali – ma Save the Children avverte: è solo la punta dell’iceberg. I minori stranieri non accompagnati (MSNA), coloro cioè che arrivano in Europa senza familiari al seguito, sono tra i più esposti, soprattutto nelle fasi successive all’arrivo, quando spesso si allontanano dalle comunità per raggiungere le frontiere interne, con l’intenzione di proseguire il viaggio verso altri paesi europei. Secondo i dati di Lost in Europe 3, almeno 51.433 MSNA sono scomparsi dopo essere arrivati in Paesi europei. L’Italia è in cima alla classifica, con 22.899 casi. Il rischio è che molti di questi minori, privi di tutela e assistenza, possano diventare bersaglio delle reti criminali, costretti a entrare nei circuiti illegali dello spaccio, o dedicati allo sfruttamento sessuale o lavorativo. I dati del sistema SIRIT indicano che nel 2024 il 4,8% delle valutazioni antitratta ha riguardato minori (137 casi) 4, e nel primo semestre del 2025 la percentuale è salita al 5,2% (61 minori).  Fonte: Osservatorio Interventi Tratta, Relazione annuale 2024 Oltre alle persone di nazionalità tunisina e nigeriana, che si confermano in numero maggiore, sono in aumento i minori provenienti da Bangladesh, Costa d’Avorio e Gambia, con le regioni di maggiore emersione localizzate in Sicilia, Liguria ed Emilia-Romagna. Le fasce d’età più colpite sono quelle tra i 16 e i 17 anni, ma non mancano casi di minori più piccoli. Le forme di sfruttamento più diffuse tra i minori in Europa sono lo sfruttamento sessuale (70% dei casi), il lavoro forzato (13%) e l’accattonaggio o le attività criminali forzate (17%), come furti, borseggio o trasporto di sostanze. In Italia, oltre alle situazioni di sfruttamento sessuale e lavorativo, il rapporto segnala la presenza di minori coinvolti in contesti informali e domestici o in circuiti criminali invisibili, dove il riconoscimento della vittima è spesso assente. A fronte di questo scenario, il dossier sottolinea le lacune nei sistemi di identificazione precoce, protezione effettiva e presa in carico duratura, soprattutto nelle zone di frontiera e nei contesti ad alta vulnerabilità. NUOVE FORME DI SFRUTTAMENTO: DIGITALE E NUOVE TECNOLOGIE Fonte: Save The Children «Tutti possono diventare potenziali vittime di tratta, questo è molto vero nel contesto digitale». Alessia Vedano, funzionaria OSCE, descrive così i rischi connessi alle nuove tecnologie, che hanno abbattuto oggi molte delle barriere linguistiche e territoriali che in alcuni casi ostacolavano, o contenevano, il fenomeno della tratta di esseri umani. L’e-trafficking, quel fenomeno, cioè, che «include tutte le forme di tratta di esseri umani che si avvalgono delle tecnologie sia per il reclutamento, l’adescamento e il controllo delle vittime, sia per la gestione logistica, il pagamento e la distribuzione dei profitti», ha oggi raggiunto livelli sempre più preoccupanti. Quasi tutte le forme di sfruttamento sessuale minorile oggi presentano una componente online. La maggior parte degli abusi infatti comincia online e poi sfocia in incontri fisici, o rimane relegato alla sfera virtuale, tramite live streaming o produzione di materiale su richiesta via webcam. Tra le pratiche più diffuse ci sono il grooming, la tecnica dei lover boys, la sextortion, il live streaming degli abusi e l’adescamento tramite social, chat e piattaforme di gaming. Il primo consiste nell’inscenare affetto, supporto o comprensione sfruttando le fragilità emotive dei e delle minori, attraverso un rapporto manipolativo più veloce di quanto si possa pensare: secondo il Global Threat Assessment 2023 di WeProtect Global Alliance 5, infatti, in media ci vogliono 45 minuti per instaurare una relazione ad alto rischio. In alcuni casi, bastano 20 secondi. C’è poi il fenomeno dei lover boys: relazioni sentimentali fittizie costruite online con lo scopo, ancora una volta, di manipolare le vittime. «Il fenomeno è centrale nella nuova stagione della tratta minorile in Europa», commenta Silvia Maria Tăbuşcă, «e colpisce in particolare le minori tra i 12 e i 14 anni, età in cui emergono i primi sentimenti romantici […] e il rischio di manipolazione è elevato». Sextortion e live streaming sono due facce della stessa medaglia: dopo aver condiviso contenuti intimi, le vittime minorenni vengono minacciate e ricattate di diffondere il materiale affinché continui lo sfruttamento, con richieste sempre più invasive. Infine la gamification: le attività illecite da compiere vengono descritte come sfide o esperimenti sociali, attraverso la promessa di premi e ricompense elargite dopo il superamento delle “prove”.  Sempre più spesso questi crimini avvengono su piattaforme poco sorvegliate o non regolamentate, in particolare nei Paesi dove le leggi sono assenti o inefficaci. Vengono utilizzati anche sistemi di pagamento in criptovaluta, che rendono quasi impossibile rintracciare gli autori degli abusi. Inoltre, cresce la produzione e diffusione di materiali pedopornografici (CSAM – Child Sexual Abuse Material), anche attraverso dirette video a pagamento, un fenomeno reso possibile dalla facilità di accesso ai dispositivi digitali da parte dei minori e dalla carenza di controlli efficaci sulle piattaforme.  «Nel mondo reale, le vittime vengono adescate tra persone con necessità economiche. Online, invece, il rischio cresce tra i minori che sono molto attivi sui social, che pubblicano tutto senza filtri e sono particolarmente esposti alla realtà virtuale», spiega Fabrizio Sarrica dell’UNODC. «I trafficanti vanno a studiare questi profili e iniziano l’adescamento». I PROGETTI DI COMUNITÀ E LE PROSPETTIVE FUTURE Fonte: Vie d’Uscita, Save The Children Continuano i progetti che da anni Save The Children ha messo in campo per cercare di contrastare il fenomeno e offrire percorsi di autonomia a bambini e adolescenti. Con Nuovi Percorsi, nato nel 2021 in sinergia con il Numero Verde Antitratta, l’ONG sostiene minori e madri sopravvissuti a tratta e sfruttamento, attraverso l’erogazione di “Doti di cura”: una presa in carico che si sviluppa in sostegno materiale, educativo, formativo o psico-sociale. I beneficiari del progetto sono stati fino ad oggi 1348: nei primi sei mesi del 2025 hanno ricevuto sostegno 139 persone, di cui 37 bambine, 39 bambini e 46 madri. Nel 2022, il progetto si è ampliato attraverso l’attivazione di uno sportello di ascolto e sostegno a Roma. Da allora, lo Sportello ha sostenuto 1596 persone. Il progetto Vie d’Uscita, attivo dal 2012 in sinergia con enti antitratta piemontesi, liguri, laziali e veneti, è rivolto a minori e neomaggiorenni, per supportarne l’identificazione e l’emersione, ma anche attraverso il sostegno alla presa in carico successiva affinché possa essere efficace per lo sviluppo di un’autonomia personale. Liberi dall’Invisibilità, invece, dal 2022 interviene nella zona agricola della Fascia Trasformata, in provincia di Ragusa. Attraverso il partenariato con l’Associazione “I tetti colorati” e la Caritas Diocesana della zona, il progetto ha coinvolto fino ad oggi 515 persone, di cui 296 minori e 219 adulti. Si organizzano laboratori artistici, supporto scolastico, accompagnamento alla genitorialità, orientamento sanitario, supporto alle iscrizioni scolastiche, orientamento legale-amministrativo. L’ultimo in ordine di attivazione, nell’aprile 2023, è stato il progetto transnazionale E.V.A. (Early identification and protection of victims of trafficking and exploitation in border areas). Attraverso il lavoro congiunto tra Italia, Francia e Spagna, lo scopo è quello di potenziare la pre-identificazione in frontiera di minori e donne adulte vittime di tratta, affinché la messa in protezione possa avvenire in una fase preliminare. Negli ultimi due anni sono state intercettate 995 potenziali vittime di tratta, di cui 416 solo in Italia. I progetti messi in campo sui territori da Save The Children, dagli enti anti tratta e da altre organizzazioni internazionali sono efficaci, ma non bastano. Il fenomeno si sta evolvendo, la digitalizzazione rende sempre più complessa l’intercettazione delle vittime. I dati raccolti mostrano chiaramente come milioni di bambini e adolescenti siano esposti a violenze e abusi sistematici, resi ancora più insidiosi dalla povertà, dai conflitti, dalle disuguaglianze di genere e, sempre più, dall’uso distorto delle tecnologie digitali. L’identificazione delle vittime, in particolare tra i minori stranieri non accompagnati, rimane ancora troppo frammentaria e tardiva, e le risposte istituzionali risultano spesso inefficaci, soprattutto nei contesti di accoglienza o lungo le frontiere. Per questo, per Save The Children è indispensabile rafforzare in modo deciso gli strumenti di prevenzione e protezione: non solo intervenendo nei singoli casi, ma agendo sulle cause profonde che alimentano la vulnerabilità minorile – come l’accesso negato all’istruzione, la violenza domestica, la discriminazione o l’instabilità economica. È altrettanto fondamentale migliorare i meccanismi di identificazione precoce delle vittime, investendo nella formazione di operatori sociali, sanitari, scolastici, prevedendo protocolli di collaborazione tra tutti gli enti coinvolti, a più livelli, e garantendo percorsi di tutela realmente accessibili, multidisciplinari e su misura per i minori. Un’attenzione particolare va infine riservata allo spazio digitale, sempre più centrale nei processi di adescamento e sfruttamento: servono regolamenti chiari e strumenti efficaci per il controllo delle piattaforme, dalla verifica dell’età alla moderazione dei contenuti, oltre a percorsi di educazione digitale rivolti sia ai giovani che agli adulti. Senza dimenticare il piano internazionale, dove un maggiore coordinamento tra Paesi di origine, transito e arrivo – unito a un’effettiva raccolta dati e a programmi di protezione transfrontaliera – potrebbe rappresentare un argine concreto alla dispersione e all’invisibilità delle vittime. Al centro di tutto, però, dovrebbero esserci proprio loro: i minori, da ascoltare, coinvolgere e rendere protagonisti delle scelte che li riguardano. 1. Consulta il rapporto ↩︎ 2. Consulta il rapporto ↩︎ 3. Consulta i dati ↩︎ 4. Leggi la relazione 2024 ↩︎ 5. Global Threat Assessment 2023 ↩︎
Donne migranti e lavoro: sfruttamento e abusi negli insediamenti informali
Questo testo analizza le condizioni di lavoro e di vita delle donne migranti impiegate nei settori agricolo e domestico, con particolare attenzione allo sfruttamento nei contesti informali e alle dinamiche di genere. Per molte donne migranti, l’impiego in agricoltura rappresenta, insieme al lavoro domestico e di cura, una delle poche opportunità di accesso al mondo del lavoro. Le braccianti lavorano nelle campagne in condizioni di sfruttamento e degrado: la giornata lavorativa dura generalmente dalle nove alle dieci ore; le lavoratrici passano la maggior parte del tempo piegate o in piedi, esposte a temperature elevate e a contatto diretto con fitofarmaci altamente aggressivi. A queste condizioni si sommano ulteriori elementi di discriminazione, come la differenza salariale di genere (“gender pay gap”). Secondo l’ultimo Rendiconto di Genere del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’INPS, molte lavoratrici risultano formalmente assunte con contratti a tempo determinato che registrano meno di 50 giornate lavorative annue, nonostante l’effettivo impiego sia ben superiore. Questo escamotage le esclude dall’accesso a misure di welfare fondamentali come sussidi di disoccupazione e maternità. La mancanza di reti familiari e sociali di supporto rende la loro condizione ancora più vulnerabile. Le difficili condizioni lavorative si intrecciano spesso con situazioni abitative precarie: sovraffollamento, isolamento, e dipendenza dal datore di lavoro – soprattutto nei casi in cui l’alloggio è fornito da quest’ultimo – creano un contesto favorevole ad abusi e violenze. In molti casi, il bisogno di ottenere o rinnovare un permesso di soggiorno vincolato al contratto di lavoro obbliga le donne a sopportare condizioni inaccettabili.  Allargando lo sguardo, anche il lavoro domestico e di cura è fortemente femminilizzato e rappresenta il settore con il più alto tasso di irregolarità. Le cause sono molteplici: difficoltà nei controlli, mancanza di servizi pubblici di assistenza, svalorizzazione del lavoro di cura, paura di denunciare per timore di perdere lavoro o permesso di soggiorno. Spesso i contratti sono informali e poco chiari, negoziati caso per caso, senza tutele né prospettive. Situazioni di particolare vulnerabilità si verificano nei casi di co-residenza con il datore di lavoro, sfociando in alcuni casi in vere e proprie situazioni di servitù domestica. In entrambi i settori, agricolo e domestico, le donne migranti vivono un intreccio di discriminazioni legate al genere, alla nazionalità, allo status socio-economico e giuridico, che le espone a esclusione sociale e a frequenti violazioni dei diritti umani. Come sottolinea la ricercatrice Letizia Palumbo dell’Università di Venezia, questo multiplo livello di sfruttamento non può essere ridotto a fatto episodico ma va analizzato nella “natura sistemica che lo caratterizza, in un quadro socio-economico segnato da profonde disuguaglianze, dalla perdurante eredità patriarcale e da politiche migratorie sempre più restrittive e selettive 1”. La “vulnerabilità” delle lavoratrici migranti, è quindi determinata dall’intreccio di fattori personali, sociali, economici e culturali, in un contesto segnato da discriminazioni e disuguaglianze strutturali che si traduce nella mancanza di una reale possibilità di scelte alternative. Il termine vulnerabilità negli ultimi anni si è diffuso nel linguaggio politico e giuridico, spesso usato per indicare categorie di soggetti considerati ontologicamente vulnerabili, come donne, minori e disabili. Tuttavia, la vulnerabilità in questo ambito è solo e unicamente il risultato di fattori sociali che riducono o annullano la capacità di una persona di prevenire e/o reagire a un rischio, e dunque di sottrarsi a un vulnus, a un’offesa. È sempre legata alla posizione sociale e ai rapporti di potere. Nell’esperienza femminile, è proprio per la loro posizione subordinata nei rapporti di potere che le donne sono vulnerabili rispetto a molteplici rischi e violazioni dei loro diritti. PATRIARCATO E RETI DI RESISTENZA INTERNA La percezione, da parte delle donne migranti, di non avere altra scelta che sottomettersi allo sfruttamento lavorativo deve essere letta alla luce delle gerarchie patriarcali che regolano i rapporti sociali. In molti casi, le lavoratrici domestiche hanno lasciato il proprio paese per sostenere economicamente la famiglia d’origine: figli, genitori e, spesso, anche il marito. Questa centralità nel sostentamento familiare si traduce in una pressione psicologica fortissima, che spinge molte donne ad accettare condizioni di lavoro e di vita profondamente ingiuste pur di non interrompere il flusso di reddito verso casa 2. Nel lavoro agricolo, la situazione assume tratti differenti, ma altrettanto complessi: qui, molte donne scelgono questo impiego perché è l’unico che consente loro di vivere con i figli, seppur in condizioni abitative e sanitarie spesso drammatiche. Il bisogno di conciliare lavoro e maternità si scontra con un sistema che non prevede tutele, né alternative. L’aspetto più critico, come già evidenziato, è il doppio livello di sfruttamento a cui molte donne sono sottoposte: a quello lavorativo si aggiunge frequentemente l’abuso sessuale. Questa dinamica, lungi dall’essere eccezionale, è talmente diffusa da essere percepita come parte “normale” dell’esperienza migratoria e lavorativa femminile. Non sorprende, dunque, che alcune donne abbiano iniziato a organizzarsi per proteggere le più giovani, consapevoli che senza forme di tutela esse sarebbero esposte a violenze tali da compromettere perfino la loro “reputazione” e, con essa, le possibilità future di matrimonio. Nel libro “Amara Terra”, Amina, una lavoratrice di origine marocchina, racconta come molte donne siano pienamente consapevoli del rischio di essere ricattate o abusate sessualmente una volta giunte nei campi della Calabria. La raccolta delle cipolle, ad esempio, viene spesso associata all’idea di “disponibilità sessuale” da parte dei caporali, il che può compromettere in modo permanente la posizione sociale e matrimoniale delle giovani donne. Proprio per questo, le lavoratrici marocchine hanno elaborato strategie di mutuo supporto: organizzano le partenze in modo da tutelare le più vulnerabili, proteggendole da esperienze che le marchierebbero socialmente. Questo tipo di resistenza interna mostra come lo sfruttamento sia talmente sistemico da indurre le donne a ideare autonomamente pratiche di autodifesa collettiva. IL CASO DEL RAGUSANO Un esempio particolarmente emblematico di questa complessa rete di sfruttamento è rappresentato dalle lavoratrici rumene impiegate nelle serre della provincia di Ragusa. A partire dalla fine degli anni Sessanta, la produzione agricola della zona si è trasformata da stagionale a permanente, grazie all’introduzione estensiva delle coltivazioni in serra. Questa transizione ha portato con sé un progressivo reclutamento di manodopera migrante stanziale, spesso femminile. Nel tempo, si è così sviluppato un modello organizzativo sistemico in cui le aziende agricole non solo gestiscono il lavoro, ma anche l’alloggio delle lavoratrici e delle loro famiglie. Gli spazi abitativi forniti sono però, nella maggior parte dei casi, insediamenti informali ricavati da vecchi magazzini, garage o capannoni situati direttamente all’interno delle proprietà agricole. Isolati, lontani dai centri abitati e privi di servizi essenziali, questi luoghi diventano un terreno invisibile di subordinazione, che alimenta dinamiche di controllo, dipendenza e dominio – vere e proprie forme di neocolonialismo radicate nel territorio. Un tema centrale è rappresentato dalle  condizioni abitative delle lavoratrici e dei lavoratori migranti nel settore agro-alimentare:  tra ottobre 2021 e gennaio 2022, è stata condotta la prima indagine nazionale “InCas” sulle condizioni di vita dei migranti impiegati nel settore agro-alimentare, con particolare attenzione alla mappatura degli insediamenti informali 3. L’inchiesta ha coinvolto 3.851 Comuni italiani – pari al 48,7% del totale – e ha restituito un quadro allarmante dello sfruttamento lungo tutta la filiera agricola nazionale. Non si è trattato solo di un’analisi delle condizioni lavorative, ma anche di un’esplorazione approfondita dei contesti territoriali che, attivamente o per omissione, contribuiscono a mantenere e riprodurre situazioni di marginalizzazione e dominio, in una logica che richiama dinamiche neocoloniali. Le principali nazionalità che subiscono tali condizioni sono: rumena, marocchina, indiana, albanese, senegalese, pakistana e nigeriana. Secondo i dati raccolti, sono 38 i Comuni in cui è stata rilevata la presenza di migranti che vivono in insediamenti informali o spontanei: strutture non autorizzate, spesso definite “ghetti”, come nel caso emblematico di Borgo Mezzanone (Manfredonia) o del Ghetto di Rignano (San Severo). In totale, questi insediamenti accolgono oltre 10.000 persone, in condizioni di vita estremamente precarie. La gravità della situazione emerge con particolare evidenza dalla quasi totale assenza di servizi essenziali. In ben 32 insediamenti informali – pari al 34% del totale mappato – mancano completamente acqua potabile, energia elettrica, strade asfaltate e trasporti pubblici. Anche dove questi servizi sono presenti, si tratta comunque di una minoranza di casi: meno della metà degli insediamenti dispone di almeno uno dei servizi primari. Ancora più drammatica è la situazione sul piano socio-sanitario e lavorativo. L’assistenza socio-sanitaria, pur essendo il servizio più diffuso, è garantita solo nel 13,8% dei casi, mentre strumenti fondamentali come la formazione professionale, l’orientamento al lavoro e la rappresentanza sindacale sono pressoché assenti. Si tratta di un isolamento strutturale, che esclude un segmento di società non solo da tutele fondamentali, ma lo ostacola nel processo di emancipazione dallo sfruttamento. Particolarmente preoccupante è la presenza di nuclei familiari con minori: oltre un insediamento su cinque ospita bambini, e circa il 30% degli abitanti degli insediamenti informali è costituito da rifugiati o richiedenti asilo. In assenza di servizi educativi, sanitari e di sicurezza, si configura un quadro di esclusione permanente che compromette tanto il presente quanto il futuro di intere famiglie. La mancanza di illuminazione pubblica e di servizi igienici accentua la vulnerabilità, soprattutto per le donne, esponendole a rischi quotidiani di violenza e rendendo estremamente difficile cercare aiuto o denunciare abusi. In un contesto già segnato dallo sfruttamento lavorativo, la precarietà abitativa e l’assenza di diritti basilari diventano ostacoli strutturali all’emancipazione individuale e collettiva. L’indagine InCas restituisce così l’immagine di un sistema agricolo che non si limita a sfruttare il lavoro delle persone migranti, ma ne gestisce attivamente la segregazione e la marginalizzazione, negando loro l’accesso a qualsiasi forma di cittadinanza attiva. La mancanza di prospettive non è un effetto collaterale, ma il prodotto diretto di un modello economico e politico che alimenta, attraverso l’abbandono istituzionale, una forza lavoro sottomessa, silenziosa e ricattabile. COME STIMARE GLI ABUSI NEGLI INSEDIAMENTI INFORMALI? Stimare con precisione la diffusione degli abusi e dello sfruttamento nelle campagne italiane è estremamente complesso. La maggior parte delle lavoratrici non denuncia per paura di ritorsioni, perdita del lavoro o del permesso di soggiorno. Tuttavia, alcuni indicatori indiretti possono offrire uno spaccato della violenza sommersa. Uno di questi è il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza tra le donne migranti. Secondo i dati ISTAT relativi al triennio 2016–2018, in Puglia e in particolare nella provincia di Foggia, dove si concentrano i principali insediamenti informali, è stato registrato il numero più alto di aborti volontari tra donne rumene. Nel solo 2017, 119 su 324 interruzioni sono state eseguite a Foggia. Questi numeri non possono essere letti semplicemente come dati sanitari: sono segnali allarmanti di contesti lavorativi segnati da abusi e controllo sul corpo delle donne. A testimoniare questa realtà è la storia di T., una lavoratrice rumena che per nove anni ha subito un doppio sfruttamento, sessuale e lavorativo, da parte del suo datore di lavoro. Ogni estate, racconta Alessandra Sciurba nell’articolo “Libere di scegliere? L’aborto delle donne migranti in Italia, tra politiche migratorie, sfruttamento lavorativo e casi estremi di abusi e violenza“, T. tornava in Romania per sottoporsi ad aborto, spesso in modo clandestino e rischioso, utilizzando anche metodi estremi come l’acqua bollente. La sua vicenda non è un’eccezione, ma la manifestazione di un sistema che agisce nel silenzio. La prostituzione nei ghetti agricoli rappresenta un’altra espressione brutale dello sfruttamento. In diverse aree del sud Italia, in particolare in Puglia e Campania, molte donne – in particolare nigeriane – vengono avviate alla prostituzione già nei centri di accoglienza, per poi essere trasferite nei campi. La componente di genere aggiunge quindi un livello specifico e sistemico di violenza: non solo forza lavoro sfruttata, ma corpi su cui esercitare controllo e dominio sessuale.  Tra Foggia e Manfredonia, nel 2019, la testimonianza di un operatore umanitario al quotidiano Avvenire: “Qua c’è prostituzione in baracca, 10 euro a prestazione, e anche per strada, 30-40 euro. Vengono tanti italiani di notte per ‘consumare’. Anche ragazzi. Perfino per feste di laurea e compleanni. Altri italiani, sfruttatori legati a gruppi criminali, vengono e le portano via, per farle prostituire. Le ragazze comunque qui stanno poco, ci sono partenze per gli altri ghetti, anche fuori regione, e nuovi arrivi”. Insediamento informale a Rosarno (RC) – Ph: Intersos Molte lavoratrici vivono, anche con i loro bambini, in abitazioni informali. In questo scenario di totale dipendenza dal datore di lavoro, di invisibilità e isolamento, aggravati dalla carenza dei servizi, lo sfruttamento è spesso caratterizzato da ricatti e abusi sessuali. Spesso bambini e ragazzi assistono a queste dinamiche o diventano essi stessi strumenti di ricatto.  È il caso di Luana, una donna rumena che viveva e lavorava in una serra con i suoi due figli. Il datore di lavoro li accompagnava a scuola, ma in cambio la donna doveva cedere alle sue richieste sessuali per mantenere lavoro e alloggio, raccontano sempre Letizia Palumbo e Alessandra Sciurba in un articolo su Melting Pot, purtroppo ancora attuale. Quando l’uomo temette che i bambini potessero denunciare, smise di portarli a scuola. Luana rifiutò di continuare a subire abusi, ma il datore la minacciò di togliere ai bambini l’accesso all’acqua potabile. Solo allora, con l’aiuto del centro anti-tratta di Ragusa, Luana fuggì con i figli. Tuttavia, dopo qualche mese e senza alternative concrete, abbandonò il centro e tornò a lavorare in un’altra azienda agricola, probabilmente ancora in condizioni di sfruttamento. PERCHÉ LA DENUNCIA “TARDA” AD ARRIVARE? OSSERVAZIONI CONCLUSIVE E PROSPETTIVE FUTURE Quando vengono individuate situazioni di super-sfruttamento, ciò che le lavoratrici chiedono prima di tutto è un’alternativa lavorativa concreta. Troppo spesso, però, gli interventi repressivi si limitano all’avvio di procedimenti penali contro gli autori, senza prevedere supporti per aiutare le vittime a ricostruire un percorso di vita e migratorio, aumentando così la loro vulnerabilità. È quindi necessario orientare il processo penale verso una giustizia “utile” alle vittime, istituendo un sistema di presa in carico reale, che le indirizzi verso percorsi di protezione e assistenza adeguati. Tra i progetti si segnala “Navigare”, una rete nazionale antitratta che sostiene le vittime di sfruttamento, soprattutto nei settori agricolo e domestico. Attraverso sportelli mobili, assistenza legale e percorsi di inserimento socio-lavorativo, aiuta le donne migranti a uscire dalla vulnerabilità e a ricostruire la propria autonomia. Conoscenza dei fenomeni, esperienza e competenza nel settore sono fondamentali per ottenere dei risultati: la Cooperativa Sociale Dedalus, con sede a Napoli, capofila del progetto “Fuori Tratta” in Campania, rappresenta un modello esemplare di accoglienza nel supporto alle vittime di tratta e sfruttamento, sia lavorativo che sessuale. Attraverso unità mobili di strada, sportelli di primo contatto e centri d’ascolto, Dedalus ha raggiunto oltre 12.000 contatti, supportando quasi 800 persone con percorsi individualizzati di orientamento al lavoro, assistenza legale, sostegno psicologico, corsi di lingua e autonomia abitativa. Un intervento integrato, incluse attività di formazione per operatori e campagne di sensibilizzazione territoriali. Come già precedentemente affermato, lo sfruttamento delle donne migranti non è un’emergenza episodica, ma il risultato del razzismo istituzionale, di disuguaglianze strutturali, leggi restrittive e assenza di tutele. Per cambiare questo sistema serve un impegno concreto: politiche inclusive con fondi e progettualità, un aumento generale all’accesso ai diritti e sostegno a progetti virtuosi che offrano alternative concrete alla vulnerabilità e all’invisibilità. 1. Sfruttamento lavorativo e vulnerabilità in un’ottica di genere. Le condizioni di vita e di lavoro delle lavoratrici migranti nelle serre del Ragusano. Letizia Palumbo, Università Ca’ Foscari di Venezia  ↩︎ 2. Le donne migranti in agricoltura: sfruttamento, vulnerabilità, dignità e autonomia. Maria Grazia Giammarinaro e Letizia Palumbo ↩︎ 3. Tabelle e grafici sono ripresi dal rapporto ↩︎
Scuola di Alta Formazione per operatori e operatrici legali: aperte le iscrizioni
IL CORSO È ARTICOLATO SU 14 MODULI – 168 ORE – E FORNISCE COMPETENZE TEORICHE E PRATICHE APPROFONDITE PER AFFRONTARE LE SFIDE ATTUALI NEL CAMPO DELLA TUTELA DEI DIRITTI DELLE PERSONE MIGRANTI. Scarica la brochure informativa La scuola organizzata da ASGI e l’APS Spazi Circolari mira a formare la figura di operatori e operatrici legali nella tutela delle persone straniere che chiedono – o a cui è stata riconosciuta – una forma di protezione internazionale o speciale oppure che versano nella condizione di vittima di tratta o grave sfruttamento ovvero si trovano in Italia come minori stranieri non accompagnati. Si tratta di una figura in Italia sostanzialmente innovativa, che non ha ancora ottenuto un suo riconoscimento formale, ma che da più parti è considerata fondamentale nel settore in esame. Si tratta di una figura a cui viene richiesta una vasta gamma di competenze ed è per questo che il corso prevede diversi moduli interdisciplinari. La Scuola di alta formazione è destinata a formare 45 operatori e operatrici legali, prevalentemente scelte fra persone che abbiano già conseguito un diploma di laurea in giurisprudenza o in altra facoltà umanistica oppure la qualifica di mediatore o mediatrice culturale o interprete o in alternativa che possano dimostrare una comprovata esperienza in qualità di operatore nel campo della protezione internazionale o delle migrazioni. Il Comitato scientifico della scuola è composto da: Loredana Leo, Salvatore Fachile, Lucia Gennari, Giulia Crescini, Cristina Laura Cecchini, Federica Remiddi, Cristina Gasperin, Papia Aktar, Roberto Bertolino e Andrea Nasciuti. Responsabili scientifiche: Loredana Leo e Salvatore Fachile. Quando: da venerdì 24 ottobre 2025 a sabato 18 aprile 2026. La durata complessiva sarà dunque di 6 mesi circa e si articolerà in 14 moduli (28 incontri) ciascuna con inizio il venerdì alle 9.30 e fine il sabato alle 13.30. Le lezioni si svolgeranno nei seguenti fine settimana: 24-25 ottobre 2025; 7-8 novembre 2025; 21-22 novembre 2025; 5-6 dicembre 2025; 19-20 dicembre 2025; 9-10 gennaio 2026; 23-24 gennaio 2026; 6-7 febbraio 2026; 20-21 febbraio 2026; 6-7 marzo 2026; 20-21 marzo 2026, 27-28 marzo 2026; 10-11 aprile 2026; 17-18 aprile 2026. Dove: in presenza presso la Città dell’Altra Economia, quartiere Testaccio, Roma. Come: il corso prevede lezioni frontali e molte esercitazioni pratiche, alle materie giuridiche sono affiancati moduli relazionali e moduli di antropologia, con una lettura intersezionale, uniti a una prospettiva etno-psichiatrica e a uno sguardo attento alle questioni di genere, elementi essenziali per garantire la massima tutela alle e ai destinatari e destinatarie del supporto legale. Scarica il calendario con il programma dettagliato COSTI E MODALITÀ D’ISCRIZIONE Il costo per ciascuna corsista è di 1.300 euro, di cui 600 da versare al momento dell’iscrizione e 700 entro il 31 dicembre 2025. Per le socie e i soci Asgi e Spazi Circolari, in regola al momento del versamento con l’iscrizione annuale del 2025, il costo è di 1.150 euro. La data ultima per l’iscrizione è il 9 ottobre 2025. Le iscrizioni verranno chiuse in anticipo laddove dovesse essere raggiunto il numero massimo di partecipanti previsto. L’iscrizione avverrà sulla base dell’ordine cronologico iscrizione. Il corso non sarà avviato se non verrà raggiunto il numero minimo di 25 iscritti. Il calendario dettagliato sarà inviato agli iscritti entro il 9 ottobre 2025, sono già da ora certe le date in cui si svolgeranno le lezioni. La domanda di iscrizione dovrà effettuarsi tramite la compilazione del modulo online e attendere le istruzioni via mail per effettuare il pagamento e perfezionare così l’iscrizione. Modulo d’iscrizione online (clicca qui) Attenzione: la sola compilazione del modulo online non è sufficiente a perfezionare l’iscrizione. * Per informazioni contattare: formazione.roma@asgi.it