
Il banco sta per saltare
Jacobin Italia - Monday, September 8, 2025
In lingua francese l’aggettivo bancale – la cui forma al maschile è bancal – si riferisce a qualcosa che traballa, tradendo allo stesso tempo la sua originaria funzione di stabilità come quella di un banco che dovrebbe reggersi sulle proprie gambe. Questo prestito linguistico – per mantenere il linguaggio del debito – descrive in modo appropriato l’attuale clima sociale, economico e politico in Francia. Comincia infatti a sgretolarsi quel gioco di pesi e contrappesi che aveva finora sostenuto l’assetto quasi-monarchico della Quinta Repubblica.
Il tema del debito pubblico francese – il terzo più elevato, dopo la Grecia e l’Italia – ha appunto svelato fragilità ben più profonde che attraversano la società francese più in generale. Fragilità che sono più urgenti del debito stesso. Nonostante lo stato tutt’altro che roseo dell’erario, sono più gli atteggiamenti empatici delle classi dirigenti nei confronti degli umori dei mercati che i rischi concreti di insolvenza a legittimare misure draconiane da parte dell’attuale governo di minoranza. Le temute agenzie di rating internazionali non sono unanimemente pessimiste – le loro prospettive risentono anche di ragionamenti istituzionali sulla stabilità politica – ma per ora sembrano confidare nella generale tenuta della capacità debitoria dello Stato francese. Oltre alle responsabilità specifiche dei presidenti e dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, il debito rappresenta il compimento di una crisi di affidabilità generale: un ordine politico che ha sistematicamente disatteso le proprie promesse di stabilità istituzionale e sociale.
Cominciamo appunto dalla conclusione.
Atto III: il debito pubblico. Quella del 2025 è l’ennesima estate più torrida di sempre, ma l’aria diventa davvero irrespirabile quando l’opinione pubblica si accorge che lo Stato ha le tasche bucate. A metà luglio, il primo ministro François Bayrou convoca una conferenza stampa per annunciare le linee guida per la loi de finances 2026 – l’equivalente della legge finanziaria – con l’obiettivo di risparmiare 44 miliardi di euro. Come hanno già sperimentato presso altre latitudini, gli austeri dettami del Patto di stabilità e crescita impongono alla Francia di rientrare nei parametri del 3% di deficit. I guardiani dell’austerità hanno già tracciato nel 2029 la scadenza degli impegni assunti al livello europeo.
Dovrebbero riformulare un vecchio adagio per l’occasione: quando la Commissione europea bussa alla porta, si inizia a temere il peggio in casa propria. Il modo in cui si rientra dal debito non è mai tecnicamente neutro: è un piano ideologico che si serve della politica per renderlo esecutivo. Le misure proposte da Bayrou – e che, come sarà spiegato a breve, dovrebbero essere sottoposte al dibattimento parlamentare prima di essere approvate – si ispirano infatti a una logica dogmatica nei confronti dell’economia di mercato a scapito delle classi medie e popolari. Oltre alla carta jolly del recupero dall’evasione fiscale, si pensa di ricavare una ventina di miliardi dai tagli lineari alla spesa pubblica, la ricetta prosegue con la sospensione degli aumenti delle prestazioni sociali (ad esempio, le pensioni non saranno rivalutate in base all’inflazione) chiedendo al contempo sforzi ulteriori alle forze produttive: la soppressione di due giorni festivi – il Lunedì di Pasqua e la Giornata della Vittoria sul nazifascismo — ha suscitato le reazioni più forti. Lavorare di più, pretendere di meno.
Le misure proposte da Bayrou hanno ravvivato così tanto clamore da indurre lo stesso Primo ministro a chiedere un voto di fiducia all’Assemblée Nationale. Uno scenario inedito rispetto alle modalità sbrigative frequentemente impiegate dai governi di nomina macronista che, per sopperire alla maggioranza parlamentare, hanno ricorso sistematicamente – ben ventisette volte – all’articolo 49.3 della Costituzione che consente ai governi di approvare provvedimenti di natura finanziaria e sociale senza neanche chiedere un formale passaggio parlamentare. Le mozioni di sfiducia, strumento pensato per controbilanciare un’evidente anomalia democratica, hanno quasi sempre risparmiato i governi di minoranza che si sono succeduti dal 2022, l’anno della rielezione di Macron. In alcune occasioni, un’opaca convergenza tra socialdemocrazia (Partito Socialista) ed estrema destra (Rassemblement National) ha prestato soccorso ai governi in carica. A dicembre 2024, il decisionismo della macronie si ritorce contro: per la prima volta dal 1962 una mozione di censura – presentata da La France Insoumise – ottiene le dimissioni del governo Barnier, insediatosi appena quattro mesi prima. Anche allora si votava sulla legge di bilancio. Governo bocciato. Entra in scena l’esecutivo Bayrou. Quest’8 settembre, anch’esso uscirà di scena ripetendo lo stesso copione.
Atto II. Il debito è politico. Il duplice mandato di Emmanuel Macron si fonda sulla promessa di garantire maggiore stabilità istituzionale, in contrapposizione a quei meccanismi arrugginiti che avrebbero appesantito la macchina pubblica. Nel suo percorso verso l’Eliseo, Macron ha avuto la fortuna di duellare al ballottaggio contro Marine Le Pen per ben due volte. Nonostante l’analoga autorappresentazione di Le Pen come estranea agli apparati tradizionali, lo scenario travolgente della cosiddetta marea nera ha finora suscitato una generica convergenza antifascista e repubblicana finendo per avvantaggiare l’area macronista, considerata la maggior reticenza dell’elettorato centrista e conservatore verso i candidati progressisti.
Il bilancio – che si appresta a diventare eredità – del doppio mandato di Macron è profondamente rovesciato rispetto alle attese di rinnovamento: da un lato, gli intrighi della «vecchia» politica sembrano moltiplicarsi, dall’altro sta realizzando il peggior incubo di ogni neoliberale polarizzando il paese attorno ai «pericolosi estremismi».
Ne abbiamo avuto conferma durante le elezioni legislative convocate appena due anni dopo il precedente rinnovo dall’Assemblée Nationale. Come reazione al risultato mostruoso dell’estrema destra lepenista, Emmanuel Macron scioglie immediatamente l’Assemblée Nationale indicendo una campagna elettorale brevissima di appena tre settimane. Il Presidente della Repubblica era convinto di cogliere in controtempo i suoi avversari, ma i calcoli dell’Eliseo saranno smentiti in venti giorni. La fazione conservatrice si frantuma e sposta il baricentro ancora più a destra, mentre la sinistra si ricompatta sotto le insegne del Nouveau Front Populaire attorno a un programma definito «di rottura» , come conseguenza dell’egemonia marcatamente anti-neoliberista de La France Insoumise. I risultati dello spoglio premiano quest’ultima opzione. Smentendo letteralmente ogni sondaggio, l’enorme mobilitazione popolare – con affluenza al 67%, ma la più elevata dal 1997 – consegna al Nouveau Front Populaire la maggioranza relativa dei seggi. Il capolavoro è servito: la sinistra occupa più scranni della coalizione presidenziale, confinando nuovamente l’estrema destra lontana da qualsiasi velleità di potere.
Dopo l’insediamento della nuova legislatura, si scoprono le carte. Macron sceglie di ignorare persino l’aritmetica, perseverando nell’affidare alla sua area politica non uno, ma ben due governi: prima a Michel Barnier e poi a François Bayrou. Quella del Nouveau Front Populaire è stata una vittoria elettorale che restituisce l’immagine di un paese che complessivamente ha scelto di respingere tanto la continuità delle ricette neoliberiste quanto le opzioni di rottura incarnate dalle tentazioni nazionaliste.
Atto I. Il debito è sociale. Come detto, non è il debito in sé a destare inquietudine, quanto piuttosto l’ossessione con la quale lo si affronta. Giungono già gli echi di austere terapie d’urto, che non fanno che riprodurre la morbosa interdipendenza tra la politica e gli strati sociali più privilegiati.
Premessa: i due mandati di Macron sono stati segnati da due shock significativi – la pandemia prima, la crisi energetica poi – che hanno inciso, sì, ma al massimo per metà sull’esplosione del debito.
Sebbene il superamento delle crisi siano dei banchi di prova per misurare le istituzioni politiche, c’è un’altra metà del problema che riflette i rapporti strutturali tra i governi e alcuni pezzi della società.
Le scelte politiche orientate alla riduzione della pressione fiscale o alla soppressione dell’imposta sulla fortuna non hanno restituito i risultati sperati, persino secondo uno degli economisti più ascoltati da Macron. Il 24% del debito accumulato dal 2017 sembra appunto riconducibile ai cosiddetti «regali fiscali» a favore delle grandi aziende e dei contribuenti più agiati. Persino autorevoli istituzioni come la Corte dei conti e l’Insee (l’Istituto nazionale di statistica) hanno certificato come l’acritica osservanza delle teorie dello «sgocciolamento» abbia finito per dissanguare le casse pubbliche.
Traditi dalla cieca fiducia nell’economia di mercato, ci si è accorti che la ricchezza prodotta dalle imprese ha avuto ricadute collettive fortemente limitate, per usare un eufemismo. Al di là delle registrazioni contabili, il livello di povertà – che ha ormai superato il 15%, un record degli ultimi trent’anni – fotografa con nitidezza il momento critico che i contribuenti più fragili stanno attraversando, mentre le classi agiate continuano a trarne vantaggio.
Nonostante le evidenti diseguaglianze sociali, l’ostinazione neoliberista continua a regnare. Bayrou perorerà la sua causa persa di fronte al Parlamento, invocando la sottrazione della spesa sociale – cioè dei servizi pubblici – come l’unica operazione aritmetica possibile, respingendo persino l’imposta sui grandi patrimoni – la cosiddetta «tassa Zucman» – già approvata dalla stessa assise e in seguito bocciata al Senato.
Dopo aver requisito ex abrupto due anni di vita con l’innalzamento dell’età pensionabile, la richiesta di ulteriori sacrifici risuona come un nuovo pegno gravato sul popolo francese. Nel frattempo, si moltiplicano gli appelli alla mobilitazione, con l’obiettivo dichiarato di bloccare il paese: nel corso dell’estate si sono costituite delle assemblee popolari che hanno fissato un appuntamento per il 10 settembre, mentre per il 18 alcuni sindacati hanno convocato lo sciopero generale.
Conti da quadrare nelle aule parlamentari, conti da regolare nelle piazze. Il banco sta per saltare.
*Costantino Romeo, dottorando in management, si occcupa delle relazioni tra organizzazioni e tecnologia presso l’Institut Polytechnique de Paris.
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