La collina degli spettatori

Comune-info - Friday, July 25, 2025

La collina è lì da sempre. Una lingua di terra tra il cielo e il fuoco. La chiamano Givat Kobi, e in questi mesi è diventata famosa. Non per la vista, ma per quello che si guarda. Siamo a Sderot, sud di Israele, a pochi chilometri da Gaza. In fondo, oltre la linea dell’orizzonte, si alza il fumo dei bombardamenti. Ogni botto, ogni scintilla, ogni colonna grigia che si apre nel cielo corrisponde a una bomba che cade. Lontano abbastanza da non sentire le urla, ma vicino abbastanza da vederne lo spettacolo.

Yedidya Epstein, giornalista ultraortodosso, ha pubblicato su X un video: ragazzi, famiglie, auto in doppia fila. Sedie pieghevoli, telefoni puntati, risate. Qualcuno mangia qualcosa. Qualcuno scatta selfie. Due cugine di sedici e diciassette anni sono venute perché lo zio le ha rimproverate: “Non siete mai state al cinema di Sderot”. Un ragazzo ha portato con sé i figli della compagna: cinque e otto anni. “Voglio fargli vedere cosa resta di Gaza”, dice.

La guerra come intrattenimento

C’è un punto preciso in cui il dolore dell’altro smette di esistere. Non per assenza, ma per distanza. È il momento nel quale l’altro diventa solo sfondo, rumore, nemico, punizione. E in quel momento, qualcosa si spezza. Non solo fuori, ma dentro.

Guardare le bombe che cadono su Gaza come si guarda un tramonto. Fotografarle. Postarle. Commentarle. Ridere. Tutto questo non è solo indifferenza. È qualcosa di più profondo e più oscuro: la perdita dello sguardo che riconosce, che trattiene, che si ferma. È disumanizzazione.

Non è la prima volta. Già nel 2014, durante un’altra offensiva militare, si vedevano famiglie sedute su altre colline, con bibite e snack, ad applaudire le esplosioni. Succedeva anche altrove, nella storia. Succede ancora oggi. Quando si smette di vedere l’altro come essere umano, ogni atto diventa possibile. Anche ridere mentre qualcuno muore.

“La disumanizzazione dell’Altro – in tutte le sue manifestazioni – è ciò che rende possibile il crimine di genocidio. Ieri e oggi”. (Francesca Albanese). Disegno di Gianluca Costantini

Chi non ha volto

La disumanizzazione accade spesso in silenzio. Un passo alla volta. Una parola. Un’immagine. Una scelta. L’altro comincia a non avere più un volto. È un numero. È “terrorista”, “barbaro”, “scudo umano”. È un problema da eliminare, non una vita da salvare.

In guerra, questa logica prende il sopravvento. Si spegne l’empatia e si accende il calcolo. La morte non pesa più. Anzi, diventa un risultato. Un dato. Un bersaglio centrato. Anche i bambini diventano strumento di propaganda: “Gli faccio vedere cosa resta di Gaza”, dice quel ragazzo con i due piccoli. Come se la guerra fosse una gita. Come se la violenza potesse essere insegnata.

Ma non è solo questione di Israele o Palestina. È lo stesso meccanismo che ha permesso ai soldati nazisti di ridere nei campi. Che fa accorrere i curiosi alle frontiere per “vedere i migranti”. Che diffonde sui social le immagini dei cadaveri con ironia o indifferenza.

Il male, scriveva Hannah Arendt, può essere banale. Ma prima ancora, è distante. Ciò che è lontano smette di farci male. O peggio: smette di riguardarci.

Il carburante della guerra

La disumanizzazione è il carburante puro di ogni conflitto. Perché se l’altro non è umano, allora non c’è colpa. Non c’è dubbio. Non c’è pietà. E se l’altro non soffre come me, allora non c’è alcun motivo per fermarsi. Così la guerra diventa eterna. Si autoalimenta. Ogni morte giustifica la prossima. Ogni bomba chiama vendetta. Ogni colpa annulla la propria.

Judith Butler ci insegna che alcune vite vengono raccontate, altre semplicemente cancellate. Alcune sono visibili, piangibili, degne di lutto. Altre, no. Giorgio Agamben ci mostra che esistono luoghi e momenti in cui si può morire senza che nessuno se ne assuma la responsabilità: spazi in cui si vive come nuda vita, corpi ridotti a esistenza biologica, fuori dal diritto. David Livingstone Smith ci avverte: ogni guerra inizia quando smettiamo di vedere l’altro come umano. Quando lo trasformiamo in bersaglio, in minaccia, in spettacolo.

Come da quella collina, a Givat Kobi.

Foto Esc, Roma

Imparare a vedere

Forse è proprio questo il compito più difficile oggi: insegnare a vedere. Non il fumo, non le bombe, non i confini. Ma i volti. Le storie. Le mani. Perché l’umano non è una categoria naturale. È una scelta quotidiana. È uno sguardo che non si volta. È la capacità di sentire la ferita dell’altro come se fosse la propria.

“La pace non si fa tra governi, ma tra uomini che si guardano negli occhi”, scriveva Yehuda Amichai. E forse è proprio questo che manca, su quella collina. Lo sguardo. L’incontro. Il riconoscimento che dall’altra parte del fumo, oltre quella linea d’orizzonte, ci sono altri occhi come i nostri. Altri che guardano il cielo e sperano che le bombe smettano di cadere.

La collina è lì da sempre. Ma quello che scegliamo di vedere da lassù, quello siamo noi.

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