
Ilan Pappé: la lotta accademica per il diritto al ritorno
Associazionie amicizia italo-palestinese - Sunday, July 13, 2025Scritto il05/07/2025
Thisweekinpalestine.com. Di Ilan Pappè. Coloro di noi che hanno lavorato come storici professionisti su quella che Nur Masalha chiamava la “Politica della Negazione”, per decenni hanno denunciato che la negazione ha accompagnato l’attuale politica israeliana di espropriazione. I due, negazione ed espropriazione, ovviamente, sono interconnessi. Chi espropria è abbastanza potente da cancellare i propri crimini dalle proprie narrazioni ufficiali e da quelle altrui. Allo stesso modo, lo sviluppo e i cambiamenti nella storiografia dei rifugiati e nelle politiche contro di loro, in particolare la negazione del loro Diritto al Ritorno, vanno di pari passo.
La storiografia è diventata una parte importante della lotta contro la negazione del Diritto al Ritorno dei rifugiati. All’inizio degli anni ’60, esistevano già alcuni resoconti storici palestinesi su ciò che accadde realmente nel 1948, che avrebbero dovuto avere un impatto enorme sulla discussione sul destino dei rifugiati palestinesi. Questa prima storiografia indicava già la responsabilità esclusiva di Israele nella creazione del problema dei rifugiati palestinesi. Tuttavia, la narrazione israeliana dominava il mondo accademico e i media occidentali, e la prospettiva palestinese era considerata “parziale” e inaffidabile.
La prima rappresentazione da parte dei palestinesi della massiccia espulsione avrebbe dovuto portare a un’insistenza internazionale sul Diritto al Ritorno dei rifugiati, non solo a causa della famosa Risoluzione ONU 194, dell’11 dicembre 1948, che ne richiedeva il ritorno, ma anche perché il nuovo insieme di valori, che plasmò quello che sarebbe diventato il Diritto Internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale, considerava tale diritto sacro. La chiara Natura Criminale della massiccia espulsione, ancor prima che fosse definita Pulizia Etnica, e il chiaro desiderio dei rifugiati di tornare non lasciavano dubbi sulla validità giuridica del Diritto al Ritorno.
Ma questo non si concretizzò. Ciononostante, i falliti tentativi di difendere questo diritto rivelarono l’importanza della ricerca storica per la continua lotta per il Diritto al Ritorno. In altre parole, non era sufficiente basarsi sulla Risoluzione ONU, era importante spiegare come i palestinesi fossero diventati profughi.
La prima volta che Israele prestò attenzione al legame tra la storia del 1948 e la possibile posizione internazionale sul Diritto al Ritorno dei rifugiati fu all’inizio degli anni ’60. Il motivo fu l’interesse piuttosto sorprendente e inaspettato del presidente J. F. Kennedy per la questione del Diritto al Ritorno. Kennedy stava per dare avvio a un nuovo interesse americano per l’attuazione del Diritto al Ritorno attraverso la delegazione statunitense alle Nazioni Unite, il che causò allarme in Israele, in particolare presso l’ufficio del primo ministro David Ben-Gurion. Ben-Gurion credeva che il governo statunitense sarebbe stato dissuaso dal prendere qualsiasi iniziativa se fosse stato a conoscenza della versione storica “corretta” delle modalità con cui i palestinesi erano diventati profughi.
A tal fine, Ben-Gurion si rivolse alle istituzioni orientaliste in Israele e offrì loro la documentazione, frutto di ricerche commissionate, volta a dimostrare che nel 1948 i rifugiati avevano lasciato volontariamente la Palestina. Un centro di ricerca dell’Università di Tel Aviv assegnò alla missione un giovane studioso, Ronni Gabay, ma le sue conclusioni delusero il primo ministro. Sulla base dei documenti a cui aveva accesso, concluse che la maggior parte dei rifugiati era stata espropriata principalmente con la forza. Deluso, Ben-Gurion chiese che un altro studioso esaminasse il materiale. Trovarono qualcuno che capiva cosa ci si aspettava da lui: ovvero che affermasse che, sulla base dei documenti, i rifugiati erano partiti volontariamente per ordine dei loro leader e dei Paesi arabi confinanti. Prima che l’iniziativa di Kennedy potesse concretizzarsi, tuttavia, fu sventata dal suo assassinio. Fino ad oggi, nessuno dei suoi successori ha perseguito questa politica. Negli anni ’60 e ’70, il Centro di Ricerca dell’OLP di Beirut, nelle sue varie sedi e pubblicazioni, e in seguito l’Istituto per gli studi sulla Palestina, continuarono a produrre ricerche e lavori che fornirono conoscenze e documentazione cruciali che dimostravano i tentativi fatti dalle Nazioni Unite di ribadire la responsabilità dell’organizzazione nella difesa del Diritto al Ritorno dei palestinesi, data la sua posizione sulla Palestina nel 1947.
Questo progresso nella comprensione storiografica delle origini del problema dei rifugiati palestinesi, e la consapevolezza che la politica di eliminazione è stata perpetuata sul campo da Israele da allora, portarono a quello che all’epoca sembrò un cambiamento molto significativo nella posizione e nell’impegno delle Nazioni Unite per il Diritto al Ritorno. Il risultato fu l’istituzione del Comitato per l’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese (CEIRPP). Ricevette il mandato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione 3376 il 10 novembre 1975. (Questo comitato diede avvio alla “Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese”, che si tiene ogni anno il 29 novembre).
Un altro organismo importante fu un’unità speciale per i diritti dei palestinesi, creata dall’Assemblea Generale nel 1977. Questa unità in particolare agì anche in veste accademica. Si concentrò sulla preparazione di studi e pubblicazioni relative al Diritto al Ritorno e divenne la “Divisione per i Diritti dei Palestinesi” nel 1979. Il suo lavoro, almeno nell’ambito delle Nazioni Unite, mantenne viva la questione dei rifugiati durante il secolo scorso. Ma l’ONU perse la sua indipendenza già all’inizio degli anni Novanta (quando, ad esempio, gli Stati Uniti riuscirono ad annullare, nel 1991, la famosa risoluzione del 1975 che equiparava il Sionismo al razzismo).
All’inizio degli anni Ottanta, personalità come Edward Said, Ibrahim Abu Lughod e Walid Khalidi, tra gli altri, continuarono a produrre lavori accademici e solidi che fornirono le prove necessarie sulle circostanze che portarono alla nascita del problema dei rifugiati palestinesi nel 1948.
Il loro lavoro fu accentuato da un nuovo fenomeno storiografico noto come “la nuova storia di Israele”. Un piccolo gruppo di storici israeliani professionisti, sfruttando la declassificazione del materiale d’archivio del 1948, suffragò, sulla base di questo patrimonio, le principali affermazioni dei palestinesi sulla nascita del problema dei rifugiati, ovvero che esso fosse il risultato di espulsioni di massa e del rifiuto di qualsiasi rimpatrio.
Molti studiosi palestinesi sono rimasti sgomenti, e a ragione, dal fatto che solo con la pubblicazione della revisione storiografica israeliana si sia manifestata la volontà di ascoltare una narrazione che contrastasse quella inventata da Israele. Tuttavia, quando le vittime di un crimine dichiarano di aver subito un torto, i tribunali non sono sempre inclini a crederci; solo quando i criminali ammettono il crimine il verdetto è chiaro. O, per dirla in altri termini, i palestinesi non avevano bisogno di prove di essere vittime di espulsione intenzionale, ma il mondo sì.
La storiografia della Nakba è diventata ancora più completa quando queste opere sono state integrate da un rinnovato e vigoroso interesse per la storia orale, soprattutto da parte di giovani studiosi palestinesi.
La ricomparsa negli anni ’90 del Modello Coloniale d’Insediamento, che gli studiosi palestinesi avevano già proposto a metà degli anni ’60, ha aggiunto un nuovo livello alla storiografia della Nakba e all’analisi delle motivazioni alla base dell’espropriazione dei palestinesi. Hanno lasciato intendere che ciò avrebbe dovuto avere un impatto sulla decisione politica riguardante il loro futuro.
La caratteristica più importante associata al Progetto Coloniale di Insediamento è la logica dell’eliminazione dei nativi. Ciò ha permesso alla ricerca di includere tutti i rifugiati, compresa l’élite che partì nel gennaio del 1948, desiderosa di rimanere fuori fino alla fine dei combattimenti, ma a cui non fu permesso di tornare, diventando così vittima della politica eliminatrice.
In altre parole, il lavoro accademico sui rifugiati, la loro storia e la realtà contemporanea è cresciuto sia in quantità che in qualità. Eppure, anche in senso inverso, politicamente la questione dei rifugiati è costantemente scivolata in secondo piano, persino nel discorso dell’Autorità Nazionale Palestinese, e sicuramente in ciò che restava dello sforzo diplomatico globale per “risolvere” il “conflitto”.
L’impegno che unisce il lavoro accademico all’attivismo per il Diritto al Ritorno deve proseguire, nonostante la sua incapacità finora di influenzare l’agenda politica dall’alto in Occidente. Ci sono due aree in cui questo sforzo congiunto può essere ampliato. Un primo obiettivo è quello di basarci sul ricco lavoro accademico che già possediamo e di trasmetterlo al grande pubblico attraverso film, teatro, mostre e altri media simili. Questi luoghi e piattaforme, fisici o virtuali, sono luoghi importanti per ricordare alle persone il Diritto al Ritorno e per immaginare come verrà attuato. Abbiamo già alcuni esempi eccellenti, ma ce ne vogliono di più nei mass media.
Il secondo obiettivo è quello di proseguire il lavoro accademico con una chiara motivazione morale, in modo che sia rilevante sia per analizzare criticamente l’assenza del Diritto al Ritorno dagli sforzi diplomatici finora compiuti, sia, soprattutto, per capire come possa essere attuato in futuro. Ciò richiede un mix di acume accademico e immaginazione. Abbiamo già ottimi esempi in questo senso: l’incredibile lavoro di Salman Abu Sitta sull’attuazione del Diritto al Ritorno; quello di ONG palestinesi locali come Udna, che ha realizzato modelli 3D di villaggi ricostruiti; e il lavoro di ONG israeliane come Zochrot, che ha avviato un progetto chiamato “Immaginare il Ritorno”. Ma abbiamo bisogno di più, anche se, comprensibilmente, gran parte delle nostre energie oggi è concentrata sul Genocidio a Gaza e sulla Pulizia Etnica in Cisgiordania.
Infine, se il Piano trumpiano sulla Pulizia Etnica dei palestinesi a Gaza dovesse continuare, o se dovesse continuare a essere ampiamente utilizzato dai politici israeliani, non dovrebbe essere semplicemente negato; sarebbe utile sottolineare che l’unica alternativa possibile che la popolazione di Gaza stessa dovrebbe considerare è se il 70% di loro, proveniente dalla Palestina del ’48, sarebbe disposto a tornare alle proprie case d’origine in quello che oggi è Israele. Questo ci ricorda quanto sia rilevante il Diritto al Ritorno per il futuro della Palestina e quanto lavoro ci sia ancora da fare per preparare un piano concreto su come attuarlo.
Ilan Pappé è professore all’Università di Exeter. In precedenza è stato docente di scienze politiche presso l’Università di Haifa. È autore del recente Lobbying for Zionism on Both Sides of the Atlantic (Lobbisti per il Sionismo su entrambi i Lati dell’Atlantico) di The Physical Cleansing of Palestine, The Modern Middle East (La Pulizia Etnica della Palestina, il Medio Oriente Moderno); Una storia della Palestina moderna: una terra, due popoli (Una Storia Della Palestina Moderna: Una Terra, Due Popoli) e Dieci miti su Israele (Dieci Miti su Israele). Pappé è descritto come uno dei “Nuovi storici” israeliani che, dal rilascio dei pertinenti documenti del governo britannico e israeliano all’inizio degli anni ’80, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948.
Traduzione: La Zona Grigia
Ilan Pappe: la lotta accademica per il diritto al ritorno | InfoPal