Migrare: essere altrove, esserci altrimentiPapers, una rubrica di Melting Pot per la condivisione di tesi di laurea,
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Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
Dipartimento di scienze dell’educazione “Giovanni Maria Bertin”
Master di I° livello in Educatore nell’accoglienza di migranti, richiedenti
asilo e rifugiati
MIGRARE: ESSERE ALTROVE, ESSERCI ALTRIMENTI
ETNOGRAFIA SUL RUOLO DELL’OPERATORE TRA FRAGILITÀ PSICHICA E NUOVE PROSPETTIVE
DI ACCOGLIENZA NELLO SPRAR DI “PIAZZA GRANDE”
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ABSTRACT
Di richiedenti asilo e rifugiati si parla molto ultimamente, spesso evocando in
maniera più o meno sottile gli scenari delle guerre lontane e della miseria, ma
anche dell’invasione, della minaccia terroristica e della contaminazione.
Ma chi sono costoro? Da cosa fuggono, cosa hanno subìto e cosa sperano per il
loro futuro?
E quale contesto migliore per esplorare la loro esperienza se non quello delle
strutture di accoglienza in cui passo per passo si ricostruisce, nella
quotidianità della convivenza, il proprio progetto di vita, tra ricordi,
scoperte, conflitti, nostalgia, rabbia, aspirazioni, resilienze e ferite
dell’anima?
Questo lavoro, pertanto, nasce dalla volontà di raccogliere alcune principali
riflessioni, in relazione all’approccio metodologico impiegato, alle ragioni che
mi hanno indotto a scegliere un orientamento di tipo etnografico, per indagare
la tragicità del presente in cui viviamo, e alle difficoltà inerenti la gestione
del servizio di accoglienza che, ultimato il processo di indagine e di
scrittura, ritengo sia doveroso esplicitare nelle note conclusive.
Aggiungo che lo studio sul sistema di accoglienza dovrà essere utile anche per
gli operatori del settore, intrappolati in un intricato apparato di poteri e
relazioni che merita e richiede un costante livello di riflessione teorica sulle
prassi attuali.
Come coniugare le differenti esigenze degli attori che si muovono nello scenario
e tradurre nella pratica quotidiana quel corpus teorico maturato nella
riflessione sul proprio agire, è la sfida principale che cerco di pormi.
L’obiettivo maggiore è quella di congiungere, in una sorta di dialogo, il ruolo
dell’operatore e quello del tirocinante a quello del beneficiario e riuscire a
trovare, così, una funzione pubblica per il sapere e la conoscenza che si
produce all’interno dei servizi di accoglienza.
Per spiegare come ho condotto l’indagine mi soffermerò brevemente, su come nasce
e da dove arriva l’osservazione partecipante. Questo metodo serve per stabilire
un’empatia che permetta di rendere nella descrizione il punto di vista della
comunità e dei soggetti che si stanno studiando.
Fondamentale per questa attività di studio è la capacità “mimetica”
dell’antropologo, la sua abilità a conquistare la fiducia, a creare legami e
relazioni profonde con l’intervistato. Va sottolineato però che pur
impegnandosi, lo studioso non si trasformerà mai in un membro della comunità che
studia, il ricercatore deve sempre comprendere l’impossibilità di astrarsi dalla
sua posizione, diametralmente differente da chi vive quello che viene
raccontato.
Ritengo dunque che sia necessario dare rilevanza alle premesse che chiariscano
il lavoro di studio qui presentato, per poter considerare almeno una parte di
quei presupposti dai quali muovono le osservazioni.
Fare una indagine significa, tra le altre cose, sviluppare relazioni più o meno
profonde e prolungate con gli attori sociali, con coloro cioè che attraverso i
dialoghi, le interazioni, i condizionamenti e le osservazioni offrono il
materiale su cui costruire le etnografie.
In questo elaborato mi pongo l’obiettivo di raccontare di persone che hanno il
desiderio di dare un significato diverso alle loro vite, non solo come vittime
di un sistema esclusorio, ma semplicemente per rendere un’immagine meno falsa di
quella che si è creata in questi ultimi anni.
Perché collocarsi vicino all’esperienza della persona che vive le contraddizioni
dell’emigrazione così come è gestita a livello governativo, significa andare
oltre un’astratta empatia e giocare, al contrario, una dialettica fra prossimità
e distanza, capace di riconoscere, valorizzandoli, quegli attimi in cui la
corporeità non solo “resiste” ma si ribella, sfugge, riattivando la capacità di
agire anche nell’istante di un gesto ironico, nella durata di un silenzio denso
di agentività, o nell’incrocio di sguardi che fondano la presenza e attivano una
cornice di relazione dialogica fra osservatore e osservato.
Mi soffermerò, seppur brevemente, sugli aspetti che riguardano la gestione delle
attività di occupazione dei beneficiari coordinati dagli operatori. Un paragrafo
sarà dedicato alla “cena di via Romita” nella quale sono emersi degli aspetti
che rimandano alla condivisione, intesa come etica promotrice di sensibilità e
di una maggiore uguaglianza.
Tra gli altri compiti mi annovero quello di “cucire” le fila del discorso, di
comporre insieme le varie parti, senza però seguire un certo ordine cronologico,
in modo da ricostruire tassello su tassello un quadro il più possibile chiaro e
comprensivo di quelli che potrebbero sembrare «brevi cenni sull’universo»
secondo l’espressione di Gramsci.
Si intende che l’impossibilità di trattare l’argomento in modo compiuto ed
esaustivo, abbia permesso un approccio limitato e provvisorio, dovuto anche alla
necessità di risolvere tutto in un arco di tempo di pochi mesi, dal quale
emergono tuttavia molteplici riflessioni e nuovi orientamenti di indagine.
Un ulteriore margine di riflessione sarà dedicato al mio rapporto con gli utenti
cercando di descrivere le attività che essi svolgono, concentrandomi anche
sull’imperare delle relazioni di potere nonché sulla gestione del tempo che
rappresentano una costante interazione, anche se a volte conflittuale, tra gli
operatori e i beneficiari.
Prenderò anche in esame il ruolo di “mediatore nell’accoglienza”, ovvero
l’operatore, al fine di mettere in luce le dinamiche di interazione sviluppate
nella struttura, sia con i beneficiari e sia con lo spazio gestionale e
corporeo. Nel fare ciò mi tratterrò sulla particolarità e sulla concretezza
delle situazioni di crisi esistenziale, cercando di cogliere l’intreccio e le
modalità di interazione tra queste figure, secondo l’iter che porta l’individuo
a essere accolto, alla sua permanenza nella struttura e al suo rapporto con gli
stessi operatori.
Nella seconda parte dell’elaborato cercherò di allacciarmi alla prospettiva
assunta dall’etnopsichiatria, secondo la quale la malattia è un fenomeno
talmente complesso che, per essere compreso si rende necessario considerare la
totalità degli aspetti in esso coinvolti.
Rifletterò, inoltre, sulla “condizione di migrante” e sull’insorgere di stati di
malessere e sofferenza psichica difficili da superare, ancor più,
nell’incertezza che accompagna il loro futuro. Cercherò di interrogarmi sulla
genesi delle crisi da “ri-adattamento” e di nostalgia (angoscia territoriale) e
sui tempi lunghi di attesa che sono tutti fattori che possono provocare una
ri-traumatizzazione secondaria, come è stata definita dal Ministero della
Salute.
Il fine ultimo è di analizzare, nell’attuale complicata e turbolenta situazione
economica, sociale e politica, il modo di gestire il migrante (richiedenti
asilo, richiedenti protezione internazionale, sussidiaria e umanitaria),
evidenziando le inevitabili e importanti trasformazioni avvenute.