Uno scudo all’impunità made in Italy

Comune-info - Wednesday, November 12, 2025

Società civile e sindacati lanciano un appello urgente al Parlamento: “Lo scudo penale nel DDL PMI legalizza lo sfruttamento nella moda»

Non è una passerella né un evento glamour quello che ha riportato in prima pagina nomi come Armani, Loro Piana, Valentino e Tod’s. È l’ennesima inchiesta della Procura di Milano ad aver svelato l’altra faccia del lusso italiano: laboratori nascosti, turni massacranti, salari da fame, condizioni degradanti. Dietro l’etichetta del “Made in Italy” si nasconde un sistema di sfruttamento strutturale che coinvolge l’intera catena del valore.

Proprio mentre la magistratura indaga sulle responsabilità delle grandi case di moda, il Parlamento si appresta a votare una legge che rischia di fare il passo opposto: il Disegno di Legge sulle Piccole e Medie Imprese (DDL PMI), già approvato al Senato, introduce una certificazione volontaria di conformità della filiera che, dietro la facciata della trasparenza, contiene un pericoloso scudo penale per le aziende capofila, anche in caso di sfruttamento o caporalato nella subfornitura.

«Questa proposta non tutela il Made in Italy, ma lo tradisce», denunciano le organizzazioni promotrici dell’appello “No al caporalato Made in Italy”, lanciando oggi – martedì 11 novembre 2025 – un appello urgente al Parlamento:

«Non votate un testo che legalizza l’impunità dello sfruttamento.
 Il vero Made in Italy non nasce dallo sfruttamento, ma dal lavoro dignitoso.
 È tempo che la politica stia dalla parte di chi lavora, non di chi chiude gli occhi».

Uno scudo all’impunità

Il DDL PMI, presentato come strumento di trasparenza, prevede una certificazione unica di conformità estesa a tutta la filiera. Ma si tratta di una misura volontaria, priva di obblighi reali di controllo o di miglioramento delle condizioni di lavoro.

«Qualsiasi misura volontaria, che non sposti l’onere di controllo e prevenzione in capo ai committenti stessi (due diligence), è destinata ad avere impatti molto limitati», spiega Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, rete internazionale di oltre 220 organizzazioni. «Finché non verrà introdotto un obbligo vincolante di trasparenza e responsabilità, le stesse logiche di sfruttamento continueranno a prosperare».

Le indagini milanesi hanno mostrato come le case madri non possano dirsi estranee alle violazioni dei propri fornitori. Tuttavia, invece di rafforzare le responsabilità, il DDL propone una sorta di bollino volontario che rischia di trasformarsi in un paravento per comportamenti irresponsabili e in un ulteriore onere burocratico per i subfornitori più deboli.

L’appello: “Cambiare modello, non blindarlo”

Nel testo dell’appello, le organizzazioni firmatarie sottolineano con forza che:

«Con il DDL PMI, il governo pensa di poter eliminare lo sfruttamento nel settore moda semplicemente inserendo una nuova certificazione estesa a tutta la filiera.
 Ma lo sfruttamento è strutturale, e l’ennesima certificazione rischia di essere controproducente perché opera come un velo dietro al quale si possono continuare a nascondere violazioni e illegalità.

Ancora più grave è lo scudo penale per caporalato previsto nel testo licenziato al Senato: una norma che a parole tutela il Made in Italy, ma nei fatti protegge un sistema basato sullo sfruttamento dei lavoratori in condizione di maggiore vulnerabilità. Questa norma consegna alle imprese capofila una licenza a sfruttare e porta nell’oscurità anni di lotte e istanze sindacali».

Le organizzazioni promotrici — tra cui sindacati, reti della società civile e campagne per la moda etica — contestano apertamente la norma e chiedono che il Parlamento elimi lo scudo penale e avvii finalmente una vera riforma industriale del settore, basata su due diligence obbligatoria, tracciabilità delle filiere, ispezioni pubbliche rafforzate e tutela effettiva dei diritti delle persone che producono la “moda italiana”.

Un’altra moda è possibile

«Ciò di cui il settore moda in Italia ha bisogno – si legge ancora nell’appello – sono serie politiche industriali e del lavoro per rilanciare un tessuto produttivo sano, basato su innovazione, transizione ecologica e pieno godimento dei diritti nelle fabbriche».

Per chi lavora da decenni nella difesa dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori del tessile, questo passaggio politico è cruciale: decidere se il “Made in Italy” sarà sinonimo di dignità o di sfruttamento.

L’appello “No al caporalato Made in Italy” si può leggere qui [LINK].

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