Dimenticare per sopravvivere
SAPPIAMO CHE LA PANDEMIA NON È STATA PER NULLA DEMOCRATICA E CHE LA SUA EREDITÀ
HA LASCIATO TANTE PESANTI CONSEGUENZE PRIMA DI TUTTO SUL BENESSERE DEI GIOVANI.
EPPURE DA QUANDO LA CRISI PANDEMICA È RIENTRATA, POCO O NULLA SI È DETTO IN MODO
APPROFONDITO SU UN EVENTO TANTO RECENTE QUANTO DRAMMATICO. “IL LEGAME STRETTO
TRA USCITA DALLA CRISI E OBLIO GENERALIZZATO SI BASA SU UN TIPO DI NARRAZIONE
CHE PROMUOVE L’AUTOASSOLUZIONE DA PARTE DEGLI ORGANI DEL POTERE”, SCRIVE STEFANO
ROTA, RICERCATORE. L’OBIETTIVO PRINCIPALE, DISTOGLIERE L’ATTENZIONE DALLE VERE
CAUSE, È STATO PIENAMENTE RAGGIUNTO
Tratta da Pixabay.com
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Una recente ricerca sulla relazione tra la pandemia di Covid-19 e la vita dei
migranti ha consentito di dialogare con diversi soggetti che hanno vissuto tale
relazione da prospettive differenti: accademici/e, rappresentanti di istituzioni
locali, professionisti del settore sociale e gli stessi migranti. Molti dei
nostri interlocutori, ascoltando il tema di cui si voleva trattare, si sono
mostrati interessati ma, allo stesso tempo, sorpresi. Sembrava dovessero fare
uno sforzo mnemonico, rovistare nel baule dei ricordi per trovare qualcosa che
era già stato archiviato. La ragione di tale sorpresa e interesse si trova in un
dato inconfutabile: l’oblio generalizzato da parte della popolazione di ciò che
è accaduto e la normalizzazione delle conseguenze, sancita dal ritornello
“torniamo alla normalità!”.
Da quando la crisi pandemica è rientrata, poco o nulla si è detto in modo
approfondito su un evento tanto recente quanto drammatico. Nessuno, o quasi
nessuno, ha sentito il bisogno di riflettere retroattivamente su quanto è stato
detto, legiferato, vissuto. Nessuno, o quasi nessuno, ha cercato di analizzare
in maniera dettagliata quali trasformazioni, dirette o indirette, siano state
indotte in quei due anni e mezzo e in che modo abbiano inciso sulla vita di
tutti noi, in particolare su alcuni settori del corpo sociale.
Non si vuole qui riprendere il vasto e importante dibattito che ha dato origine
a posizioni molto chiare e contrapposte sul ruolo degli strumenti utilizzati dai
governi europei per affrontare la crisi pandemica. Quello che interessa, al
contrario, è sottolineare in modo generale l’impatto che essa ha avuto sulle
vite, o meglio, a livello delle vite. L’obiettivo di queste pagine provvisorie è
dunque tentare di trovare una risposta, anch’essa provvisoria, alla domanda:
“Sono passati solo tre anni, com’è possibile che abbiamo già dimenticato tutto?”
La pandemia ha generato profonde divisioni e diversi livelli di attenzione
all’interno della popolazione, sia nel suo insieme che nella sua componente
lavorativa. La sovrapposizione di queste due entità (popolazione generale e
popolazione lavorativa) ha rivelato come, fin dall’inizio del periodo pandemico,
la governamentalità della crisi abbia messo in evidenza la coesistenza di lavori
indispensabili e corpi dispensabili.
Non si tratta di un aspetto che inizia e finisce con le condizioni lavorative di
una parte della popolazione. Al contrario, ha a che fare con le sue condizioni
di esistenza, che vanno dalle abitazioni ai mezzi di trasporto, dall’accesso ai
servizi sanitari alle opportunità di sostegno sociale e psicologico per i più
fragili. In altre parole, la pandemia non è stata “democratica”, non ha colpito
tutti allo stesso modo: ha messo in luce e accentuato le disuguaglianze già
esistenti. Le misure biopolitiche adottate sono misure razziste: hanno
approfondito il solco tra chi aveva mezzi e chi no. Ovviamente, tra questi
ultimi vi sono anche molti “autoctoni”, non solo migranti.
Tutto questo era già evidente dopo il primo anno dall’esplosione della pandemia,
e lo è rimasto fino alla “fine”. Ma allora, che fine hanno fatto le nostre
critiche, la solidarietà militante, le nostre sperimentazioni di mutuo soccorso?
Che ne è di quel secondo ritornello, tanto patetico quanto il primo, sebbene un
po’ più ottimista, che ripeteva “nulla sarà più come prima”?
Tutto è stato dimenticato, perché tutto è stato superato – o viceversa. Esiste
una “grammatica della crisi”, come opportunamente la definisce Daniele Lorenzini
in un articolo pubblicato in inglese e in italiano, che fa sì che tutto ciò che
viene detto si incastri entro quelle regole, compresi i nostri pensieri. Le
crisi del capitalismo condividono, in sostanza, la stessa grammatica: l’uscita
dalla crisi traccia il cammino verso una nuova fase di sviluppo, pur restando
interamente contenuta nelle logiche di funzionamento del capitale. Nuove sfide,
nuove misure, in uno spazio che può espandersi in una direzione o nell’altra,
mantenendo però inalterati i presupposti che costituiscono le fondamenta
economiche, sociali e culturali del sistema di norme in cui viviamo. “There’s no
alternative”, come ha amaramente sottolineato Mark Fisher, riprendendo
un’espressione drammatica, benché molto “realistica”, di Margaret Thatcher.
Il legame stretto tra uscita dalla crisi e oblio generalizzato si basa su un
tipo di narrazione che promuove l’autoassoluzione da parte degli organi del
potere. Questi presentano le cause delle crisi come qualcosa di esterno alle
loro scelte e politiche, qualcosa che proviene dall’esterno (mercati finanziari
globali, mutamenti nei Paesi “periferici”, cambiamenti climatici, abitudini
malsane, strategie di laboratori biologici), insomma, come qualcosa di
incontrollabile.
Agendo in questo modo, tali organi promuovono la naturalizzazione delle crisi e,
al contempo, la loro neutralizzazione, ricorrendo a strumenti che sono
perfettamente compatibili con le stesse condizioni che le hanno generate. Di
conseguenza, il sistema di norme che regola le vite propone misure che
distribuiscono in modo diseguale e discriminatorio le risorse per difendersi
dagli effetti negativi prodotti. Neutralizzare le crisi tramite la loro
naturalizzazione significa intervenire proponendo misure il cui obiettivo
principale è distogliere l’attenzione dalle loro vere cause. La condizione
affinché tale distorsione abbia successo è indurre e mantenere l’unione della
popolazione attorno ad alcuni elementi essenziali, indiscutibili. Da lì in poi,
ogni misura adottata può – e deve – trovare il sostegno della popolazione, se
non nella sua totalità, almeno nella sua ampia maggioranza. Per gli altri non
resta che lo stigma, le peggiori accuse. Tutto ciò che mette in discussione la
validità di queste misure viene bollato come fake news. I fondi stanziati per il
post-crisi (i PNRR nazionali) avallano questa logica di autoassoluzione e
relegano nell’oblio sia le cause, sia gli effetti delle crisi, subito dopo la
loro apparente – o solo proclamata – risoluzione.
Dimenticare è una necessità. “Accettare senza mettere in discussione
l’incommensurabile e l’insano – scrive Fisher nel suo Realismo capitalista – è
[nel tardo capitalismo] una tecnica che svolge un ruolo speciale”. Ogni volta
che si reinventa qualcosa, l’“oblio collettivo” è indotto come tecnica di
adattamento al nuovo – purché quella reinvenzione possa, in qualche modo, essere
associata all’idea di novità.
Poiché tutto è precario, “dimenticare diventa una strategia di adattamento” 1,
la cui efficacia è legata a una percezione del tempo in cui passato e futuro
collassano in un eterno presente. Mantenere tutto nel presente significa
alterare le condizioni per l’analisi di un’esperienza vissuta, che ha bisogno
del passato, così come della capacità di immaginare il futuro, per trasformare
entrambi. Se tutto accade oggi, non c’è bisogno né di ricordare, né di
immaginare, come ci insegna bene la vita digitale nei social network.
Adattarsi a cosa?
Una risposta piuttosto chiara emerge nel testo già citato di Lorenzini. Nel
considerare che il nuovo paradigma governamentale implichi “un’estensione
pericolosa dell’ambito di intervento dei meccanismi di potere”, ciò che
interessa Lorenzini è la reazione che proviene dalla parte dei “governati”. Per
quanto riguarda la pandemia, ciò che lo sorprende è il fatto che così tanti di
noi abbiano rispettato le regole del confinamento anche “quando il rischio di
sanzioni, nella maggior parte dei casi, era basso”. Questo perché “il potere
disciplinare e biopolitico funziona in modo automatico, invisibile e ordinario”
2.
Ecco dunque l’adattamento che si riferisce a misure adottate in tempi
“eccezionali”, che diventano rapidamente normali, ordinarie. Il passaggio
all’oblio è fondamentale e indolore: l’eccezionale si dissolve fino a diventare
irriconoscibile come tale, perché il nostro oggi – dove il passato è collassato
– non ci permette più di rilevarlo.
Questo avviene in un contesto in cui non si può dire che manchino segni evidenti
dell’eredità lasciataci sia dalla pandemia in sé, sia dalle misure adottate in
quel periodo. Segni che, vale la pena ripeterlo, si fondano sulle disuguaglianze
sociali preesistenti alla crisi e che la crisi stessa ha accentuato.
Una generazione di giovani è stesa sui divani degli studi degli psicanalisti,
oppure assume psicofarmaci, o entrambe le cose. Sempre tra i giovani, le
relazioni sono per la stragrande maggioranza virtuali; il sesso è diventato una
pratica insolita, quasi esoterica. I casi di autismo tra i bambini sono esplosi,
il sonno tra giovani e adulti è diventato un evento raro, come emerge dagli
studi e dalle ricerche dell’antropologa medica Stefania Consigliere e
dell’antropologa culturale Cristina Zavaroni. È difficile negare che siano
conseguenze del periodo pandemico.
> Rimozione forzata. Cinque anni dal lockdown e (fingere di) non sentirli – di
> Consigliere & Zavaroni. Con una postilla di Wu Ming.
Ciononostante, vi è un’accettazione acritica di queste condizioni nei grandi
media e nelle scelte politiche dei governi e delle oligarchie che gestiscono le
nostre vite. I servizi sanitari nazionali e quelli educativi sono sempre più
carenti, e nessun investimento serio è stato fatto per metterli in condizione di
affrontare i cambiamenti nelle condizioni di vita di una parte consistente della
popolazione. Al contrario, cresce il peso – e il finanziamento – del settore
privato in entrambi gli ambiti, il cui funzionamento resta ben lontano dalla
promozione del benessere collettivo.
Le conseguenze nel mondo del lavoro seguono la stessa linea. Le numerose
pubblicazioni sulla gestione del lavoro durante la pandemia e sui cambiamenti
strutturali che ne sono derivati descrivono uno scenario piuttosto chiaro. Le
differenze tra i mercati del lavoro e le regole che li governano diventano
sempre più profonde, con livelli di garanzia e possibilità di contrattazione che
aprono un abisso tra loro. Il dominio del ricatto in molti impieghi è una realtà
visibile a tutti coloro che vogliono vederla.
Con la pandemia, l’individualismo che sostituisce l’idea del collettivo – che
rappresenta la sfida centrale del neoliberismo – diventa la regola generale.
L’“amazonizzazione” del lavoro e della società nel suo complesso cambia le
relazioni tra i tempi che compongono le nostre vite, cambia la stessa idea di
impiego. Nulla di nuovo, certo, ma tutto è stato accelerato con una velocità
impressionante. Non ha nemmeno più senso parlare in termini di precarietà
dell’impiego; forse, sarebbe più opportuno parlare di nomadismo come condizione
esistenziale, che va ben oltre il solo ambito lavorativo.
Riprendiamo solo un aspetto emerso dalla ricerca menzionata all’inizio. Avere
l’obbligo, per esempio, di andare a lavorare in condizioni già pessime – oltre a
quelle eccezionali imposte dalla crisi pandemica, che le hanno ulteriormente
peggiorate – come nel caso dei cantieri navali di Genova, rappresenta una grave
forma di “attenzione differenziale” rispetto al mondo del lavoro. Una
testimonianza raccolta ci racconta di mascherine fradice e sporche come stracci,
che i lavoratori dovevano indossare per ore in luoghi con oltre 40 gradi di
calore. Il settore delle costruzioni navali non si è fermato, se non per un
breve periodo: le grandi compagnie che avevano ordinato le nuove navi volevano
che fossero consegnate subito dopo la fine della pandemia, per recuperare il
denaro perso con il blocco forzato delle loro attività di crociera.
Una situazione che si può moltiplicare per migliaia di lavoratori, se
consideriamo il lavoro di pulizia, l’assistenza personale, il settore della
ristorazione, le consegne di cibo e di qualsiasi altro bene, così come
l’agricoltura e l’edilizia civile.
L’uscita dalla pandemia e, soprattutto, i fondi stanziati tramite i PNRR
avrebbero potuto rappresentare un’opportunità per le cosiddette forze
progressiste per ripensare in qualche modo le condizioni di vita e di lavoro,
così come il ruolo dei servizi essenziali. Poteva essere il momento giusto per
organizzare una mobilitazione generale che mettesse al centro la vita, in tutti
i suoi aspetti cruciali. Non è accaduto. Probabilmente non avrebbe nemmeno avuto
molto successo. La spada di Damocle del ricatto e, in seguito, l’adattamento e
l’oblio hanno colonizzato il nostro inconscio, fino a rendere tutto –
drammaticamente – ordinario.
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Note
1 M. Fisher, Realismo Capitalista, Nero Edizioni, Roma, 2018, p.114-116
2 D. Lorenzini, La biopolitica al tempo del coronavirus, Transglobal,
https://associazionetransglobal.jimdofree.com/2021/03/09/la-biopolitica-ai-tempi-del-coronavirus/
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Stefano Rota, ricercatore indipendente, gestisce il blog “Transglobal”, la sua
più recente pubblicazione collettiva è La fabbrica del soggetto, Ilva
1958-Amazon 2021, Sensibili alle foglie, Roma 2023. Collabora occasionalmente
con riviste online italiane e lusofone. Ha aderito alla campagna Partire dalla
speranza e non dalla paura
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> Dopo il Covid
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