Quel cordone ombelicale che lega ancora la donna alla madre
CHE COSA TEMONO DI PERDERE OGGI DONNE CHE HANNO CONOSCIUTO, INSIEME A DIRITTI E
LIBERTÀ, LA STRAORDINARIA FORZA CHE VIENE DA UN MOVIMENTO COME IL FEMMINISMO,
DALLA COMPARSA DI “SOGGETTI NON BINARI”, PERSONE TRANSGENDER DAL MASCHILE AL
FEMMINILE?
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Neppure la diversità biologica tra un sesso e l’altro sembra rientrare in un
binarismo perfetto. Ma, sicuramente, a marcare una differenza e una
contrapposizione netta, nella loro complementarità, sono le identità o
costruzioni di genere. Nate dall’immaginario dell’uomo figlio, come proiezione
sulla donna madre della parte più inquietante dell’umano – un corpo che lo
ancorava alla nascita e alla morte, alla materia vivente, alle pulsioni
incontrollabili della sessualità -, le figure o i ruoli del maschile e del
femminile, non potevano non entrare in urto, sia pure con accentuazioni diverse
per ogni singolo e singola, con il sesso di appartenenza.
Già agli inizi del Novecento, è la voce di Sibilla Aleramo a nominare
l’impossibilità di far coincidere la sua femminilità con il ruolo materno: “In
me la madre non si integrava con la donna”. Non era il rifiuto del suo sesso, né
di un corpo capace di procreare che la spingeva a cercare per sé una
collocazione diversa da quello che era ancora considerato il “destino naturale”
della donna, ma la consapevolezza di quella “inumana idea” che è “l’immolazione
materna”. Pochi decenni dopo, è Simone de Beauvoir a scrivere: “Donne non si
nasce, si diventa”, e a riprenderla con consapevolezze nuove sarà la generazione
del femminismo degli anni Settanta.
Il primo passo di un processo di liberazione da modelli imposti è cominciato
perciò riconoscendo che i corpi arrivano alla storia già segnati, o come si dice
oggi, “performati”, dalla cultura patriarcale. Un copione, che interessa sia
uomini che donne, ha pesato per millenni come una corazza sulle loro vite, con
la sola differenza che agli uni è stato dato il privilegio di governare il mondo
in quanto “natura superiore” e alle altre di garantire loro le cure essenziali
per la sopravvivenza. L’alienazione prodotta dalle gabbie del femminile e del
maschile si può pensare che abbia comportato per entrambi i sessi adattamenti,
sofferenze, ribellioni e diserzioni, raggiri, desiderio di vie di fuga. Se i
rapporti di potere e le violenze che vi si sono accompagnate si sono fatti
strada nella coscienza storica con tanta lentezza, forse è proprio perché ognuno
dei due generi ha continuato a cercare nell’altro l’interezza mancante al
proprio essere.
Il femminismo, nelle sue manifestazioni più radicali, non poteva evitare di
chiedersi quanto il fatto di aver incorporato la rappresentazione del mondo di
un “padre padrone”, che non aveva mai smesso di esserle anche figlio, avesse
spinto la donna a strappare da quel ruolo un qualche potere e piacere, a farsi
forte, contro l’assoggettamento, della certezza della sua indispensabilità.
Un cordone ombelicale senza tagli, se ha rassicurato un uomo figlio di poter
perpetuare nella sua vita adulta le cure ricevute nell’infanzia, per l’altro ha
dato alla donna la possibilità di trovare nel suo essere madre un
riconoscimento. Non si spiega altrimenti l’ammirazione femminile di cui hanno
goduto i teorici dell’amore romantico, come Jules Michelet e Paolo Mantegazza,
nel sovrapporre la relazione filiale materna alla relazione amorosa adulta.
“Finché il cuoricino della nuova creatura batte dal profondo delle viscere
materne – scrive Mantegazza ne Le estasi umane (P. Mantegazza Editore, Milano
1887) – il figlio è membro vivo della madre, è carne della carne di lei, è
sangue del suo del suo sangue; ma anche quando il frutto si è staccato dal ramo
che l’ha nutrito, non cessa per questo di esser membro delle membra materne.
L’ovario più non lo abbraccia, ma lo stringono ancora le braccia innamorate, lo
riscaldano i baci e le carezze (…) Feto o bambino, fanciullo o giovinetto, uomo
o vecchio, il figlio dell’uomo porta sempre sulla pelle, nel cuore, nel pensiero
lembi di quel velo materno, che per nove mesi lo ha custodito e alimentato”.
Quanto conta il prolungamento dell’amore nella sua forma originaria, che fa di
una moglie o di una amante una madre, nella confusione tra sesso e genere? Che
cosa temono di perdere oggi donne che hanno conosciuto, insieme a diritti e
libertà, la straordinaria forza che viene da un movimento come il femminismo,
dalla comparsa di “soggetti non binari”, persone transgender dal maschile al
femminile? Nel dichiararsi d’accordo con la sentenza emessa il 16 aprile dalla
Corte Suprema britannica, secondo cui una persona transgender con un certificato
che la riconosce come donna non potrà essere considerata una donna ai fini della
legge e godere perciò delle tutele previste per chi è nata biologicamente
femmina, la ministra per le Pari opportunità Eugenia Roccella ha detto: “Le
donne hanno fatto una grande fatica, un incredibile percorso verso la libertà e
poi si sono trovate scavalcate da uomini che si sentono donne”. E ha concluso
che questo altro non è che “una nuova forma di patriarcato” che mette le donne
“in condizione di marginalità, subalternità, esclusione, discriminazione”.
Adottare a proprio uso categorie che si vorrebbero combattere ormai è diventata
la pratica di chiunque si oppone a cambiamenti di un ordine dato, e non
meraviglia più di tanto. Allo stesso modo, come si vede dall’acceso dibattito
che ne è seguito, non è difficile riconoscere in certe affermazioni, del tipo
“donne si nasce”, che uno dei dualismi della cultura patriarcale come “sesso e
genere” non ha mai smesso di essere divisivo per il femminismo italiano e non
solo.
Dalla lettura di tanti commenti che stanno passando sui social, appare chiaro
che il materno è ancora visto come destino naturale della donna, e il “genere”,
sia pure risignificato e spostato sul piano simbolico, come ha fatto fin dagli
anni Ottanta il “pensiero della differenza” nella elaborazione che ne ha fatto
la Libreria delle donne di Milano – l’ “ordine simbolico della madre” -, quello
assegnato dalla cultura millenaria di un sesso solo. Il pericolo, che non può
realisticamente venire da una infima minoranza di persone transgender, sembra
ancora quello di perdere l’unico potere che assicura alle donne un
riconoscimento.
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Pubblicato anche sul manifesto del 24 aprile 2025
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Lea Melandri ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
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