
Dimenticare per sopravvivere
Comune-info - Tuesday, July 15, 2025Sappiamo che la pandemia non è stata per nulla democratica e che la sua eredità ha lasciato tante pesanti conseguenze prima di tutto sul benessere dei giovani. Eppure da quando la crisi pandemica è rientrata, poco o nulla si è detto in modo approfondito su un evento tanto recente quanto drammatico. “Il legame stretto tra uscita dalla crisi e oblio generalizzato si basa su un tipo di narrazione che promuove l’autoassoluzione da parte degli organi del potere”, scrive Stefano Rota, ricercatore. L’obiettivo principale, distogliere l’attenzione dalle vere cause, è stato pienamente raggiunto

Una recente ricerca sulla relazione tra la pandemia di Covid-19 e la vita dei migranti ha consentito di dialogare con diversi soggetti che hanno vissuto tale relazione da prospettive differenti: accademici/e, rappresentanti di istituzioni locali, professionisti del settore sociale e gli stessi migranti. Molti dei nostri interlocutori, ascoltando il tema di cui si voleva trattare, si sono mostrati interessati ma, allo stesso tempo, sorpresi. Sembrava dovessero fare uno sforzo mnemonico, rovistare nel baule dei ricordi per trovare qualcosa che era già stato archiviato. La ragione di tale sorpresa e interesse si trova in un dato inconfutabile: l’oblio generalizzato da parte della popolazione di ciò che è accaduto e la normalizzazione delle conseguenze, sancita dal ritornello “torniamo alla normalità!”.
Da quando la crisi pandemica è rientrata, poco o nulla si è detto in modo approfondito su un evento tanto recente quanto drammatico. Nessuno, o quasi nessuno, ha sentito il bisogno di riflettere retroattivamente su quanto è stato detto, legiferato, vissuto. Nessuno, o quasi nessuno, ha cercato di analizzare in maniera dettagliata quali trasformazioni, dirette o indirette, siano state indotte in quei due anni e mezzo e in che modo abbiano inciso sulla vita di tutti noi, in particolare su alcuni settori del corpo sociale.
Non si vuole qui riprendere il vasto e importante dibattito che ha dato origine a posizioni molto chiare e contrapposte sul ruolo degli strumenti utilizzati dai governi europei per affrontare la crisi pandemica. Quello che interessa, al contrario, è sottolineare in modo generale l’impatto che essa ha avuto sulle vite, o meglio, a livello delle vite. L’obiettivo di queste pagine provvisorie è dunque tentare di trovare una risposta, anch’essa provvisoria, alla domanda: “Sono passati solo tre anni, com’è possibile che abbiamo già dimenticato tutto?”
La pandemia ha generato profonde divisioni e diversi livelli di attenzione all’interno della popolazione, sia nel suo insieme che nella sua componente lavorativa. La sovrapposizione di queste due entità (popolazione generale e popolazione lavorativa) ha rivelato come, fin dall’inizio del periodo pandemico, la governamentalità della crisi abbia messo in evidenza la coesistenza di lavori indispensabili e corpi dispensabili.
Non si tratta di un aspetto che inizia e finisce con le condizioni lavorative di una parte della popolazione. Al contrario, ha a che fare con le sue condizioni di esistenza, che vanno dalle abitazioni ai mezzi di trasporto, dall’accesso ai servizi sanitari alle opportunità di sostegno sociale e psicologico per i più fragili. In altre parole, la pandemia non è stata “democratica”, non ha colpito tutti allo stesso modo: ha messo in luce e accentuato le disuguaglianze già esistenti. Le misure biopolitiche adottate sono misure razziste: hanno approfondito il solco tra chi aveva mezzi e chi no. Ovviamente, tra questi ultimi vi sono anche molti “autoctoni”, non solo migranti.
Tutto questo era già evidente dopo il primo anno dall’esplosione della pandemia, e lo è rimasto fino alla “fine”. Ma allora, che fine hanno fatto le nostre critiche, la solidarietà militante, le nostre sperimentazioni di mutuo soccorso? Che ne è di quel secondo ritornello, tanto patetico quanto il primo, sebbene un po’ più ottimista, che ripeteva “nulla sarà più come prima”?
Tutto è stato dimenticato, perché tutto è stato superato – o viceversa. Esiste una “grammatica della crisi”, come opportunamente la definisce Daniele Lorenzini in un articolo pubblicato in inglese e in italiano, che fa sì che tutto ciò che viene detto si incastri entro quelle regole, compresi i nostri pensieri. Le crisi del capitalismo condividono, in sostanza, la stessa grammatica: l’uscita dalla crisi traccia il cammino verso una nuova fase di sviluppo, pur restando interamente contenuta nelle logiche di funzionamento del capitale. Nuove sfide, nuove misure, in uno spazio che può espandersi in una direzione o nell’altra, mantenendo però inalterati i presupposti che costituiscono le fondamenta economiche, sociali e culturali del sistema di norme in cui viviamo. “There’s no alternative”, come ha amaramente sottolineato Mark Fisher, riprendendo un’espressione drammatica, benché molto “realistica”, di Margaret Thatcher.
Il legame stretto tra uscita dalla crisi e oblio generalizzato si basa su un tipo di narrazione che promuove l’autoassoluzione da parte degli organi del potere. Questi presentano le cause delle crisi come qualcosa di esterno alle loro scelte e politiche, qualcosa che proviene dall’esterno (mercati finanziari globali, mutamenti nei Paesi “periferici”, cambiamenti climatici, abitudini malsane, strategie di laboratori biologici), insomma, come qualcosa di incontrollabile.
Agendo in questo modo, tali organi promuovono la naturalizzazione delle crisi e, al contempo, la loro neutralizzazione, ricorrendo a strumenti che sono perfettamente compatibili con le stesse condizioni che le hanno generate. Di conseguenza, il sistema di norme che regola le vite propone misure che distribuiscono in modo diseguale e discriminatorio le risorse per difendersi dagli effetti negativi prodotti. Neutralizzare le crisi tramite la loro naturalizzazione significa intervenire proponendo misure il cui obiettivo principale è distogliere l’attenzione dalle loro vere cause. La condizione affinché tale distorsione abbia successo è indurre e mantenere l’unione della popolazione attorno ad alcuni elementi essenziali, indiscutibili. Da lì in poi, ogni misura adottata può – e deve – trovare il sostegno della popolazione, se non nella sua totalità, almeno nella sua ampia maggioranza. Per gli altri non resta che lo stigma, le peggiori accuse. Tutto ciò che mette in discussione la validità di queste misure viene bollato come fake news. I fondi stanziati per il post-crisi (i PNRR nazionali) avallano questa logica di autoassoluzione e relegano nell’oblio sia le cause, sia gli effetti delle crisi, subito dopo la loro apparente – o solo proclamata – risoluzione.
Dimenticare è una necessità. “Accettare senza mettere in discussione l’incommensurabile e l’insano – scrive Fisher nel suo Realismo capitalista – è [nel tardo capitalismo] una tecnica che svolge un ruolo speciale”. Ogni volta che si reinventa qualcosa, l’“oblio collettivo” è indotto come tecnica di adattamento al nuovo – purché quella reinvenzione possa, in qualche modo, essere associata all’idea di novità.
Poiché tutto è precario, “dimenticare diventa una strategia di adattamento” 1, la cui efficacia è legata a una percezione del tempo in cui passato e futuro collassano in un eterno presente. Mantenere tutto nel presente significa alterare le condizioni per l’analisi di un’esperienza vissuta, che ha bisogno del passato, così come della capacità di immaginare il futuro, per trasformare entrambi. Se tutto accade oggi, non c’è bisogno né di ricordare, né di immaginare, come ci insegna bene la vita digitale nei social network.
Adattarsi a cosa?
Una risposta piuttosto chiara emerge nel testo già citato di Lorenzini. Nel considerare che il nuovo paradigma governamentale implichi “un’estensione pericolosa dell’ambito di intervento dei meccanismi di potere”, ciò che interessa Lorenzini è la reazione che proviene dalla parte dei “governati”. Per quanto riguarda la pandemia, ciò che lo sorprende è il fatto che così tanti di noi abbiano rispettato le regole del confinamento anche “quando il rischio di sanzioni, nella maggior parte dei casi, era basso”. Questo perché “il potere disciplinare e biopolitico funziona in modo automatico, invisibile e ordinario” 2.
Ecco dunque l’adattamento che si riferisce a misure adottate in tempi “eccezionali”, che diventano rapidamente normali, ordinarie. Il passaggio all’oblio è fondamentale e indolore: l’eccezionale si dissolve fino a diventare irriconoscibile come tale, perché il nostro oggi – dove il passato è collassato – non ci permette più di rilevarlo.
Questo avviene in un contesto in cui non si può dire che manchino segni evidenti dell’eredità lasciataci sia dalla pandemia in sé, sia dalle misure adottate in quel periodo. Segni che, vale la pena ripeterlo, si fondano sulle disuguaglianze sociali preesistenti alla crisi e che la crisi stessa ha accentuato.
Una generazione di giovani è stesa sui divani degli studi degli psicanalisti, oppure assume psicofarmaci, o entrambe le cose. Sempre tra i giovani, le relazioni sono per la stragrande maggioranza virtuali; il sesso è diventato una pratica insolita, quasi esoterica. I casi di autismo tra i bambini sono esplosi, il sonno tra giovani e adulti è diventato un evento raro, come emerge dagli studi e dalle ricerche dell’antropologa medica Stefania Consigliere e dell’antropologa culturale Cristina Zavaroni. È difficile negare che siano conseguenze del periodo pandemico.
Rimozione forzata. Cinque anni dal lockdown e (fingere di) non sentirli – di Consigliere & Zavaroni. Con una postilla di Wu Ming.
Ciononostante, vi è un’accettazione acritica di queste condizioni nei grandi media e nelle scelte politiche dei governi e delle oligarchie che gestiscono le nostre vite. I servizi sanitari nazionali e quelli educativi sono sempre più carenti, e nessun investimento serio è stato fatto per metterli in condizione di affrontare i cambiamenti nelle condizioni di vita di una parte consistente della popolazione. Al contrario, cresce il peso – e il finanziamento – del settore privato in entrambi gli ambiti, il cui funzionamento resta ben lontano dalla promozione del benessere collettivo.
Le conseguenze nel mondo del lavoro seguono la stessa linea. Le numerose pubblicazioni sulla gestione del lavoro durante la pandemia e sui cambiamenti strutturali che ne sono derivati descrivono uno scenario piuttosto chiaro. Le differenze tra i mercati del lavoro e le regole che li governano diventano sempre più profonde, con livelli di garanzia e possibilità di contrattazione che aprono un abisso tra loro. Il dominio del ricatto in molti impieghi è una realtà visibile a tutti coloro che vogliono vederla.
Con la pandemia, l’individualismo che sostituisce l’idea del collettivo – che rappresenta la sfida centrale del neoliberismo – diventa la regola generale. L’“amazonizzazione” del lavoro e della società nel suo complesso cambia le relazioni tra i tempi che compongono le nostre vite, cambia la stessa idea di impiego. Nulla di nuovo, certo, ma tutto è stato accelerato con una velocità impressionante. Non ha nemmeno più senso parlare in termini di precarietà dell’impiego; forse, sarebbe più opportuno parlare di nomadismo come condizione esistenziale, che va ben oltre il solo ambito lavorativo.
Riprendiamo solo un aspetto emerso dalla ricerca menzionata all’inizio. Avere l’obbligo, per esempio, di andare a lavorare in condizioni già pessime – oltre a quelle eccezionali imposte dalla crisi pandemica, che le hanno ulteriormente peggiorate – come nel caso dei cantieri navali di Genova, rappresenta una grave forma di “attenzione differenziale” rispetto al mondo del lavoro. Una testimonianza raccolta ci racconta di mascherine fradice e sporche come stracci, che i lavoratori dovevano indossare per ore in luoghi con oltre 40 gradi di calore. Il settore delle costruzioni navali non si è fermato, se non per un breve periodo: le grandi compagnie che avevano ordinato le nuove navi volevano che fossero consegnate subito dopo la fine della pandemia, per recuperare il denaro perso con il blocco forzato delle loro attività di crociera.
Una situazione che si può moltiplicare per migliaia di lavoratori, se consideriamo il lavoro di pulizia, l’assistenza personale, il settore della ristorazione, le consegne di cibo e di qualsiasi altro bene, così come l’agricoltura e l’edilizia civile.
L’uscita dalla pandemia e, soprattutto, i fondi stanziati tramite i PNRR avrebbero potuto rappresentare un’opportunità per le cosiddette forze progressiste per ripensare in qualche modo le condizioni di vita e di lavoro, così come il ruolo dei servizi essenziali. Poteva essere il momento giusto per organizzare una mobilitazione generale che mettesse al centro la vita, in tutti i suoi aspetti cruciali. Non è accaduto. Probabilmente non avrebbe nemmeno avuto molto successo. La spada di Damocle del ricatto e, in seguito, l’adattamento e l’oblio hanno colonizzato il nostro inconscio, fino a rendere tutto – drammaticamente – ordinario.
Note
1 M. Fisher, Realismo Capitalista, Nero Edizioni, Roma, 2018, p.114-116
2 D. Lorenzini, La biopolitica al tempo del coronavirus, Transglobal, https://associazionetransglobal.jimdofree.com/2021/03/09/la-biopolitica-ai-tempi-del-coronavirus/
Stefano Rota, ricercatore indipendente, gestisce il blog “Transglobal”, la sua più recente pubblicazione collettiva è La fabbrica del soggetto, Ilva 1958-Amazon 2021, Sensibili alle foglie, Roma 2023. Collabora occasionalmente con riviste online italiane e lusofone. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI S. GANDINI E P. BARTOLINI:
Dopo il Covid
L'articolo Dimenticare per sopravvivere proviene da Comune-info.