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Class action contro i ritardi delle Ambasciate italiane nel rilascio dei visti per motivi familiari
La class action è stata avviata attraverso una diffida collettiva sottoscritta da cittadine e cittadini con background migratorio o titolari di protezione internazionale e dalle associazioni ASGI, ARCI e Spazi Circolari. Con questo atto si è chiesto al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) di intervenire per ripristinare la regolarità delle procedure per il rilascio dei visti familiari, alla luce delle gravi criticità riscontrate: dalla difficoltà di prenotare un appuntamento fino al mancato rispetto del termine legale di 30 giorni per l’emissione del visto dopo il nullaosta al ricongiungimento familiare. Nonostante le reiterate richieste di incontro o di riscontro rivolte al MAECI, nessuna risposta è mai pervenuta. Persistendo dunque l’inerzia amministrativa già denunciata con la prima diffida del 4 ottobre 2024, è stato depositato al TAR Lazio il ricorso collettivo (n. r. g. 11893/2025), la cui prima udienza è fissata per il 27 gennaio 2026. Le cittadine e i cittadini con background migratorio – che hanno ottenuto il nullaosta al ricongiungimento familiare e sono ancora in attesa del visto – possono aderire alla class action tramite un legale di fiducia, entro il 5 gennaio 2026. Il progetto “Annick. Per il diritto all’unità familiare” – in collaborazione con l’APS Attiva Diritti di Roma – ha predisposto un modello di atto di intervento e offre consulenza ai legali che intendano assistere gratuitamente i propri assistiti nella partecipazione alla class action. Anche le associazioni che, per statuto e per attività, tutelano i diritti delle persone con background migratorio possono intervenire nel giudizio, sempre entro il 5 gennaio 2026. Scarica i modelli: 1) “MODELLO intervento class action ricongiungimenti mancata conclusione nei termini dopo aver formalizzato la richiesta di rilascio del visto” 2) “MODELLO intervento class action ricongiungimenti mancato accesso” * Per informazioni: annick@meltingpot.org (si prega di inserire nell’oggetto della email: “Adesione class action”) Notizie RIPARTE “ANNICK. PER IL DIRITTO ALL’UNITÀ FAMILIARE” Il progetto torna con nuove azioni di supporto, grazie al sostegno dell’Otto per Mille Valdese 2 Dicembre 2025
Uffici immigrazione – Direttiva per uniformare le procedure amministrative ed operative delle articolazioni territoriali
La circolare affronta in maniera organica il tema del funzionamento degli Uffici Immigrazione delle Questure, con l’obiettivo esplicito di uniformare le prassi amministrative e operative a livello nazionale. Fin dalle prime pagine si comprende che il Ministero intende intervenire su un sistema che presenta criticità diffuse, sia nella gestione ordinaria dei permessi di soggiorno sia nelle attività più delicate legate ai rimpatri, ai trattenimenti nei luoghi idonei e alla protezione internazionale. La Direzione Centrale sottolinea che negli ultimi anni il carico di lavoro è cresciuto in modo significativo, ma il problema non risiede soltanto nella quantità delle pratiche: ciò che emerge è un quadro caratterizzato da difformità territoriali, mancanza di coordinamento, ritardi consolidati e un utilizzo non efficiente delle risorse disponibili. La circolare richiama più volte l’esigenza di riportare ordine e coerenza nella gestione delle procedure. Per questo dedica ampio spazio all’organizzazione interna degli uffici, alla formazione del personale, alla programmazione degli orari di apertura e alla corretta pianificazione delle agende. In particolare, si richiama l’attenzione sul fatto che le prassi adottate in molte Questure – come la limitazione degli appuntamenti, la richiesta sistematica del passaporto per i respingimenti, l’inefficienza nelle fasi di fotosegnalamento o nella trasmissione dei dati – contribuiscono ad aggravare ritardi già rilevanti, compromettendo l’efficacia complessiva dell’azione amministrativa. Una parte importante del documento riguarda il rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno, settore nel quale la Direzione riconosce esplicitamente la presenza di ritardi frequenti e di una gestione irregolare delle tempistiche. Nel segmento dedicato alla protezione internazionale, la circolare insiste sulla necessità di garantire modalità di accesso effettive e organizzate, evitando prassi restrittive che riducono gli spazi di presentazione delle domande e generano immobilismo amministrativo. Nel complesso, la circolare è un richiamo forte alla responsabilità e alla riorganizzazione degli uffici territoriali. Pur riconoscendo le difficoltà oggettive, il Ministero chiede un cambio di passo, orientato alla razionalizzazione, alla trasparenza, alla continuità del servizio e alla capacità di gestire con professionalità e coerenza un settore altamente sensibile. Ne emerge il quadro di un’amministrazione consapevole delle proprie disfunzioni che richiede di introdurre azioni volte a correggerle attraverso una maggiore uniformità, un più rigoroso monitoraggio e una collaborazione più stretta tra centro e periferia.  Circolare del Ministero dell’Interno del 12 settembre 2024
Class action sulla protezione speciale: il Tar Marche condanna i gravi ritardi di Questura e Commissione
Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche si è espresso sulla class action di ASGI e Spazi Circolari 1 contro la violazione sistematica con ritardi di oltre i due anni nell’evasione delle domande di protezione speciale. La sentenza contiene alcuni elementi che meritano attenzione. Secondo l’Avv. Daniele Valeri, il TAR cambia approccio: invece di liquidare il ricorso come inammissibile – come era successo in passato con azioni simili – riconosce che si tratta davvero di una class action e non di un semplice caso di silenzio-inadempimento da parte dell’amministrazione. Chiarisce perciò anche un punto importante: non basta che l’amministrazione, a giudizio in corso, risolva le singole pratiche dei ricorrenti per chiudere la questione. Il problema è più ampio e riguarda tutti coloro che hanno presentato l’istanza di protezione speciale, non solo chi ha fatto ricorso. Viene poi ribadito il limite dei 180 giorni entro cui le procedure dovrebbero essere concluse. È un riferimento utile, che potrà essere richiamato anche in futuro per tutte le nuove domande presentate alle Questure. Infine, la parte più significativa della sentenza: il TAR riconosce apertamente che c’è una violazione sistematica e continua dei tempi previsti per rilasciare i permessi per protezione speciale. Non è un ritardo occasionale: è un problema strutturale. La stessa relazione dell’amministrazione evidenzia carenze organizzative che impediscono di recuperare il ritardo accumulato, e viene messa in luce anche la grave difficoltà operativa della Commissione territoriale competente. T.A.R. per le Marche, sentenza n. 932 del 21 novembre 2025 1. La class action è frutto di un lavoro collettivo di diversi legali delle associazioni, tra questi gli Avv.ti Daniele Valeri e Salvatore Fachile e le Avv.te Roberta Sforza e Giulia Crescini. ↩︎
La Corte di Cassazione conferma che il d.l. n. 20/2023 non ha abrogato la protezione complementare e non poteva farlo
AVV. NICOLA DATENA E AVV. GIULIA VICINI 1. IL D.L. N. 20/2023 E L’ULTIMA MODIFICA ALL’ART. 19 DEL T.U. SULL’IMMIGRAZIONE Il decreto-legge 20 marzo 2023, n. 20, convertito nella legge 18 maggio 2023, n. 50, ha soppresso il terzo e il quarto periodo del comma 1.1 dell’art. 19 del d.lgs. 286/1998, che – introdotti dal d.l. n. 130/2020 – prevedevano espressamente il divieto di allontanamento ed il diritto al rilascio di un titolo di soggiorno per “protezione speciale” nei casi in cui: “vi siano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, di cui all’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, tenuto conto della natura e dell’effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine”. Nonostante questa rimozione testuale, nel comma 1.1 dell’art. 19 è rimasto invariato il rinvio all’art. 5, comma 6, del medesimo T.U., il quale vieta il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno nei casi in cui “ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”. Sebbene il legislatore, con la riforma immediatamente successiva alla strage di Steccato di Cutro, abbia eliminato dall’art.19 del testo unico immigrazione l’esplicito riferimento al diritto al rispetto della vita privata e al diritto al rispetto della vita familiare, il rinvio all’art. 5 comma 6 del medesimo testo unico e, in ogni caso, la cogenza delle disposizione della Carta Costituzionale, della Carta Europea dei Diritti dell’uomo e delle altre convenzioni internazionali a cui ha aderito l’Italia , hanno fatto affermare a molti interpreti e giudici di merito che, nella sostanza, nulla era cambiato e nulla poteva cambiare. L’obiettivo alla base della modifica normativa è noto e oggetto di esplicite dichiarazioni della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che il 14 aprile 2023 ha riferito alla stampa: «Io mi do come obiettivo l’eliminazione della protezione speciale, perché si tratta di una protezione ulteriore rispetto a quello che accade nel resto d’Europa». Nonostante i rilievi di cui sopra circa l’effetto cogente delle norme costituzionali e sovranazionali, il dichiarato ed inequivocabile intento del legislatore di voler abrogare la protezione speciale “all’italiana” ha generato alcuni dubbi interpretativi circa la possibilità di rilasciare un titolo di soggiorno per protezione speciale a protezione del diritto della vita privata e familiare. Con l’intento di risolvere tali dubbi, il Tribunale di Venezia, in un procedimento di impugnazione di una decisione di diniego della protezione internazionale e della protezione speciale, ha sottoposto la questione alla Corte di Cassazione. 2. IL CASO CONCRETO E LE QUATTRO TESI INTERPRETATIVE INDIVIDUATE DAL TRIBUNALE DI VENEZIA NEL RINVIO PREGIUDIZIALE ALLA CORTE DI CASSAZIONE. Il rinvio pregiudiziale del Tribunale di Venezia nasce da un ricorso promosso da A.A., cittadino senegalese, avverso la decisione della Commissione territoriale di Verona – sezione di Padova, che aveva rigettato per manifesta infondatezza la sua domanda di protezione internazionale. Il ricorrente aveva invocato la conversione al cristianesimo come motivo di persecuzione, ma la Commissione ha ritenuto non credibile il racconto e, pertanto, ha rigettato l’istanza di protezione internazionale. Richiamando l’art. 19 d.lgs. 286/1998 nella sua nuova formulazione, la Commissione Territoriale aveva altresì ritenuto insussistenti i presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale protezione speciale. Giurisprudenza italiana LA “PROTEZIONE UMANITARIA” RESISTE AL DECRETO CUTRO Corte di Cassazione, sentenza n. 29593 del 10 novembre 2025 19 Novembre 2025 Nel giudizio dinanzi al Tribunale di Venezia, A.A. ha prodotto documentazione inerente alla sua stabile attività lavorativa, nonché attestati di formazione attestanti la sussistenza di un radicamento sul territorio nazionale e, invocando il rispetto del diritto alla vita privata e familiare, ha insistito per l’accertamento del diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale anche sulla base della nuova norma e in applicazione dell’art. 8 CEDU. Il Tribunale di Venezia, valutata l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento di una delle forma di protezione internazionale, accertato il radicamento sul territorio nazionale di A.A., rilevato che la giurisprudenza di merito nel corso degli ultimi mesi ha adottato decisioni diverse e divergenti in merito ai presupposti per il riconoscimento della protezione speciale, ha ritenuto di dover chiedere l’intervento interpretativo della Corte di Cassazione. Il Giudice veneto ha rilevato che, di fronte alla soppressione dei due periodi dell’art. 19, comma 1.1, sono emerse quattro diverse tesi ermeneutiche, passate in rassegna le quali il Tribunale di Venezia, ha posto alla Corte di Cassazione, il seguente quesito interpretativo. “Se, per effetto dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 20 del 2023 […] si debba ritenere che la tutela della vita privata e familiare dello straniero a) è esclusa dall’ambito della protezione complementare e non è più garantita dall’ordinamento; b) è assicurata […] secondo i presupposti e i limiti individuati dalla Convenzione europea […] conformemente all’interpretazione che di essa ha dato la Corte europea dei diritti dell’uomo; c) è garantita secondo l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità […] in particolare dalla sentenza della Corte di cassazione, a Sezioni Unite, n. 24413 del 2021; d) è assicurata dall’applicazione diretta dell’art. 10 Cost.” 3. LE ARGOMENTAZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte con la Sentenza in commento, pubblicata il 10 novembre 2025 in risposta alla sollecitazione del Tribunale di Venezia, riafferma i principi di diritto già emersi nella giurisprudenza di merito.e Invero, secondo la prima tesi interpretativa individuata dal Tribunale di Venezia, a seguito dell’abrogazione dei due specifici riferimenti contenuti nell’art. 19 d.lgs. 286/1998 la protezione della vita privata e familiare è stata esclusa dall’ordinamento. La Corte respinge questa tesi, ricordando che: “È ancora presente, nel tessuto dell’art. 19 del testo unico, pur dopo le modifiche del 2023, il riferimento agli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano quale limite ad ogni forma di allontanamento della persona straniera, attraverso il richiamo espresso all’art. 5, comma 6” (§ 4). Tra tali obblighi rientra senza dubbio la tutela del diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 8 Cedu, nonché l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e gli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost. Pertanto: “Deve, pertanto, escludersi che il decreto-legge n. 20 del 2023 abbia la forza e rivesta il significato di precludere l’applicazione di norme e principi di valore sovraordinato […] e quindi di limitare l’incondizionata osservanza, nel diritto interno, degli obblighi nascenti dall’art. 8 della Cedu” (§ 4). La seconda tesi che il Tribunale di Venezia ritrova nella recente giurisprudenza italiana afferma che la tutela dei diritti previsti e disciplinati dall’art. 8 Cedu sia oggi garantita solo secondo l’interpretazione e la giurisprudenza della Corte EDU e cioè con una distinzione rigida tra settled migrants e non-settled migrants. La Corte rigetta questa prospettazione “rigidamente alternativa”, affermando: “Il Collegio non ritiene condivisibile la prospettazione […] tra una tutela, asseritamente più ristretta, derivante dall’applicazione dei criteri giurisprudenziali elaborati dalla Corte di Strasburgo […] e una tutela secondo il diritto vivente nazionale” (§ 13). E ancora: “Il giudice deve cogliere, nel congiunto operare degli obblighi convenzionali e costituzionali e nell’osmosi tra gli stessi, […] un completamento e un arricchimento delle posizioni soggettive coinvolte in vista di una tutela più intensa nel singolo caso” (§ 13). La terza tesi chiede se la tutela “è garantita secondo l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità […] in particolare dalla sentenza […] n. 24413/2021”. La Corte conferma esplicitamente questa prospettiva: “Lasentenza delle Sezioni Unite n. 24413 del 2021, significativamente protesa alla elaborazione di principi di diritto ancorati alla Costituzione e al sistema Cedu, continua tuttora a orientare il giudice nell’interpretazione del complesso delle disposizioni che disciplinano la materia a seguito del decreto-legge n. 20 del 2023” (§ 15). La SU n. 24413/2021 ha definito la protezione complementare come un “catalogo aperto”, fondato su obblighi costituzionali e internazionali, e ha introdotto il metodo del “giudizio comparativo” tra la situazione in Italia e quella nel Paese d’origine. Elementi come contratti di lavoro a tempo determinato, frequenza scolastica, conoscenza della lingua, partecipazione a reti sociali e legami familiari – anche con partner non convivente – rimangono rilevanti. Infine, la quarta tesi chiede se la tutela “è assicurata dall’applicazione diretta dell’art. 10 Cost.”. La Corte accolta pienamente questa prospettiva, ricorda che: “La protezione complementare nel nostro ordinamento rappresenta il ‘necessario completamento del diritto d’asilo costituzionale’” (§ 7.2). L’art. 10, terzo comma, Cost. non si esaurisce nello status di rifugiato: esso comprende ogni forma di tutela necessaria a garantire la dignità della persona, anche attraverso un titolo di soggiorno corrispondente. 4. IL PRINCIPIO DI DIRITTO ENUNCIATO DALLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte conclude enunciando il seguente principio di diritto: “La rivisitazione, a opera del decreto-legge n. 20 del 2023, convertito nella legge n. 50 del 2023, dell’istituto della protezione complementare non ha determinato il venir meno della tutela della vita privata e familiare dello straniero che si trova in Italia, tanto più che il tessuto normativo continua a richiedere il rispetto degli obblighi costituzionali e convenzionali. Ne deriva che la protezione complementare può essere accordata in presenza di un radicamento del cittadino straniero sul territorio nazionale sufficientemente forte da far ritenere che un suo allontanamento, che non sia imposto da prevalenti ragioni di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, determini una violazione del suo diritto alla vita familiare o alla vita privata. Nessun rilievo ostativo assume il fatto che tale radicamento sia avvenuto nel tempo necessario ad esaminare le domande del cittadino straniero di accesso alle protezioni maggiori. La tutela della vita privata e familiare esige una valutazione di proporzionalità e di bilanciamento nel caso concreto, secondo i criteri elaborati dalla Corte Edu e dalla pronuncia a Sezioni Unite 9 settembre 2021, n. 24413, tenendo conto dei legami familiari sviluppati in Italia, della durata della presenza della persona sul territorio nazionale, delle relazioni sociali intessute, del grado di integrazione lavorativa realizzato e del legame con la comunità anche sotto il profilo del necessario rispetto delle sue regole” (§ 17). La sentenza n. 29593/2025 si colloca in un andamento ciclico che richiama i “corsi e ricorsi” storici di Giambattista Vico: ogniqualvolta il legislatore, in nome di emergenze politiche o securitarie, abroga o restringe la protezione “nazionale” – dal d.l. n. 113/2018 al d.l. n. 20/2023 – la Corte di Cassazione interviene per ribadire lo stesso principio giuridico fondamentale, già espresso con chiarezza nelle sentenze n. 4455/2018, n. 24413/2021 e in numerose altre pronunce. Questo principio è chiaro e irrinunciabile: il diritto al rispetto della vita privata e familiare non può essere abrogato perché radicato in obblighi costituzionali e internazionali che vincolano lo Stato a prescindere dalla volontà del legislatore ordinario. Che la si chiami speciale, umanitaria, o in altro modo, la tutela del diritto al rispetto della vita privata e familiare è necessaria, garantisce la piena attuazione dell’asilo costituzionale, ed è quindi inabrogabile. Rilasciare il relativo permesso di soggiorno non è una concessione discrezionale, ma un obbligo giuridico.
Cittadinanza: il TAR annulla il diniego e riconosce la piena validità della residenza fittizia
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio si esprime su un tema sempre più ricorrente nei procedimenti di cittadinanza: la cosiddetta “residenza fittizia”. Il caso riguarda il diniego per l’inammissibilità dichiarato dalla Prefettura di Roma a un cittadino richiedente cittadinanza ai sensi dell’art. 9, lett. f) della l. 91/1992, ritenendo che l’iscrizione anagrafica presso un indirizzo virtuale non provasse una reale presenza sul territorio né un adeguato livello di integrazione. Inoltre, il diniego fondava un’ulteriore motivazione nella presunta insufficienza dei redditi dichiarati negli anni 2020 e 2021. Il TAR chiarisce anzitutto un punto cruciale: l’utilizzo della residenza fittizia non può essere interpretato come un indizio, di per sé, di mancata integrazione o di assenza dal territorio nazionale. Richiamando il quadro normativo – dalla legge anagrafica alla circolare del Ministero dell’Interno del 18 maggio 2015 – il Tribunale ribadisce che l’iscrizione presso indirizzi virtuali è uno strumento pienamente previsto dall’ordinamento per garantire l’esercizio dei diritti fondamentali alle persone senza fissa dimora, inclusi gli stranieri regolarmente soggiornanti. L’anagrafe, anche quando registra una “via fittizia”, attesta comunque una situazione di legalità della residenza, poiché la legge attribuisce rilevanza proprio all’iscrizione anagrafica come criterio di verifica del radicamento. La “residenza fittizia” pertanto deve ritenersi equiparabile alla residenza “reale” per accedere ai principali diritti derivanti da quest’ultima (diritto al rinnovo del permesso di soggiorno, a rinnovare la carta d’identità, il diritto a prestazioni previdenziali, il diritto di voto etc.). La Prefettura, secondo i giudici, ha introdotto un’interpretazione priva di base normativa, che rischia di creare disparità territoriali e di scardinare la funzione stessa delle residenze virtuali. Il diniego, infatti, ha applicato un automatismo errato, ossia che “la residenza fittizia rappresenti una assenza di integrazione“. Il TAR respinge questo metodo e precisa che eventuali abusi o elusioni devono essere accertati caso per caso, con istruttorie accurate e motivate. Sul profilo reddituale, il TAR rileva un’ulteriore carenza istruttoria. La Prefettura aveva segnalato una presunta insufficienza dei redditi relativi agli anni 2020 e 2021. Tuttavia, nella propria memoria difensiva la stessa amministrazione riconosce che, tenendo conto della composizione del nucleo familiare e compensando i redditi delle diverse annualità, il requisito risulta soddisfatto. Inoltre, la flessione del reddito nel biennio pandemico non può essere considerata un elemento ostativo senza una specifica valutazione del contesto eccezionale. Alla luce di tutto ciò, il TAR accoglie il ricorso e annulla il provvedimento, imponendo alla Prefettura un nuovo esame dell’istanza conforme ai principi espressi. La decisione ha rilievo significativo: afferma la piena legittimità della residenza fittizia come modalità di iscrizione anagrafica e ne vieta l’uso come presunzione negativa automatica nei procedimenti di cittadinanza. Inoltre, richiama le amministrazioni a un dovere di istruttoria rigoroso, soprattutto quando si valutano oscillazioni reddituali legate a eventi straordinari come la pandemia. T.A.R. per il Lazio, sentenza n. 20649 del 19 novembre 2025 Si ringrazia l’Avv. Antonella Consono per la segnalazione. * Consulta altre decisioni relative alla cittadinanza italiana
Illegittimità del trattenimento in CPR per assenza di un adeguato certificato medico attestante l’assenza di vulnerabilità psichiatrica
AVV. ANTONELLO CIERVO, AVV. GENNARO SANTORO Con decreto del 12 novembre 2025, la Corte di Appello di Roma ha disposto la liberazione di un richiedente asilo trattenuto presso il CPR di Roma ”stante la presumibile sussistenza di una condizione di vulnerabilità del richiedente asilo incompatibile con il suo trattenimento presso il Centro di permanenza per i rimpatri” e l’assenza di “un adeguato certificato medico attestante detta compatibilità ai sensi dell’art. 3 del DM 19 maggio 2022”. La decisione si inserisce nel filone giurisprudenziale secondo il quale l’incompatibilità sanitaria al trattenimento in CPR non si limita alle patologie acute o in fase di scompenso, ma si estende anche a condizioni potenziali o pregresse che necessitino di monitoraggio specialistico continuativo. (cfr., tra le altre, Corte di Appello di Roma, decreto del 21 marzo 2025).  LA VICENDA E LA DIFESA IN SEDE DI CONVALIDA DEL TRATTENIMENTO Nel caso di specie, un cittadino marocchino, dopo la convalida del trattenimento del Giudice di Pace di Roma del 4 novembre 2025, ha manifestato la volontà di chiedere la protezione internazionale. Il successivo 12 novembre si è quindi celebrata l’udienza di convalida innanzi alla competente Corte di Appello di Roma.  La difesa, con una memoria di udienza e relativa documentazione, ha evidenziato che il richiedente asilo era consumatore abituale di sostanze stupefacenti e assuntore del farmaco antipsicotico Seroquel, la cui sospensione avrebbe potuto comportare gravi rischi anche dal punto di vista suicidario. Per questi motivi la difesa ha sin da subito richiesto la cartella clinica dello straniero, ha prontamente informato il medico dell’ente gestore e l’Asl Roma 3 del possibile stato di tossicodipendenza dell’interessato e della verosimile patologia psichiatrica, sollecitando una nuova visita di idoneità alla vita ristretta, come disposto dall’art. 4, comma 3 del D.M. 19 maggio 2022 (c.d. “Decreto Lamorgese”). Nonostante tale richiesta, nessuna risposta è pervenuta dalla Asl Roma 3, mentre l’ente gestore si è solo riservato di effettuare una eventuale nuova visita dopo l’esame della documentazione sanitaria. Tuttavia, alla data dell’udienza non sono stati comunicati gli eventuali ulteriori accertamenti sanitari effettuati. Ancora, è stata contestata l’inidoneità del primo certificato di idoneità alla vita ristretta limitato al solo accertamento dell’assenza di malattie infettive. Sul punto si osserva che di recente il Consiglio di Stato, con la sentenza del 7 ottobre 2025, nel dichiarare la parziale illegittimità dello schema di capitolato di appalto CPR, per carenze relative alla tutela del diritto alla salute e alla prevenzione del rischio suicidario, ha così stigmatizzato la prassi  – documentata anche nel caso di cui si occupa – relativa alla visita di idoneità per il trattenimento in CPR: “Le verifiche sanitarie all’ingresso sono sovente limitate all’accertamento dell’assenza di malattie infettive, senza considerare disturbi psichiatrici o patologie croniche degenerative che non possono ricevere un trattamento adeguato nelle strutture detentive. È stata rilevata una considerevole presenza di problemi di tossicodipendenza e psicologici tra i migranti trattenuti, il che renderebbe necessario un forte coinvolgimento dei servizi sanitari locali a supporto dei medici dell’ente gestore, per la fornitura di servizi specialistici. Tuttavia, persiste una scarsa coordinazione tra le strutture sanitarie interne ai CPR e il Servizio Sanitario Nazionale, con gravi criticità nella gestione della salute mentale e nella somministrazione dei farmaci specialistici. In alcuni CPR, le prescrizioni di farmaci specialistici vengono formalmente emesse da medici esterni che non conoscono la persona, su richiesta dei medici del centro, una pratica che solleva serie preoccupazioni, specialmente per i farmaci psicotropi e la continuità delle terapie”. D’altronde, l’assenza di approfondimenti sanitari era provata anche dalla cartella clinica dell’ente gestore, costituita esclusivamente dalla scheda di primo ingresso,  che non riportava l’assunzione dell’antipsicotico Seroquel e non conteneva informazioni essenziali per una reale presa in carico dello straniero. E’ stata quindi eccepita l’omessa attuazione dell’art. 3, comma 4 del Decreto Lamorgese nella parte in cui prevede la necessità di una nuova visita sulla idoneità alla vita ristretta, così come sollecitata, anche alla luce delle carenze organizzative e materiali del CPR di Roma Ponte Galeria.  Infine, ed in via subordinata, nel solco di quanto già accertato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 96 del 2025, si è sollecitato il Giudice della convalida a sottoporre nuovamente dinanzi alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 co. 2 del D.lgs n. 286/1998, in riferimento agli articoli 13, secondo comma, 24, 32 e 117, primo comma Cost., in relazione all’art. 5, par. 1 CEDU. LA DECISIONE La Corte di Appello, aderendo alla tesi difensiva, ha sancito che “la richiesta di convalida del trattenimento non può trovare accoglimento stante la presumibile sussistenza di una condizione di vulnerabilità del richiedente asilo incompatibile con il suo trattenimento presso il Centro di permanenza per i rimpatri […] allo stato vi sono elementi sintomatici e gravi che inducono a ritenere che il richiedente possa essere persona vulnerabile ai sensi dell’art. 17, comma 1 del D.lgs. n. 142/2015, in quanto affetto da gravi disturbi psichici, incompatibili con il trattenimento […] Sul punto, non può dunque assumere rilevanza decisiva la certificazione medica di compatibilità delle condizioni di salute del cittadino richiedente asilo con il trattenimento presso il CPR, là dove non sono state specificamente considerate le patologie di cui lo stesso soffre, nè sono state effettuate apposite visite specialistiche in tal senso, nonostante dette problematiche di salute siano state tempestivamente segnalate dalla difesa del trattenuto sia al medico dell’ente gestore sia alla ASL RM 3, con la conseguenza che non risulta in atti un adeguato certificato medico attestante detta compatibilità ai sensi dell’art. 3 del DM 19 maggio 2022. […] Peraltro, ciò vale a maggior ragione alla luce dei principi espressi dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 96/2025 del 3 luglio 2025, con la quale, nonostante la dichiarazione di inammissibilità delle questioni sollevate, è stata accertata l’illegittimità della disciplina del trattenimento come disegnata dall’art. 14, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, e, in attuazione dello stesso, dall’art. 21, comma 8, del d.P.R. n. 394 del 1999 perché carente di elementi essenziali. […] Nel caso di specie, dunque, l’assenza di una specifica disciplina dei modi di trattenimento, incide in concreto su un diritto fondamentale della persona quale quello alla salute, la cui tutela allo stato è rimessa a norme regolamentari e provvedimenti amministrativi discrezionali, con conseguente lesione specifica di tale diritto, riscontrabile già nella fase della convalida e che rende illegittimo il trattenimento amministrativo”. La decisione in commento conferma (ed amplia) il principio per cui l’accertamento sanitario costituisce una condizione ineludibile di validità del trattenimento e deve essere effettuato prima della convalida della misura (così già Cass., n. 15106/2017): tale valutazione deve essere approfondita e non può trascurare la presenza di vulnerabilità psichiatriche. Sul punto si richiama anche il decreto della Corte di Appello di Roma del 20 ottobre 2025, ove si legge che “La valutazione delle condizioni di salute, fisica e psichica, del trattenuto deve essere completa e adeguata allo scopo e, pertanto, esaustiva, non potendo residuare dubbi sull’assenza di profili di vulnerabilità nell’accezione di legge e sul rischio di aggravare le possibili problematiche di salute già patite dal trattenuto. Tale accertamento deve logicamente precedere e non seguire la misura del trattenimento, pena la legittimità della misura […]”.  Nella medesima decisione si afferma inoltre che: “la Questura ha depositato un certificato medico di sanitario della Città Metropolitana di Milano, dal quale non emerge se le condizioni di salute del trattenuto consentano la permanenza dello stesso nel CPR, dandosi atto soltanto dell’idoneità al volo e all’inserimento in comunità ristretta del trattenuto, pur dandosi atto che non sono stati effettuati accertamenti strumentali o di laboratorio. Diversamente, il fascicolo sanitario depositato dalla difesa evidenzia la necessità di un percorso di assistenza e di vigilanza che allo stato non è possibile indicare se praticabile nel CPR”.  Non vi è dubbio che l’Autorità giudiziaria stia sempre più valorizzando il contenuto precettivo dell’art. 3 del Decreto Lamorgese, soprattutto con riferimento alla inderogabile necessità di una visita olistica ed esaustiva di primo ingresso dello straniero trattenuto. Viene tuttavia da domandarsi come sia possibile verificare le ipotesi di incompatibilità per vulnerabilità psichiatrica se sistematicamente le prime visite sull’idoneità sono effettuate in assenza di uno psichiatra. Accanto a questa sistematica violazione della norma rilevante – oltre che dell’art. 32 della Costituzione -, si riscontra, nella prassi, la mancata attivazione della nuova visita sulla idoneità del trattenimento allorquando sopravvengano fatti nuovi (come nel caso di tentativi di suicidio o di gesti anticonservativi e autolesionistici). Su questo aspetto, appare opportuno ricordare come sempre la sentenza del Consiglio di Stato del 7 ottobre 2025  ha dichiarato la parziale illegittimità dello schema di capitolato di appalto CPR, per carenze relative alla tutela del diritto alla salute e alla prevenzione del rischio suicidario. In particolare, il Collegio, parimenti a quanto denunciato in vari report dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, “concorda con la necessità che il capitolato impugnato sia reso più conforme alle seguenti disposizioni della direttiva ministeriale del 2022:- art. 3, comma 4, con riferimento alla necessità di una nuova valutazione della ASL, in caso emergano elementi che possano determinare l’incompatibilità con la vita in comunità ristretta e alla possibilità che gli stranieri vengano alloggiati in stanze di osservazione su disposizione del medico”. Ad oggi lo schema di capitolato non è ancora stato emesso: ciò nonostante, sempre la stessa sentenza citata rammenta che, nelle more della nuova attuazione, deve essere attuato quanto prescritto, in via diretta, dalla disposizione per ultimo citata, aggiungendo anche (fine punto 5.1. in diritto) che “Resta fermo, peraltro, che i gestori dei Centri devono rispettare quanto previsto dalla direttiva ministeriale, anche qualora le relative disposizioni non siano esplicitamente richiamate nel capitolato di gara”.  Dunque, anche in attesa del nuovo schema di capitolato, la disposizione da ultimo richiamata è da ritenersi cogente e, nell’esperienza quotidiana dei CPR viene frequentemente disattesa.  Soffermando l’attenzione al solo Centro di Roma Ponte Galeria, basti considerare che a seguito di accesso parlamentare dello scorso 27 maggio, dalla consultazione del registro eventi critici risultavano “66 eventi critici registrati in appena tre mesi, di cui 44 atti anticonservativi come tentativi di impiccagione, ingestione di oggetti e autolesionismo. Nonostante questo, «non sono previsti protocolli di prevenzione del rischio suicidario» e in diversi casi non è stato disposto il ricovero in Pronto soccorso”.  Pur in assenza di dati ufficiali con riferimento alle nuove visite sull’idoneità che dovevano conseguire ai 44 gesti anticonservativi trascritti nel registro eventi critici, può affermarsi che nella stragrande maggioranza dei casi le stesse non hanno avuto luogo, come del resto accertato anche dalla magistratura ordinaria A titolo esemplificativo, la Corte di Appello di Roma, con decreto del 7 luglio 2025, ha disposto l’immediata liberazione di un trattenuto rilevando dubbi in relazione alla sua vulnerabilità, avendo manifestato segni di disagio psichico anche prima dell’ingresso nel CPR, posto che la visita psichiatrica era stata fissata successivamente alla convalida, nonostante lo stesso avesse già commesso atti autolesivi prima ancora dell’ingresso nel CPR. Tale pronuncia – non isolata – viene richiamata in quanto evidenzia con chiarezza come l’assistenza sanitaria e psicologica all’interno del Centro di Roma Ponte Galeria sia del tutto insufficiente e come, di fatto, il trattenimento avviene anche nei confronti di persone inidonee alla vita ristretta. Senza la possibilità, neanche nel corso del trattenimento, che vi sia, in via sistematica e tempestiva, una nuova visita sull’idoneità. Sembra dunque possibile sostenere senza possibilità di essere smentiti che il divieto di trattenere persone con vulnerabilità psichiatrica nel Cpr di Roma Ponte Galeria è quasi sempre assicurato solo a seguito di intervento dell’Autorità giudiziaria e non è invece garantito, in via ordinaria, sistematica e tempestiva, dall’Autorità sanitaria. Corte di Appello di Roma, decreto del 12 novembre 2025
Accertato il diritto al ricongiungimento familiare in favore di un cittadino straniero titolare di PdS per protezione speciale
Con ricorso ex art. 281-decies c.p.c. un cittadino pakistano titolare di permesso di soggiorno per protezione speciale ha impugnato il decreto del Prefetto di Torino che ha rigettato la sua istanza di ricongiungimento familiare sulla base del fatto che l’art. 28 comma 1 del T.U. 286/1998 non consente la possibilità di presentare istanza di ricongiungimento familiare ai titolari del suddetto permesso. Come noto, l’art. 28 del Testo Unico Immigrazione, che già non annoverava la protezione speciale tra i permessi che danno titolo al ricongiungimento familiare, è stato emendato nel 2024 in senso ulteriormente restrittivo (in luogo di “asilo” ora si parla specificamente di “protezione internazionale“). La decisione del Tribunale di Torino va oltre il dato letterale dell’art. 28 e valorizza invece una lettura organica e conforme a Costituzione e Direttiva 86/2003, che fa leva sulla natura della protezione speciale, volta a tutelare tra le altre cose proprio quell’unità familiare che il ricongiungimento è preordinato a ricostituire. La decisione evidenzia anche precedenti pronunce della Corte di Cassazione che già in passato hanno ritenuto non esaustivo il catalogo dell’art. 28, estendendo il diritto all’unità familiare in favore anche di titolari di permesso di soggiorno quali residenza elettiva e attesa cittadinanza. Secondo il Tribunale “la giurisprudenza di legittimità ha da sempre adottato un’interpretazione estensiva dell’art. 28 TUI, tale da includere anche tipologie di permesso di soggiorno non espressamente ricomprese dalla norma, purché soddisfacessero i requisiti di stabilità di cui all’art. 3 della Direttiva (vale a dire, titolarità di un permesso con “periodo di validità pari o superiore a un anno” e con “fondata prospettiva di soggiorno stabile”) […] va dunque affermata la natura non esaustiva del catalogo contenuto nell’art. 28 TUI, che deve essere interpretato alla luce dei criteri costituzionali (in particolare il diritto di asilo ex art. 10 comma 3 Cost., che – come detto – ha “ricevuto integrale attuazione grazie al concorso dei tre istituti concernenti la protezione dei migranti: la tutela dei rifugiati, la protezione sussidiaria di origine europea e la protezione umanitaria”; così Corte Cost. n. 194/2019) e unionali (applicazione della Direttiva 86/2003/CE in materia di ricongiungimento a tutti i casi in cui “il soggiornante è titolare di un permesso rilasciato … per un periodo di validità pari o superiore a un anno e ha una fondata prospettiva di soggiorno stabile”)“. Tribunale di Torino, sentenza del 27 ottobre 2025 Si ringrazia l’Avv. Elena Garelli e l’Avv. Alberto Pasquero per la segnalazione e il commento. * Consulta altre decisioni relative al ricongiungimento familiare
CdS: i termini di conclusione del procedimento amministrativo decorrono dalla richiesta di appuntamento
I tempi per accedere ad un procedimento amministrativo (richiesta di appuntamento anche tramite piattaforme informatiche) rilevano ai fini della decorrenza dei termini di legge per la conclusione dello stesso (cd. dies a quo). È quanto afferma il Consiglio di Stato, sez. III, con un’importante sentenza del 2 aprile 2025, la n. 2819/2025, in un giudizio in materia di rilascio del visto di ingresso in Italia per lavoro subordinato, da parte del Consolato generale d’Italia a Casablanca, in favore di un cittadino straniero. Con parole cristalline, i giudici di Palazzo Spada affermano che: “qualsiasi atto di impulso del cittadino volto a sollecitare l’esercizio di un potere dell’Amministrazione previsto dalla legge è suscettivo di far sorgere l’obbligo di provvedere purché tale impulso sia presentato nelle forme e coi modi previsti dalla disciplina regolativa del potere stesso”. In appello viene, dunque, ribaltata la tesi del Tar Lazio, sez. III che, con la sentenza n. 17710/2024, aveva respinto il ricorso del cittadino straniero, ritenendo che la domanda di appuntamento per il rilascio del visto di ingresso, attraverso la piattaforma VFS Global (società esterna di servizi di cui si avvale il Consolato italiano per la raccolta delle stesse domande di Visto), non potesse considerarsi atto di impulso del procedimento amministrativo. In altre parole, il Tar aveva ritenuto che la risposta automatica del sistema non potesse avere natura provvedimentale e quindi, la successiva inerzia della pubblica amministrazione, fino all’effettivo appuntamento presso il Consolato, non rilevasse, anche ai fini dell’azione contro il silenzio (cui, come si dirà, si potrebbe aggiungere l’azione di classe pubblica di cui al D.lgs. 198/2009). Il Consiglio di Stato, con questa importante pronuncia, nega fermamente l’esistenza di “buchi neri” del procedimento, all’interno dei quali l’amministrazione sarebbe libera di NON agire, in danno della persona istante, italiana o straniera, priva, in questo lasso di tempo, di rimedi giudiziali. Non ci sono “zone franche” per la p.a., soprattutto quando esternalizza un servizio relativo ad una propria funzione: una prenotazione, un’istanza di appuntamento per il rilascio di un titolo, anche quando effettuata con piattaforme web che restituiscono una risposta automatica di presa in carico, fa sorgere in capo all’amministrazione il dovere, e in capo alla persona che ha presentato l’istanza il diritto, ad una risposta conclusiva del procedimento nei tempi previsti dalla legge: “dovendo in definitiva l’informatica inerire alla “forma della funzione amministrativa” e non già assurgere a funzione autonoma o, ancor peggio, a causa di inutili appesantimenti procedurali o, come nel caso di specie, di impasse deteriori (arg. ex 3-bis legge n. 241/1990 “per conseguire maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche agiscono mediante strumenti informatici e telematici”)”. In particolare, la pronuncia ha il pregio di fare luce su un problema particolarmente diffuso, soprattutto nel settore dell’immigrazione, nell’ambito del quale, troppo spesso, l’affidamento del servizio di gestione delle agende a soggetti privati ovvero l’utilizzo, anche tramite risorse interne, di piattaforme informatiche per la prenotazione degli appuntamenti (ad esempio, il cd. sistema Prenotafacile in uso in molte Questure del territorio italiano), si traduce in un ritardo ingiustificabile nell’accesso al procedimento di rilascio, per fare qualche esempio, del visto in materia di lavoro (oggetto della pronuncia in parola), del visto per ricongiungimento familiare, o ancora dei titoli di soggiorno per chi già si trova sul territorio italiano, comprese persone richiedenti asilo.  Questa pronuncia, in conclusione, afferma un principio di tutela effettiva – anche attraverso le azioni di classe quali l’azione avverso la violazione dei termini di cui al D.lgs. n. 198/2009) – nei confronti dell’amministrazione, la quale, secondo prassi evidentemente illegittime, non considera i tempi per accedere alle procedure come tempi del procedimento, lasciando soprattutto le persone straniere che attendono un titolo di soggiorno e che, quindi, sono maggiormente precarie dal punto di vista della fruizione dei propri diritti fondamentali, in una inaccettabile situazione di limbo giuridico. Consiglio di Stato, sentenza n. 2819 del 2 aprile 2025
Diritto all’accoglienza dei richiedenti asilo: il TAR sanziona il silenzio serbato dall’Amministrazione
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte riconosce e sanziona il silenzio serbato dall’Amministrazione in relazione alla domanda di ingresso nel sistema di accoglienza dei richiedenti asilo: il termine è di 30 giorni e non di 180 giorni, come talvolta sostenuto dalle Prefetture. Infatti, “un termine di 180 giorni per la conclusione del procedimento priverebbe di significato misure che sono necessariamente correlate alla procedura di concessione della protezione internazionale, tant’è che, in forza di quanto previsto all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 142/2015, esse «si applicano dal momento della manifestazione della volontà di chiedere la protezione internazionale»”. Il ricorso è stato presentato contro la Prefettura di Torino, che non aveva dato risposta alla domanda di accesso alle misure di accoglienza entro il termine prestabilito dalla normativa. Il TAR sottolinea che non esiste una diversa disposizione che stabilisca un periodo più lungo. È quindi illegittimo il silenzio serbato oltre tale limite. Il Collegio respinge l’interpretazione che estende ai procedimenti in materia di accoglienza la disciplina dei procedimenti “in materia di immigrazione” per i quali il Consiglio di Stato aveva ritenuto applicabile un termine massimo di centottanta giorni. Secondo il TAR piemontese, l’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale non può essere assimilata a tali procedimenti, poiché trova una disciplina autonoma nel decreto legislativo 142 del 2015 e nella direttiva europea 2013/33, che impongono agli Stati di assicurare un accesso rapido e concreto alle misure di accoglienza dal momento stesso in cui viene manifestata la volontà di chiedere asilo. Da questa impostazione discende un principio di fondo: un’attesa di sei mesi svuoterebbe di significato il diritto all’accoglienza, che è strettamente connesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale e risponde a esigenze immediate di tutela e dignità della persona. Non basta, quindi, che l’amministrazione risponda informalmente o che collochi il richiedente in una lista d’attesa; è necessario un provvedimento espresso, scritto e motivato, come impone la legge. La sentenza ordina alla Prefettura di pronunciarsi entro trenta giorni e prevede la possibilità di nominare un commissario ad acta in caso di ulteriore inerzia. Si tratta di un segnale netto contro la prassi diffusa dei silenzi e delle lunghe attese, che di fatto negano un diritto fondamentale. Il TAR ribadisce che la tempestività non è una questione organizzativa, ma un elemento essenziale per rendere effettivo il sistema di accoglienza. Nel solco di altre decisioni recenti – come quelle del TAR Emilia-Romagna e del TAR Lombardia – anche il giudice piemontese riafferma che l’accoglienza non può essere sospesa né differita: è parte integrante della procedura d’asilo e va garantita con immediatezza e trasparenza. T.A.R. per il Piemonte, sentenza n. 1361 del 2 ottobre 2025 Si ringraziano per la segnalazione gli Avv.ti Andrea Scozzaro e Giacomo Venesia di Torino.
Il CdS annulla il capitolato d’appalto dei CPR: standard sanitari inadeguati
La decisione del Consiglio di Stato rappresenta una svolta nel contenzioso sui Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), perché riconosce che lo Stato – attraverso il proprio schema di capitolato d’appalto – non ha garantito livelli minimi di tutela del diritto alla salute e di prevenzione del rischio suicidario per le persone trattenute. L’effetto immediato è l’annullamento del decreto del Ministro dell’Interno del 4 marzo 2024, che aveva approvato il nuovo schema di capitolato, e determina, di conseguenza, la perdita di efficacia della base normativa su cui si fondano gli affidamenti della gestione dei CPR ai soggetti privati. Il punto centrale della sentenza è il riconoscimento di un grave difetto di istruttoria da parte del Ministero dell’interno. I giudici sottolineano che, “in un contesto delicato come quello della gestione dei CPR, è essenziale non solo che l’Amministrazione procedente abbia una conoscenza profonda della realtà nella quale va ad incidere l’azione amministrativa, ma anche che la stessa si avvalga del supporto di tutte le Amministrazioni che dispongono di competenze relative alla materia affrontata”. Il Consiglio evidenzia che non risultano coinvolti né il Ministero della Salute né il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, entrambi ritenuti “soggetti istituzionalmente deputati alla tutela della salute e, in generale, alla tutela dei soggetti in condizione di detenzione”. Ciò costituisce una violazione dell’art. 12 del d.lgs. 142/2015, che impone la consultazione del “Tavolo di coordinamento nazionale”, organo interministeriale che avrebbe dovuto esprimersi sullo schema di capitolato. I giudici aggiungono che tale mancanza è tanto più grave perché la Corte costituzionale, con la sentenza n. 96/2025, ha accertato una “lacuna legislativa” nella disciplina dei CPR, riconoscendo che il legislatore è venuto meno all’obbligo di disciplinare con legge i modi e le garanzie del trattenimento amministrativo. In questo quadro, l’Amministrazione avrebbe dovuto compensare tale vuoto normativo con una particolare attenzione istruttoria e consultiva, invece del “vulnus” riscontrato. LE CRITICITÀ SANITARIE E PSICOLOGICHE NEI CPR Il Consiglio di Stato accoglie pienamente le preoccupazioni di ASGI e Cittadinanzattiva, richiamando ampiamente i rapporti del Garante nazionale e del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT). Nella sentenza si legge che “nei CPR la situazione delle persone con vulnerabilità psichiatrica o sottoposte a trattamenti farmacologici è problematica e presenta diverse criticità”. Il Collegio riporta i passaggi più significativi del Documento di sintesi del Garante (26 aprile 2023), dove si rileva che le visite mediche all’ingresso sono spesso limitate “all’accertamento dell’assenza di malattie infettive, senza considerare disturbi psichiatrici o patologie croniche degenerative”, che manca un adeguato coordinamento con il Servizio Sanitario Nazionale, e che la somministrazione dei farmaci – inclusi psicofarmaci – avviene talvolta “senza controllo effettivo da parte di medici responsabili del trattamento”. Soprattutto, il Garante denuncia l’assenza di “protocolli o interventi di prevenzione del rischio suicidario”, un elemento che il Consiglio di Stato riprende, affermando che la prevenzione del suicidio rientra pienamente nella difesa della salute e della vita e che il Ministero avrebbe dovuto garantire “piani di prevenzione del rischio di autolesionismo e suicidio, in collaborazione con i servizi territoriali competenti”. A questi rilievi si aggiungono le osservazioni del CPT del Consiglio d’Europa (rapporto 2024), che documenta “somministrazione diffusa di psicofarmaci non prescritti, carenza di assistenza psicologica e psichiatrica, assenza di protocolli strutturati per la prevenzione dell’autolesionismo e del suicidio”. Questi elementi sono per il Collegio ulteriori conferme dell’inadeguatezza del capitolato ministeriale. La portata della sentenza è ampia l’annullamento del decreto ministeriale implica che tutti gli appalti basati su quel capitolato siano privi di base legittima nella parte censurata. Le Prefetture dovranno ora riformulare i bandi di gara e, verosimilmente, sospendere o adeguare i contratti in corso. Sul piano giudiziario, la decisione potrà essere utilizzata nei procedimenti di convalida o proroga del trattenimento, per eccepire che le condizioni di detenzione nei CPR sono, secondo la massima giurisdizione amministrativa, strutturalmente inadeguate e dunque non conformi ai principi di legalità, dignità e tutela della salute. Il Consiglio di Stato, infine, afferma in modo chiaro che “nelle more dell’indispensabile intervento del legislatore, le Amministrazioni competenti sono chiamate ad un attento esame della situazione fattuale nei Centri, affinché la riformulazione del capitolato possa tener conto di ogni elemento rilevante, nella prospettiva di garantire livelli di assistenza socio-sanitaria in linea con le previsioni costituzionali e sovranazionali”. La sentenza, insomma, riconosce una carenza strutturale e sistemica nella gestione dei CPR: è quindi una condanna implicita all’attuale modello dei CPR come luogo di detenzione amministrativa privo di tutele minime. Consiglio di Stato, sentenza n. 7839 del 7 ottobre 2025