
Pensare la democrazia oggi
Comune-info - Saturday, July 12, 2025La lotta per la democrazia che ha orientato tanti e tanti dopo le due guerre mondiali sembrava una strada maestra. Oggi quella lotta è in profonda crisi. Del resto con Maria Zambrano sappiamo che non basta cambiare le strutture, se non cambia lo sguardo sul dolore. Che per rendere la storia giusta non serve un evento rivoluzionario improvviso ma creare ogni giorno relazioni sociali diverse. Che la democrazia è prima di tutto un processo in grado di nascere soltanto con il riconoscimento dell’altro

Dopo l’orrore che ha aperto il secolo — due guerre mondiali, la Shoah, le dittature, i totalitarismi, Hiroshima — abbiamo sperato che la democrazia fosse la strada maestra per un nuovo inizio. Un inizio fondato non sulla violenza, ma sulla dignità umana, sulla libertà, sul riconoscimento dei diritti. Sembrava che la democrazia potesse finalmente intrecciarsi con l’idea di progresso — un progresso che non fosse solo economico, ma etico, culturale, umano. Estendere i diritti, ampliare l’accesso al sapere, perfezionare le istituzioni: era questa la via che molti di noi, con sincerità, credevano potesse condurre verso un mondo più giusto e consapevole.
E in parte è stato così. Quella speranza non era un’illusione vana. Era la risposta necessaria a un secolo che aveva mostrato fin dove può spingersi l’abisso umano. Ma oggi, quella fiducia sembra essersi incrinata. E forse è persino svanita.
Non si parla più di crisi dell’Occidente. La crisi ha lasciato il posto a qualcosa di più silenzioso, ma più radicale: un senso di abbandono. Le istituzioni democratiche esistono, ma spesso appaiono svuotate, incapaci di rispondere al dolore del presente. Il linguaggio pubblico si consuma in slogan, e la storia — che avrebbe dovuto essere coscienza e memoria — si trasforma, dice María Zambrano, in
«un luogo indifferente in cui qualsiasi avvenimento può presentarsi con la stessa validità e gli stessi diritti di un Dio assoluto che non consente la più lieve obiezione» (Persona y democracia, p. 20).
Una delle intuizioni più potenti del libro è proprio questa: la denuncia della storia sacrificale dell’Occidente, una storia fondata sulla violenza che si traveste da ordine, sul sacrificio di capri espiatori, sulla rimozione della sofferenza. Le istituzioni, se non si interrogano sulle loro origini violente, rischiano di perpetuare il meccanismo. La democrazia, se vuole essere fedele a sé stessa, deve spezzare questo ciclo, riconoscere le vittime, accoglierne la memoria e costruire spazi di riconciliazione.
Zambrano scrive con forza che
«l’unico modo perché questo annientamento non si verifichi è estendere la coscienza storica, e insieme dare corso a una società degna di questa coscienza e della Persona umana da cui sgorga».
È questo il cuore del suo pensiero politico: non basta cambiare le strutture, se non cambia lo sguardo sul dolore e sulla storia. Per lei, la rivoluzione autentica non è l’atto istantaneo della rottura, ma la creazione lenta di una società umanizzata:
«facendo in modo che la storia non si comporti come un’antica Divinità che esige un sacrificio senza fine».
Zambrano diffida delle rivoluzioni che promettono salvezza immediata. Scrive in un’altra pagina memorabile: «L’uomo ha confuso l’istante del risveglio con la realizzazione». Ci ricorda così che la consapevolezza iniziale non basta se non si traduce in responsabilità, in trasformazione reale, in etica incarnata.
È un’intuizione rara. Molti filosofi hanno parlato del risveglio come momento decisivo della coscienza individuale: il passaggio dall’inerzia alla consapevolezza, dall’ignoranza alla verità. Ma pochi hanno saputo portare questa riflessione dentro la storia collettiva, dentro la democrazia, dentro le trasformazioni politiche. In questo, María Zambrano è straordinariamente originale: non mette in discussione solo la coscienza del singolo, ma anche quella dei popoli, delle istituzioni, dei sistemi politici. Denuncia l’illusione secondo cui basti un evento rivoluzionario, un cambiamento improvviso, per rendere la storia finalmente giusta. «L’uomo ha confuso l’istante del risveglio con la realizzazione» – scrive. E questo vale anche per le società: risvegliarsi non significa essere già cambiati.
Pochi altri hanno colto questo rischio con altrettanta chiarezza. Hannah Arendt ci ricorda che ogni generazione deve ricominciare da capo il lavoro della libertà. Paulo Freire, educatore e pensatore latinoamericano, insiste sul fatto che la liberazione non è un atto magico o improvviso, ma un processo che richiede dialogo, riflessione, azione condivisa. Anche Frantz Fanon, che ha vissuto in prima persona la lotta contro il colonialismo, mette in guardia: non basta rovesciare un potere per essere davvero liberi. Bisogna cambiare anche il modo di pensare, di relazionarsi, di immaginare il mondo.
Ma è proprio Zambrano a unire la profondità del pensiero poetico con una visione storica e politica. Per lei, la democrazia non nasce da un solo gesto, ma da una lunga fedeltà alla sofferenza umana, alla memoria, alla coscienza. Un cammino fragile, ma necessario, per far nascere davvero l’uomo e una storia che non chieda più vittime. Per questo Zambrano può scrivere:
«Qualcosa se n’è andato per sempre. Adesso è questione di tornare a nascere, di far nascere di nuovo l’uomo».
Non si tratta di ripartire da zero, ma di interrompere il sacrificio, di ricostruire una storia che non chieda vittime, di dare forma a una democrazia che non si esaurisca nei suoi meccanismi, ma nasca ogni giorno nel riconoscimento dell’altro. Solo così potremo ancora credere che la democrazia non sia un sogno infranto, ma la promessa di un mondo più umano, più vigile, più giusto.
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