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Torino Film Festival 2/ Magellan di Lav Diaz
Presentato in Italia a novembre, al Torino Film Festival, dopo una prima partecipazione alla Cannes Première Selection in maggio e un ancor più significativo debutto nelle Filippine in settembre, il film di Lav Diaz è la drammatica cronaca dell’ascesa e caduta dell’esploratore portoghese Ferdinando Magellano, che per primo ha aperto la via alla navigazione verso il Pacifico, doppiando il Cabo de Hornos, nei primi anni ‘20 del XVI secolo. Regista e sceneggiatore filippino, Diaz ha lavorato per oltre due decenni sui temi della storia, della memoria e del loro intreccio con il sanguinoso presente del suo paese. Da tempo – dichiara – intendeva realizzare un racconto sulle grandi esplorazioni del passato e sulla presenza – e la resistenza – delle popolazioni filippine in questa storia. La figura di Magellano, vero e proprio incunabolo della sanguinosa storia del colonialismo europeo, si prestava perfettamente a questa impresa. > Ben interpretato dall’enigmatico Gael García Bernal, Magellano compie l’intera > parabola che lo porta dall’iniziale idealismo e sete di avventura allo > sfrenato delirio di conquista e di sottomissione dei nativi. Il movente economico è praticamente assente nella vicenda. Non si parla né si sogna di inesauribili miniere d’oro o del mitico paese di Cuccagna. Tutto è molto circoscritto, limitato, quasi modesto. I conquistatori scoprono piccoli villaggi sulla costa, abitati da innocui e pacifici nativi, con cui la comunicazione è a malapena possibile. La religione ci mette lo zampino col tentativo monoteista di soppiantare i culti locali. Rappresentato in tutta la sua dimensione superstiziosa, il cristianesimo sembra avere la meglio per un attimo, prima che si scateni l’inevitabile rivolta, a causa della sua pretesa di unicità e la sua ossessione di superiorità, difficile da far digerire anche ai più pacifici “selvaggi” E tuttavia l’imposizione si farà: le Filippine sono oggi il paese più cattolico in tutta l’Asia e il culto del “Santo Niño”, alla cui introduzione proprio da parte di Magellano assistiamo nel film, è ancora ampiamente diffuso. Il tono complessivo è sobrio, con colori e luce naturali che ricordano le atmosfere tropicali di Aguirre, furore di Dio, con una camera molto statica e riprese in stile documentaristico, per uno sguardo talvolta etnografico (penso alla Colchide nella Medea di Pasolini) e una felice ossessione per i dettagli, magistralmente curati sia nelle scene terrestri che in quelle di navigazione. La pioggia, il vento, la vegetazione “parlano” tanto quanto gli umani, che faticano a capirsi tra di loro e con se stessi: che cosa fa perdere a Manuel I, re del Portogallo, l’occasione di servirsi delle conoscenze e del coraggio di Magellano, che si farà finanziare dagli Spagnoli con l’appoggio dei lungimiranti banchieri Fugger? Che cosa impedisce a Magellano stesso, dopo l’epocale exploit nautico, di approfittare della benevolente accoglienza e del relativo successo inizialmente ottenuto con i capi locali? Non i nativi ma gli europei, nella loro sorda monomania, sembrano i veri selvaggi, Magellano incluso, per cui il film non mostra alcuna simpatia. Insieme a Bernal nei panni del protagonista, il film lascia spazio ad attori non-professionisti che, spiega il regista, danno spesso luogo a qualcosa di inatteso, a una vitalità e spontaneità emotiva che arricchisce l’intero processo cinematografico. > Diaz spiega di prediligere l’”irripetibile” per come si mostra nella sua > nudità, di fronte alla camera. Per questo afferma di realizzare, per > principio, soltanto una singola ripresa per ogni scena, senza effettuare > ripetizioni, senza una seconda chance: gli attori danno tutto, in uno sforzo > unico e irripetibile. Da questa unica ripresa piena di tensione emotiva, > spiega Diaz, esce quasi sempre qualcosa di buono. Questa impostazione di metodo mi sembra una ricchissima metafora, particolarmente adatta proprio al film storico, perché della storia coglie appunto il ritmo unico, irripetibile, in un certo senso eracliteo: non c’è spazio per ripetizioni o pentimenti, tutto si fa una sola volta nel grande fiume degli eventi. Nell’immagine di copertina un fotogramma del film SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Torino Film Festival 2/ <em>Magellan</em> di Lav Diaz proviene da DINAMOpress.
Torino Film Festival 1/ Highest 2 Lowest di Spike Lee
Spike Lee torna in duetto con Denzel Washington per la quinta collaborazione in un remake dell’epocale High and Low del maestro Kurosawa (anch’egli in duetto con Toshiro Mifune, con cui totalizzarono però ben 16 collaborazioni). La critica sembra dividersi su questo film, mai noioso (è vero) ma anche un po’ scontato (altrettanto vero). Il canovaccio è semplice e ruota intorno al dilemma morale (e anche un po’ materiale, visti i 17,5 milioni di dollari in gioco) che un imprenditore afroamericano di immenso successo nell’industria musicale deve affrontare quando scopre che, a causa di un involontario scambio di persona, il riscatto chiesto per il rapimento del figlio dovrebbe in realtà servire a liberare il figlio del suo migliore amico, nonché autista personale. Due sono gli elementi socio-politici attorno a cui il film viene costruito, entrambi cari alla cinematografia precedente di Lee (e di Washington), cioè la classe e la “razza”, termine che impiego per comodità, in quanto di uso comune nell’inglese-americano, in cui è considerato neutro e descrittivo, ma giustamente non potabile nel nostro idioma, non solo per il portato storico ma per l’assoluta inconsistenza scientifica che, a buon diritto, prevale sull’impiego retorico. Classe e razza, dunque, di cui si pena un po’ a capire come l’uno si innesti sull’altro o se uno dei due abbia alla fine il sopravvento nel film. La domanda servirebbe a chiarire il messaggio politico (di cui stupirebbe l’assenza in un’opera dell’autore di BlacKkKlansman, Malcolm X e When the Levees Broke, solo per citare alcuni dei suoi precedenti capolavori). Purtroppo però, nello scintillio di una regia eccessivamente sfarzosa, la domanda evapora, ingoiata da un lieto fine che lascia tutto al proprio posto, sia la razza, sia la classe. Né in conferenza stampa (al Torino Film Festival, dove il film è stato presentato) Lee è stato più esplicito su questa o su qualcuna delle domande più politiche che gli sono state rivolte. Commentando il recente incontro, che si voleva distensivo, tra il neo-Sindaco di New York Zohran Mamdani e Donald Trump, Lee ha affermato, non proprio perentoriamente, che… «we shall see what we shall see», staremo a vedere. Ci si poteva aspettare qualcosa di più… La produzione e la distribuzione hanno avuto un ruolo preponderante, come lo stesso Lee ha spiegato rammaricandosi della brevissima permanenza della pellicola nelle sale (soltanto nord-americane) prima dell’uscita globale su AppleTV a inizio settembre 2025. Tuttavia si ha l’impressione (e qui forse ci sarebbe stato qualcosa di più da dire intorno al tema della classe) che Lee sia perfettamente a suo agio nel celebrare il duro lavoro, l’onestà intellettuale, la caratura morale (seppur con qualche comprensibile tentennamento visti i milioni di dollari in gioco) e i sani valori del protagonista David King, magnate e dirigente della gloriosa Label Stackin’ Hits Record. Ma il buon capitalista – potremmo dire – salva anche il capitalismo: il tenore e lo stile di vita, il ruolo sociale, i rapporti coi pari e gli inferiori (da high a low) non sono mai per un momento sottoposti a critica. King è il sogno (afro-)americano che ha trovato il suo posto al cuore, anzi al vertice, del capitalismo metropolitano, poco importa la linea del colore. Stupisce un po’, in sintonia con questo, anche la sfrontata presenza di placement pubblicitari nel film, come il brand della squadra degli Yankees (OK, il film è su New York…), dei pianoforti Steinway & Sons e, soprattutto, dell’iphone di Apple. Anche la rappresentazione della città di New York va in questo senso. La sequenza dell’inseguimento sui binari e nelle stazioni della metropolitana (reminiscente dell’iconico e analogo inseguimento in The French Connection di William Friedkin), girata nel bel mezzo di una celebrazione dell’orgoglio portoricano, è un ritratto della New York dal basso, del popolo colorato e festivo del South-Bronx. Tuttavia, nel film prevale nettamente l’immagine da cartolina di una New York dall’alto, quella dello skyline sfarzoso di South Manhattan, ripreso dai droni o dalla terrazza del milionario penthouse in cui risiede King e la sua felice famiglia, che altro non è, poi, che il vero Olympia Dumbo di Brooklyn, inaugurato e aperto ai suoi milionari residenti nel 2023, in piena crisi degli alloggi nella metropoli americana. > Naturalmente non si deve commettere l’ingenuità di identificare i valori del > personaggio King con quelli del regista Lee. Tuttavia, una certa nota > autobiografica è apertamente rivendicata, sia per il ruolo, simile a quello di > King nel film, che Lee ha giocato e continua a giocare come riferimento > culturale per l’intera nazione afroamericana, sia per come il regista si > auto-cita nel film, ad esempio collocando sui muri dell’appartamento di King > larga parte della collezione d’arte… di proprietà privata dello stesso Lee! Senza dire di più sulla trama, per non svelare l’intrigo che Lee si sforza, ma non sempre con successo, di mantenere incerto e aperto, segnalo in chiusura la colonna sonora, su cui la produzione e il regista hanno lavorato con grande cura, sia per la scelta “alta” delle melodie, dei testi e delle icone musicali black da celebrare, sia per la figura chiave del rapper Yung Felon, interpretato da A$AP Rocky, a rappresentare la miseria, il violento cinismo e l’opportunismo rivendicato fino all’ultimo, per cui né King-Washington né Spike Lee riescono a provare alcuna comprensione, né tantomeno alcuna simpatia. Irenismo fraterno e lieto fine sì, dunque, ma entro certi limiti. Contraddizione di classe all’interno della razza? In ogni caso è di una certa blackness che il film fa l’apologia, quella senz’altro più prossima allo highest del capitalismo culturale americano che al lowest dei ghetti metropolitani. Nell’immagine di copertina un fotogramma del film SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Torino Film Festival 1/ <em>Highest 2 Lowest</em> di Spike Lee proviene da DINAMOpress.
L’eco dei fiori sommersi, stasera al Modernissimo. Intervista a Rosa Maietta
(disegno di manincuore) L’occasione per questo articolo è duplice: per un verso il desiderio di chi scrive di “stare” su Napoli coi suoi artisti e le sue contraddizioni, le sue “novità” e le sue puntuali bruttezze; per altro verso la proiezione del film L’eco dei fiori sommersi al Modernissimo il 5 dicembre alle ore 21; proiezione inattesa per quanto è difficile trovare un film “piccolo” al cinema, un film auto-distribuito e aggiungerei femminista. Si parla poco della lotta politica che si gioca sulla distribuzione: perché il cinema resta l’arte delle masse e se è preclusa la possibilità di vedere buoni film tutto è perduto. Ho conosciuto Rosa Maietta durante la lavorazione del film Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo. Lei lavorava sul mitico e irraggiungibile (per me) archivio-fiume di Ghezzi, e questo me la rendeva già simpatica in via pregiudiziale. In seguito, l’ho incontrata innumerevoli volte alle rassegne indipendenti che si tengono a Napoli, nei soliti quattro o cinque spazi dove si può vedere qualcosa di diverso dal cinemino italiano borghese e fasullo. Siamo diventati amici, e grazie a lei ho scoperto Julio Bressane e soprattutto Radu Jude, che per me è il Godard del nostro tempo. Lei vive a Napoli, ha studiato lettere, è cinefila e viene da Benevento. Incredibilmente siamo nati lo stesso giorno, lei però nel 1990.  L’eco dei fiori sommersi è il suo primo lungometraggio. Partendo dall’idea di un documentario sull’Archivio di Stato di Napoli, è diventato un film con tutti i crismi, scritto e messo in scena a partire da storie vere contenute nei faldoni dimenticati tra i corridoi dell’Archivio. Prendono così vita, in forma poetica e politica, vicende realmente accadute nei decenni e secoli scorsi. Sono storie di donne, e accanto a vicende atroci (stupri, aborti clandestini, amori fatti a pezzi dalla guerra) è sempre riflessa la voglia e il desiderio di liberazione dai nemici di sempre, il sistema patriarcale e quello capitalistico. Il documentario ha una durata breve, 67 minuti. Colpisce la ricchezza di soluzioni stilistiche che adotta, dovuta probabilmente sia all’abilità al montaggio della regista – che nasce come montatrice –, sia al desiderio di utilizzare al massimo le possibilità del mezzo. Si va dal registro simbolico a quello teatrale, dal realismo tipico del documentario all’inserto d’animazione, fino all’utilizzo con parsimonia di materiale d’archivio. Piuttosto ricercata la scrittura; paradosso, poiché essa deriva quasi integralmente dalla lingua burocratica utilizzata nelle carte processuali. Questo tessuto plurilinguistico e i continui shock a cui assistiamo sono la forza straniante e felice del film. Il gergo asettico della macchina della giustizia, che tutto può e a cui tutti si sottomettono, viene messo in discussione dal film, attraverso l’esplosione soggettiva delle protagoniste, i fiori sommersi che riemergono in una sorta di giudizio universale. Loro, queste donne, ci dicono “come sono andate veramente le cose”, non attraverso una contro argomentazione logico-giuridica, ma coi corpi e con la voce, luoghi privilegiati della verità e della testimonianza. Per queste ragioni mi sembra un film importante. Ho conversato con Rosa Maietta sul film a fine luglio. Sintetizzo qui alcune delle mie domande e delle sue risposte, poiché la conversazione è durata più di due ore. Perché hai scelto l’Archivio? In realtà è un film d’occasione. L’Archivio di Stato, per aprirsi a un pubblico non di soli specialisti, cercava una rappresentazione cinematografica. Mi è arrivata la proposta e l’ho accettata. Volevo evitare un documentario basico, fatto di interviste e immagini “neutre”. Ho allora cominciato a frequentare l’archivio, e ho notato che ci lavoravano soprattutto donne. Le ho conosciute, loro mi hanno fatto scoprire quelle storie che poi ho portato nel film. Loro stesse sono nel film. L’operazione poetica di portare al cinema il contenuto dei faldoni è inusuale. Qual è stato il processo creativo? Volevo evitare di fare un film su una storia, o su più storie. Ho cercato di dare una certa circolarità al racconto, a mo’ di cantastorie. Insomma, non una singola storia ma la storia collettiva per le donne. Ho voluto far emergere l’emozione (il dolore, la passione) che sta dietro quel brutto e inavvicinabile linguaggio della burocrazia processuale, linguaggio perfettamente consono alla struttura patriarcale della giustizia e del mondo. Per questo, giocando sul contrasto, uso luci calde e recitazione forte di contro a questa fredda lingua del Potere. Nel film avverto un eccellente lavoro di scrittura. Negli ultimi anni abbiamo però assistito al desiderio di liberarsi della scrittura, a un certo sperimentalismo visivo nel cinema indipendente. Tu cosa ne pensi? L’attenzione alla scrittura oggi mi sembra un modo più democratico e meno elitario di fare cinema. Quindi sì, ho fatto un enorme lavoro di scrittura. Passavo le giornate all’archivio a leggere storie, a parlare con le archiviste, anche in maniera terapeutica, per dimenticare la perdita di mio padre. La scrittura è un momento decisivo e facilita la relazione col pubblico. Qual è la differenza tra il tuo lavoro e un documentario standard? Penso che il cinema venga definito Settima Arte non a caso. Abbiamo un privilegio e anche una responsabilità con quello che facciamo. Ho provato a lavorare sul film in quanto pezzo unico, perché non volevo che un singolo procedimento formale, come la colonna sonora o frammenti simbolici, prevalessero sul resto e diventassero tappabuchi o toppe. In questo senso, non volevo abusare di materiale d’archivio anche per avere rispetto di quello che andavo a utilizzare e manipolare. Cosa ti domanda il pubblico? Resta più su questioni di stile, o sul perché hai fatto il film, cosa volevi dire? Entrambe le cose. Il pubblico è una parte del film, quando si gira si pensa a quale pubblico è indirizzato, nei limiti del possibile. Dove è stato proiettato il tuo film? Come sta girando? Il film lo sto distribuendo io, lo invio assieme alla produzione ai festival e organizzo le proiezioni in Italia e all’estero. Ovviamente circola in modo del tutto peculiare: collettivi femministi interessati (come Non Una Di Meno a Cagliari), amici e amiche via passaparola, e anche l’accademia, nell’insospettabile sezione degli storici, poiché è uno dei pochi lavori cinematografici sugli archivi. Poi ci sono i festival in Italia e all’estero. Mi piace presentarlo in presenza, vedere il pubblico e confrontarmici. Lotto, insomma, per il mio film. A Napoli manca comunicazione tra registi, mi capita di parlare di questo problema anche con altri tuoi colleghi. I registi dovrebbero frequentare di più i festival, guardare i film degli altri. Questo non lo fanno, e così c’è poco scambio. Con le ultime vicende politiche, e la riduzione dei fondi alla cultura, mi è capitato di partecipare alle assemblee dei lavoratori precari dello spettacolo, dove nessuno parla di cinema. È assurdo! Napoli è una città senza scambio, io parlo di cinema con te e pochissime altre persone. Proveremo a portare avanti pratiche per metterci insieme. Vedremo… (salvatore iervolino)
[2025-11-30] There is a war going on outside @ Spazio sociale occupato 100celle Aperte
THERE IS A WAR GOING ON OUTSIDE Spazio sociale occupato 100celle Aperte - Via delle Resede, 5, 00171 Roma (domenica, 30 novembre 17:00) ✊🏾 𝐏𝐞𝐫 𝐑𝐚𝐦𝐲, 𝐩𝐞𝐫 𝐈𝐛𝐫𝐚𝐡𝐢𝐦𝐚, 𝐩𝐞𝐫 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐞 𝐥𝐞 𝐢𝐧𝐧𝐮𝐦𝐞𝐫𝐞𝐯𝐨𝐥𝐢 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐞 𝐚𝐦𝐦𝐚𝐳𝐳𝐚𝐭𝐞 𝐝𝐚𝐥 𝐫𝐚𝐳𝐳𝐢𝐬𝐦𝐨 𝐝𝐢 𝐬𝐭𝐚𝐭𝐨, 𝐢𝐧 𝐈𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚 𝐞 𝐚𝐥𝐭𝐫𝐨𝐯𝐞 🔥 Domenica 30 novembre siamo felici di ospitare quest’iniziativa del Coordinamento Antirazzista in collaborazione con Blocco Decoloniale Ore 17: merenda con dolci e tisane Ore 18: Proiezione del documentario “There is a War Going on Outside” realizzato dal collettivo CopWatch Atene 👊🏾Dopo la proiezione ci prenderemo un po’ di tempo per parlare di profilazione e violenza razziale, ma anche di comunità che vogliono resistere e difendersi. Ne discuteremo anche col regista in collegamento. A seguire Cena Vegan Benefit per le spese legali di Fares e la sua famiglia.
[2025-12-01] Proiezione del documentario LEAVING GAZA @ Circolo Arci Fanfulla
PROIEZIONE DEL DOCUMENTARIO LEAVING GAZA Circolo Arci Fanfulla - Via Fanfulla da Lodi, 5/A Roma (lunedì, 1 dicembre 20:20) Con la straordinaria presenza di Jumana Shanin che porterà la sua testimonianza diretta. In sala anche l'autrice Chiara Avesani e l'autore Matteo Delbò insieme al collettivo Women With Gaza. Breve sinossi del doc: I protagonisti di questo reportage, dopo essere stati costretti a spostarsi più volte verso il Sud della Striscia di gaza per salvarsi dalle bombe, hanno dovuto lasciare la loro terra e fuggire al Cairo, pagando dei trafficanti egiziani per salvarsi la vita, nell'unico periodo in cui questo è stato possibile. Chi lascia Gaza oggi sa che probabilmente non tornerà più indietro, esattamente come accadde a centinaia di migliaia di palestinesi 76 anni fa. Ma come si può sopravvivere in un paese straniero come l’Egitto avendo perso tutto? Cosa significa salvare la propria vita e quella dei propri figli sapendo di aver lasciato dietro di sé un pezzo di famiglia, tutto ciò che si possiede, ma anche la propria identità e il proprio futuro? “Leaving Gaza” è un reportage su chi vive oggi il dramma della separazione e della perdita. Circolo ARCI Fanfulla 5a, Roma alle ore 20,20.
[2025-11-30] Proiezione del documentario "There is a War Going on Outside" @ Laboratorio Sociale Autogestito Centocellle
PROIEZIONE DEL DOCUMENTARIO "THERE IS A WAR GOING ON OUTSIDE" Laboratorio Sociale Autogestito Centocellle - Viale della Primavera, 319/B – Roma (domenica, 30 novembre 18:30) Domenica 30 Novembre alle 18:00 proietteremo il documentario There is a War Going on Outside, realizzato dal collettivo CopWatch Atene. A seguire discussione con il regista. Un'iniziativa per parlare di profilazione e violenza razziale, ma anche di comunità che vogliono resistere e difendersi. Durante la serata raccoglieremo fondi per sostenere Fares e la sua famiglia. Organizzata da coordinamento.antirazzista in collaborazione con blocco_decoloniale L'accesso allo spazio è libero e senza obbligo di tesseramento. A seguire anche Cena Vegan. . 📍Spazio Sociale 100Celle Aperte"
[2025-11-27] "Casa dolce casa" di Giacomo Di Biase - proiezione @ CSOA Forte Prenestino
"CASA DOLCE CASA" DI GIACOMO DI BIASE - PROIEZIONE CSOA Forte Prenestino - via Federico delpino, Roma, Italy (giovedì, 27 novembre 21:30) GIOVEDÌ 27 NOVEMBRE 2025 CSOA Forte Prenestino & CinemaForte h. 21:30 proiezione di "CASA DOLCE CASA" (Ita 2025, 52') di Giacomo De Biase presentazione con il Coordinamento sì al parco, sì all’ospedale no allo stadio ... "Casa dolce casa" racconta la lotta dei residenti del quartiere romano di Pietralata contro l'imminente costruzione del nuovo stadio dell'AS Roma, che dovrebbe sorgere su un bosco la cui esistenza è stata negata dalle autorità fino alla scorsa primavera. Mentre istituzioni e promotori del progetto stadio falsamente dipingono un quadro di riqualificazione urbana e promozione del verde, le voci autentiche di Flavio, Alessandro e Sebastiano svelano la dura realtà di sgomberi forzati, promesse non mantenute e di distruzione di intere vite e ricordi. È una battaglia di civiltà e difesa del territorio, della storia e della dignità umana, un grido di resistenza contro coloro che cercano di cancellare un passato e un futuro in nome di un progresso che ignora le persone. ... https://www.forteprenestino.net/attivita/cinema/3477-casa-dolce-casa
[2025-12-04] One More Show @ Cinema Tibur
ONE MORE SHOW Cinema Tibur - Via degli Etruschi, 36, Roma (giovedì, 4 dicembre 20:00) In anteprima mondiale, One More Show, girato negli ultimi mesi, nel pieno dell’assedio israeliano a Gaza. Racconta dall’interno l’ostinazione dei membri della compagnia circense Free Gaza Circus, che continuano a esibirsi per i bambini nei campi profughi e per le strade di un territorio devastato. Mentre il loro mondo si sgretola sotto i bombardamenti, gli artisti resistono alla disperazione e al terrore quotidiano, rischiando la vita per portare un momento di leggerezza e normalità in mezzo al caos della guerra. Cinema Tibur (Via degli Etruschi, 36) Sala 1 One More Show di Ahmad Al Danaf, Mai Saad, Egitto, Palestina, 72', 2025
Quando l’arte fa l’impossibile
IL FESTIVAL INTERNAZIONALE DI CINEMA DELLE DONNE A GAZA: UN ESEMPIO DI RESISTENZA CIVILE, UNA STORIA DA RACCONTARE Gaza. Palestinesi si avviano a presentare il festival (foto da Ezzeldeen Shalah) Non potremo che ricordare questo evento come un’ “utopia realizzata”, tra il 26 e il 31 ottobre 2025, a Deir el Balah nella striscia di Gaza. Anche chi, come me, stentava un anno fa a credere che questo progetto avrebbe preso corpo nel corso di un genocidio, nella distruzione di Gaza, sotto i continui crimini dell’esercito israeliano, con la paura delle bombe, le condizioni di sofferenza, di fame, di mancanza di tutto della popolazione, ha dovuto ricredersi. Sembrava una sfida impossibile, di fronte alle difficoltà materiali, enormi, ma anche al sentire delle persone, forse distanti da questa utopia, nel momento della sofferenza e dei bisogni fondamentali: un festival di cinema non era un lusso insostenibile? Credo che mi abbia convinto a sostenerlo, come ha convinto tutti coloro che hanno aderito attivamente al progetto, la determinazione del suo ideatore Ezzeldeen Shalah, critico e regista, di cui abbiamo più volte ascoltato da Gaza, nelle conversazioni online dei mesi di preparazione, la voce ferma, le parole convinte e irremovibili che dicevano di andare avanti, comprese quelle dette in uno dei momenti più terribili degli attacchi dell’esercito israeliano, l’invasione di terra unita a incessanti bombardamenti, di Gaza City: “se io non ci sarò più, continuate questo lavoro…”. Parole che ci hanno stretto il cuore, ma anche rafforzati nella convinzione di sostenere la realizzazione del progetto, in tutti i modi possibili. E’ stato presentato, raccogliendo fondi, in varie iniziative in Italia, e in molti paesi delle associazioni e festival di cinema che compongono l’ampia rete internazionale: è arrivato a Cannes, a Venezia, a Firenze gemellandosi con il Festival di cinema delle donne e poi al Festival dei Popoli dove il suo fondatore ha meritatamente ricevuto il premio SUMUD, parola che appartiene storicamente alla cultura palestinese: la perseveranza, la resistenza civile. Ezzeldeen Shalah Ancora una volta la cultura ha mostrato di essere non lusso, ma risposta a esigenze fondamentali: la speranza in un futuro possibile, la sua capacità di essere vita contro la morte, una forma alta di resistenza. E a chi gli domanda se ha senso parlare di cultura in tempi di genocidio e di fame, Ezzeldeen risponde: “Sì, ed è fondamentale. Il cinema è vita, è una presenza ostinata contro il nulla. Realizzare un festival tra le macerie significa dire che siamo ancora qui, che resistiamo e che c’è speranza. È il nostro modo di sfidare la morte con la vita. Vogliamo trasmettere al pubblico una carica di fiducia: la speranza, in questi tempi, è già una forma di resistenza”. (fonte: https://pungolorosso.com/2025/08/17/gaza-il-cinema-che-resiste/) Dunque a dispetto di tutti gli ostacoli e le difficoltà, il festival si è fatto, il tappeto rosso è stato steso, le persone che potevano hanno partecipato numerose e attente. E’ iniziato, come previsto, il 26 ottobre, data scelta per ricordare la Giornata delle donne palestinesi e la prima Conferenza delle donne palestinesi tenutasi a Gerusalemme nel 1929. S i è aperto con la proiezione del film vincitore del Leone d’Argento al Festival di Venezia: “La voce di Hind Rajab” di Kaouther Ben Hania, tunisina, Leone d’Argento a Venezia. Sconvolgente racconto dell’attesa e poi dell’uccisione sotto decine di colpi israeliani, di una bambina in un’auto con i familiari. Terribile e straordinariamente commovente, realizzato con grande capacità tecnica, fa rivivere quei dolorosi momenti in mezzo al genocidio di Gaza. I 79 film in programma, tra documentari, cortometraggi e lungometraggi di finzione provengono da 28 paesi. Tutti raccontano le vite, le voci e le lotte delle donne. Il Festival è stato poi sospeso per i nuovi bombardamenti nel corso della cosiddetta “tregua” (!) e si è concluso il 31 ottobre con le premiazioni. Qui trovate conclusioni e assegnazione dei premi. La realizzazione di questa edizione del Festival incoraggia a lavorare ad una seconda edizione, come assicura il suo fondatore : “Desideriamo assicurarvi che, a partire da domani, inizieremo i preparativi per la seconda edizione” dichiara davanti al pubblico Ezzaldeen Shalah, presidente e animatore instancabile del festival che, dal cuore di Gaza, a Deir al-Balah, dove il Sindacato dei giornalisti palestinesi ha offerto la sua sede, ha parlato al cuore del mondo. > “Gaza International Women’s Cinema”. Chiusa la prima edizione si lavora già > alla seconda Continuiamo a sostenerlo https://gofund.me/d28029779 “Il cinema è la nostra voce quando il mondo non ci ascolta. E’ la luce che rimane accesa, anche sotto le macerie” NOTE LE GIURIE: Presidente onoraria del Festival è Monica Maurer , regista e ricercatrice da decenni lavora sulla memoria visiva palestinese. Si sono espresse due giurie: una per i film di finzione e una per i documentari. La giuria per la finzione è stata presieduta dalla sceneggiatrice e regista francese Céline Sciamma , affiancata dal regista marocchino Mohamed El Younsi , dall’attrice italiana Jasmine Trinca , dalla scrittrice e regista palestinese Fajr Yacoub e dall’attrice e regista teatrale algerina Moni Boualam . Annemarie Jacir , regista del film Palestine 36 , candidato agli Oscar, ha presieduto la giuria del documentario, insieme al produttore del Bahrein Bassim Al Thawadi , alla produttrice italiana Graziella Bildesheim (presidente dell’European Women’s Audiovisual Network ), al regista kuwaitiano Abdulaziz Al-Sayegh e alla montatrice cubana Maricet Sancristobal . LA RETE INTERNAZIONALE DI SOSTEGNO: Patrocinio del Palestinian Ministry of Culture, e la collaborazione di 100autori – Associazione dell’Autorialità Cinetelevisiva, ABP – Association belgo palestinienne, AFIC – Associazione Festival Italiani di Cinema, All for One, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD), Associazione Cultura è Libertà, una Campagna per la Palestina, Associazione Spazio Libero, Astràgali Teatro, Bookciak Magazine, Carmel Sweden Foundation – chaired by Mohammed Al-Sahli, Casa Internazionale delle Donne, Cinema senza diritti, Escuela Internacional de Cine y Televisión de San Antonio de los Baños – Cuba, EWA – European Women’s Audiovisual Network, International Federation of Arab Film Festivals – 25 festivals, chaired by Ezzaldeen Shalah, Jerusalem International Festival of Gaza, Leeds Palestinian Film Festival, NAZRA – Palestine Short Film Festival, Palestine Cultural Platform, Palestine Film Institute, Palestine Museum US, Resistance Culture Foundation – chaired by Brazilian filmmaker Yara Lee, Rete Ricerca e Università per la Palestina – RUP, Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese, Sumer Ad and Art Production, Visionarie – Donne tra Cinema, Tv e Racconto, Women’s International Democratic Federation – WIDF – FDIM, 46th Florence International Women’s Film Festival, Dar Al Thaqafa Academy – Libano).  I PAESI DA CUI PROVENGONO I FILM IN CONCORSO Italia, Francia, Iraq, Egitto, Marocco, Siria, Libano, Algeria, Tunisia, Oman, Kuwait, Qatar, Canada, Svezia, Emirati Arabi Uniti, Argentina, Iran, Australia, Belgio, Giordania, Sudan, Kenya, Yemen, Arabia Saudita, Australia, Germania, Finlandia, Danimarca. v. anche https://palestinaculturaliberta.org/2025/10/24/gaza-international-festival-for-womens-cinema-si-fara-nella-striscia-con-quello-che-resta/ L'articolo Quando l’arte fa l’impossibile proviene da Comune-info.