
Quel cordone ombelicale che lega ancora la donna alla madre
Comune-info - Thursday, April 24, 2025Che cosa temono di perdere oggi donne che hanno conosciuto, insieme a diritti e libertà, la straordinaria forza che viene da un movimento come il femminismo, dalla comparsa di “soggetti non binari”, persone transgender dal maschile al femminile?

Neppure la diversità biologica tra un sesso e l’altro sembra rientrare in un binarismo perfetto. Ma, sicuramente, a marcare una differenza e una contrapposizione netta, nella loro complementarità, sono le identità o costruzioni di genere. Nate dall’immaginario dell’uomo figlio, come proiezione sulla donna madre della parte più inquietante dell’umano – un corpo che lo ancorava alla nascita e alla morte, alla materia vivente, alle pulsioni incontrollabili della sessualità -, le figure o i ruoli del maschile e del femminile, non potevano non entrare in urto, sia pure con accentuazioni diverse per ogni singolo e singola, con il sesso di appartenenza.
Già agli inizi del Novecento, è la voce di Sibilla Aleramo a nominare l’impossibilità di far coincidere la sua femminilità con il ruolo materno: “In me la madre non si integrava con la donna”. Non era il rifiuto del suo sesso, né di un corpo capace di procreare che la spingeva a cercare per sé una collocazione diversa da quello che era ancora considerato il “destino naturale” della donna, ma la consapevolezza di quella “inumana idea” che è “l’immolazione materna”. Pochi decenni dopo, è Simone de Beauvoir a scrivere: “Donne non si nasce, si diventa”, e a riprenderla con consapevolezze nuove sarà la generazione del femminismo degli anni Settanta.
Il primo passo di un processo di liberazione da modelli imposti è cominciato perciò riconoscendo che i corpi arrivano alla storia già segnati, o come si dice oggi, “performati”, dalla cultura patriarcale. Un copione, che interessa sia uomini che donne, ha pesato per millenni come una corazza sulle loro vite, con la sola differenza che agli uni è stato dato il privilegio di governare il mondo in quanto “natura superiore” e alle altre di garantire loro le cure essenziali per la sopravvivenza. L’alienazione prodotta dalle gabbie del femminile e del maschile si può pensare che abbia comportato per entrambi i sessi adattamenti, sofferenze, ribellioni e diserzioni, raggiri, desiderio di vie di fuga. Se i rapporti di potere e le violenze che vi si sono accompagnate si sono fatti strada nella coscienza storica con tanta lentezza, forse è proprio perché ognuno dei due generi ha continuato a cercare nell’altro l’interezza mancante al proprio essere.
Il femminismo, nelle sue manifestazioni più radicali, non poteva evitare di chiedersi quanto il fatto di aver incorporato la rappresentazione del mondo di un “padre padrone”, che non aveva mai smesso di esserle anche figlio, avesse spinto la donna a strappare da quel ruolo un qualche potere e piacere, a farsi forte, contro l’assoggettamento, della certezza della sua indispensabilità.
Un cordone ombelicale senza tagli, se ha rassicurato un uomo figlio di poter perpetuare nella sua vita adulta le cure ricevute nell’infanzia, per l’altro ha dato alla donna la possibilità di trovare nel suo essere madre un riconoscimento. Non si spiega altrimenti l’ammirazione femminile di cui hanno goduto i teorici dell’amore romantico, come Jules Michelet e Paolo Mantegazza, nel sovrapporre la relazione filiale materna alla relazione amorosa adulta.
“Finché il cuoricino della nuova creatura batte dal profondo delle viscere materne – scrive Mantegazza ne Le estasi umane (P. Mantegazza Editore, Milano 1887) – il figlio è membro vivo della madre, è carne della carne di lei, è sangue del suo del suo sangue; ma anche quando il frutto si è staccato dal ramo che l’ha nutrito, non cessa per questo di esser membro delle membra materne. L’ovario più non lo abbraccia, ma lo stringono ancora le braccia innamorate, lo riscaldano i baci e le carezze (…) Feto o bambino, fanciullo o giovinetto, uomo o vecchio, il figlio dell’uomo porta sempre sulla pelle, nel cuore, nel pensiero lembi di quel velo materno, che per nove mesi lo ha custodito e alimentato”.
Quanto conta il prolungamento dell’amore nella sua forma originaria, che fa di una moglie o di una amante una madre, nella confusione tra sesso e genere? Che cosa temono di perdere oggi donne che hanno conosciuto, insieme a diritti e libertà, la straordinaria forza che viene da un movimento come il femminismo, dalla comparsa di “soggetti non binari”, persone transgender dal maschile al femminile? Nel dichiararsi d’accordo con la sentenza emessa il 16 aprile dalla Corte Suprema britannica, secondo cui una persona transgender con un certificato che la riconosce come donna non potrà essere considerata una donna ai fini della legge e godere perciò delle tutele previste per chi è nata biologicamente femmina, la ministra per le Pari opportunità Eugenia Roccella ha detto: “Le donne hanno fatto una grande fatica, un incredibile percorso verso la libertà e poi si sono trovate scavalcate da uomini che si sentono donne”. E ha concluso che questo altro non è che “una nuova forma di patriarcato” che mette le donne “in condizione di marginalità, subalternità, esclusione, discriminazione”. Adottare a proprio uso categorie che si vorrebbero combattere ormai è diventata la pratica di chiunque si oppone a cambiamenti di un ordine dato, e non meraviglia più di tanto. Allo stesso modo, come si vede dall’acceso dibattito che ne è seguito, non è difficile riconoscere in certe affermazioni, del tipo “donne si nasce”, che uno dei dualismi della cultura patriarcale come “sesso e genere” non ha mai smesso di essere divisivo per il femminismo italiano e non solo.
Dalla lettura di tanti commenti che stanno passando sui social, appare chiaro che il materno è ancora visto come destino naturale della donna, e il “genere”, sia pure risignificato e spostato sul piano simbolico, come ha fatto fin dagli anni Ottanta il “pensiero della differenza” nella elaborazione che ne ha fatto la Libreria delle donne di Milano – l’ “ordine simbolico della madre” -, quello assegnato dalla cultura millenaria di un sesso solo. Il pericolo, che non può realisticamente venire da una infima minoranza di persone transgender, sembra ancora quello di perdere l’unico potere che assicura alle donne un riconoscimento.
Pubblicato anche sul manifesto del 24 aprile 2025
Lea Melandri ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
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