
La deriva di Israele
Comune-info - Wednesday, July 16, 2025
«La guerra non potrà mai essere la soluzione – scrive Anna Foa – La vera sconfitta del terrorismo si ottiene solo riconoscendo i diritti dell’altro». C’è qualcosa di doloroso nel titolo del libro, Il suicidio di Israele (Laterza) di Foa, storica autorevole dell’ebraismo italiano. Un titolo che non allude alla fine di uno Stato, ma alla perdita della sua anima democratica, della sua legittimità etica e della sua capacità di immaginare un futuro in cui la convivenza sia possibile. In un momento in cui il dibattito su Israele è molto polarizzato, porta una posizione nata da una riflessione profonda e onesta: sostiene l’esistenza di Israele ma ne critica duramente la deriva autoritaria, l’erosione democratica e la crescente militarizzazione della società.
Il “suicidio” di cui parla è politico e morale: l’abbandono dei valori democratici e laici su cui fu fondato lo Stato, la frattura crescente tra laici e religiosi, l’abbandono graduale dei valori civili.
Foa denuncia come la militarizzazione permanente e l’approccio bellico abbiano corroso dall’interno la società israeliana, allontanandola dai suoi principi fondativi.
«Nessuna guerra può estirpare del tutto il terrore se non si affrontano le cause profonde che lo alimentano».
Il rischio, sostiene, è che la guerra diventi un’autodistruzione morale di Israele stesso: annichilire Gaza, colpire civili, bombardare senza limiti può portare a un punto di non ritorno per la legittimità internazionale di Israele e per il suo stesso progetto democratico.
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La fine di Israele
Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, la risposta militare israeliana, infatti, ha assunto i tratti di una vendetta cieca. Bombardamenti incessanti su Gaza, migliaia di morti civili, l’uso della forza come unica lingua. Eppure, osserva Foa, la violenza non elimina il terrorismo, lo alimenta. Non è la distruzione di Gaza che renderà Israele più sicuro, ma il riconoscimento di una verità negata da troppo tempo: il diritto del popolo palestinese ad avere uno Stato sovrano, libero e dignitoso. «Ogni rifiuto di ascoltare l’altro è un passo verso l’abisso. E oggi Israele è sull’orlo di quell’abisso», scrive Foa.
Il libro ripercorre le tappe della crisi israeliana, dall’assassinio di Rabin – figura tragica di una pace tradita – fino alla deriva autoritaria dell’attuale governo Netanyahu, sostenuto da settori ultraortodossi e nazionalisti. Una degenerazione che ha spaccato la società israeliana e ha isolato il Paese sul piano internazionale. Eppure, le alternative c’erano: gli Accordi di Oslo potevano essere il punto di svolta, ma si è preferito l’occupazione, l’espansione delle colonie, la logica del nemico permanente.
La tesi di Foa è netta: Israele non può continuare a negare l’esistenza politica della Palestina e insieme sopravvivere come democrazia. Perché chi occupa, reprime e discrimina tradisce non solo i diritti dell’altro, ma anche i propri. «Lo Stato ebraico rischia di perdere ciò che lo rendeva diverso: il suo legame con la memoria della giustizia».
La riflessione di Foa è anche un appello alla diaspora ebraica europea e americana. Troppo spesso – per paura, per senso di colpa, o per un frainteso spirito di appartenenza – si tace di fronte a scelte politiche che contraddicono i valori fondanti dell’ebraismo e dell’esperienza della Shoah. Ma criticare Israele non è antisemitismo, è assunzione di responsabilità. È dire: “Non in mio nome”.
Oggi, in un’epoca segnata da nuove guerre e da vecchi odi, le parole di Anna Foa ci obbligano a pensare. E a scegliere. Perché continuare su questa strada – quella del dominio e della paura – significa davvero il suicidio. Non solo di Israele, ma della possibilità stessa di una giustizia condivisa tra i popoli. «Due Stati, entrambi liberi e democratici, sono l’unica salvezza. Ogni altra via porta solo altra morte».
Ho avuto modo di ascoltare alcuni giorni fa Anna Foa ad una presentazione di questo libro. Ho ascoltato molto volentieri una donna molto competente, una storica, che ha però messo a disposizione ciò che sapeva per leggere il presente, senza paura di suscitare critiche anche dure e pesanti. Ha indicato una strada: quella di guardare la storia per poter vivere in modo consapevole il presente. Un intellettuale che usa la competenza come responsabilità, un segno di coraggio civile che oggi non sono così comuni. Foa apre un dibattito scomodo — anche dentro il mondo ebraico — mettendo in discussione ciò che molti difendono acriticamente per appartenenza, per paura o per automatismo ideologico. Quello che rende il suo libro così importante è proprio questo: non è una denuncia ideologica, ma una riflessione storica che cerca di salvare — non distruggere — la possibilità di un futuro. Foa, con lucidità e dolore, chiede a Israele di riconoscere lo Stato palestinese, di porre fine all’uso della forza, di tornare al diritto. Il fatto che lei sia stata anche attaccata per questo conferma quanto sia fragile oggi lo spazio del pensiero critico. E quanto ci sia bisogno di voci che, come la sua, non cedano alla pressione del consenso o del silenzio.
Penso che ascoltare chi — come Anna Foa — cerca di tenere insieme memoria, giustizia e coraggio sia oggi un gesto urgente. Non per schierarsi, ma per comprendere. E perché la pace, come la verità, non nasce mai da una sola voce.
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