Le aride follie dell’amore sotto il capitalismo

Jacobin Italia - Wednesday, September 3, 2025
Articolo di Tiare Gatti Mora

Poche settimane fa mi trovavo a Perugia, città dalla quale provengo, ma in cui non ho mai abitato. Uno dei ragazzi del gruppo con cui sono uscita la sera mi ha detto una frase che mi è tornata in mente quando ho visto il nuovo film della sceneggiatrice e regista Celine Song, Materialists: «Cosa ci fai qui a Perugia se sei una ‘strafica’ che potrebbe essere su uno yacht?». Ossia, perché sprecare il tempo in una città di provincia quando ti potresti permettere di essere in posti considerati «una figata»? Il dilemma presentato nel nuovo film di Song non è in fondo nient’altro che una variante di questa domanda

Molti paragonano, ragionevolmente, Materialists alle narrative di Jane Austen, ma a me ha fatto pensare a un altro grande classico che, nei suoi molti e brillanti adattamenti, parla dell’amore legato al soggetto femminile sotto il capitalismo: La signora delle camelie di Alexandre Dumas. In una scena del film capolavoro di George Cukor Camille (1936), il protagonista maschile da alla traviata, interpretata da Greta Garbo, una copia di Manon Lescaut di Prévost, personaggio femminile famoso per l’incapacità di resistere ai beni materiali e al lusso, pagandone un caro prezzo, cosa della quale più avanti nella trama sarà ritenuta ingiustamente colpevole Camille.

È proprio il dilemma tra successo, lusso e vero amore che inonda la vita della trentacinquenne newyorkese protagonista di Materialists, Lucy (Dakota Johnson), una matchmaker che viene corteggiata dal ricchissimo, bello e maturo Harry (Pedro Pascal) e dal suo ex John (Chris Evans), un attraente, ma povero, giovane attore. Il film ci presenta un contrasto tra la vita nel lusso inimmaginabile del primo e quella precaria del secondo.

Lucy si guadagna da vivere facendo la «matematica dell’amore», nella quale i conti si basano su altezza, peso, salario, età, aspetto fisico e altri elementi che non vanno mai oltre la superficie delle persone. Durante tutto il film, la vediamo combattere una battaglia interna tra la parte di sé che aspira a dare priorità alla sua situazione economica e quella che vuole semplicemente amare. La seconda, infine, vince.

Compagna o girlboss?

Nell’edizione statunitense di Jacobin, Kristen R. Ghodsee conclude che Materialists racconta la storia di come, se si ha successo professionale, si può vivere l’amore con chi si vuole: «sotto il libero mercato, […] sono le donne che guadagnano abbastanza che possono permettersi di sposarsi per amore». Come dice Lucy stessa, «posso prendermi cura di me stessa». Questo, come argomenta correttamente Ghodsee, è un elemento essenziale per la soddisfazione delle donne nell’amore e nel sesso, ma l’orientamento politico del film vede la protagonista come in grado di prendersi cura di sé stessa grazie a una carriera professionale di successo. Le condizioni materiali nelle quali avviene questa carriera, o quelle che hanno permesso a questa donna di ottenerla, non vengono particolarmente messe a fuoco, eppure sono queste condizioni che dovrebbero «prendersi cura» non solo di Lucy, ma di ognuna di noi, della totalità della classe lavoratrice. Ossia il film sembra non avere problemi col fatto che sposarsi, o semplicemente formare una coppia, per amore sia un ulteriore lusso che si può permettere solo una certa fetta di donne professioniste. 

Questa storia infatti non si pone il problema delle condizioni materiali per cui dobbiamo lottare affinché l’amore non sia più un «mercato», ma solo di come possiamo prendere la situazione in mano in modo individuale per non dover dipendere da un uomo, anche se il resto del mondo rimane così com’è.

Sì, siamo esattamente dei «pesci» da pescare

In una scena del film, una cliente dice a Lucy di essere un catch, che in italiano si tradurrebbe come «buon partito», ma che in inglese significa letteralmente qualcosa di straordinario da pescare (in questo caso, nel «mercato» dell’amore). Lucy le risponde che non è un catch perché non è «un pesce». Ma ciò che Song riesce a fare con questo film è trasmettere una realtà in cui tutte e tutti siamo esattamente questo: pesci (al mercato) il cui valore dipende da numeri interamente legati alle apparenze.

Lo vediamo nei calcoli, freddi, che realizza il personaggio di Johnson nell’analizzare i suoi clienti, nelle richieste di questi (altezza, età, reddito…), nel fatto stesso dell’esistenza di un servizio di matchmaking. L’aspetto forse più interessante di questo film è infatti che Song riesce a portare nei grandi schermi le varie realtà del modello romantico-sessuale attualmente incoraggiato dal capitalismo. Un modello definito, come argomentato dalla sociologa Eva Illouz, dalla ricerca (spesso letteralmente online) del viso e il corpo perfetti, che sostituisce l’incontro con un altro nella fisicità e nella spontaneità, «coi suoi difetti e la sua bellezza […], in un insieme di ambivalenza e pienezza»: con le loro particolarità, le persone «a volte, irrompono in noi senza che lo vogliamo».

Così, invece di un incontro nel quale l’amore o l’attrazione ci colpiscono, cerchiamo di fare liste, come se fossero liste della spesa, nelle quali includiamo tutto ciò che vorremmo in un partner che, come i clienti di Lucy, stiamo cercando di trovare nel «mercato» romantico-sessuale (in inglese si usa moltissimo proprio l’espressione dating marketplace). Quindi sì, siamo dei «pesci» che, in questo sfortunato «mercato», hanno più o meno valore in base ad aspetti legati alle apparenze (fisiche o di altro tipo).

In cerca della casa che non dovremmo volere

La scelta di Lucy alla fine del film, pur come detto permessa dal suo successo professionale, rispecchia un rifiuto interessante di quello che il zeitgeist ci dice che dovremmo desiderare. Una volta che le donne si trovano un viso e un corpo perfetti, come descritti da Illouz, infatti, perché non goderne?

In un interessantissimo articolo sulla rivista Damage, Dustin Guastella recupera delle osservazioni di Mark Fisher sullo stato della famiglia: Fisher sosteneva che «i legami familiari sono al giorno d’oggi insostenibili». «Non è soltanto lo stress delle ‘condizioni d’instabilità permanenti’ – continua Guastella – che rendono più difficile per i genitori rimanere insieme e crescere figli, ma anche che la socialità generata da tali condizioni rende difficile persino desiderare di avere una famiglia».

Viviamo in un mondo nel quale ciò che viene visto come successo è una dedizione quasi ossessiva per la propria personalità (incentrata sempre di più su discorsi, in teoria, politici), sulla disponibilità e capacità (e purtroppo spesso l’obbligo) di trasferirsi per lavoro, sul cambio costante di appartamento in appartamento, di lavoro in lavoro e, come no, anche di partner in partner. Questo rende la solidità di relazioni, famiglie o anche di progetti politici stabili, o integrati in un territorio, profondamente difficili, non solo dal punto di vista logistico e materiale, ma anche per la mancanza di desiderabilità («Se sei bona cosa ci fai in una città di provincia italiana invece di farti un viaggio su uno yacht a Bali?»).

Nella nostra realtà attuale, un viaggio meditativo in Thailandia o l’adozione di un cane vengono viste come esperienze più desiderabili, e meno a rischio dell’accusa di essere conservatrici, rispetto a una relazione basata semplicemente su un amore istintivo o al mettere su famiglia. Con la sua scelta, la protagonista del film di Song esce dallo schema nel quale l’obiettivo di ogni individuo dev’essere fare la scelta personale più «conveniente» e più in linea con uno stile di vita per cui siamo essenzialmente consumatrici di luoghi, esperienze e persone.

È quest’instabilità assoluta e la sua celebrazione, che rappresenta quelle che nella Traviata di Verdi vengono chiamate «aride follie», che descrive la vita di questa prostituta in un mondo riempito da relazioni umane sterili, transazionali e temporanee. Anche se in una società implacabilmente maschilista che non perdona, lei decide di scapparne per un amore che la mette in una situazione economica difficile, ma nel quale vuole, nelle sue stesse parole, vivere.

Non avrei scambiato Perugia per nessuno yacht. Come del resto non scambierei nessuna terra ferma per la vita alla deriva che, ci dicono e ripetono, dovremmo desiderare.  Avremmo in fondo semplicemente bisogno di una casa, in tutti i sensi della parola.

*Tiare Gatti Mora, laureata presso la King’s College London, è una giornalista italospagnola che collabora come giornalista audiovisiva e militante con media e organizzazioni italiane, spagnole e anglosassoni.

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