«Contro la destra serve complessità»
Articolo di Caparezza, Jacopo Custodi
Michele Salvemini, in arte Caparezza, non ha bisogno di molte presentazioni: da
oltre vent’anni è una delle voci più originali della musica italiana. Rapper in
continua evoluzione, ha un pubblico vasto e fedele che lo ha seguito attraverso
concept album sempre nuovi, in cui si mescolano linguaggi, generi musicali e
immaginari. Album che somigliano più a degli universi narrativi che a semplici
dischi. Il più recente, Orbit Orbit, uscito il 31 ottobre, è accompagnato da un
fumetto scritto da lui, vecchio sogno adolescenziale finalmente portato a
compimento.
È uno dei pochi musicisti italiani contemporanei capaci di tenere insieme
successo commerciale, sperimentazione artistica e impegno politico. Le sue
canzoni continuano a risuonare nei cortei e nelle manifestazioni in tutta
Italia, senza che lui si sia mai appiattito sugli stereotipi estetici e
linguistici del «cantante di sinistra». Ogni volta che pubblica un nuovo disco
scala le classifiche e buca il mainstream, per poi tornare volentieri
nell’ombra, lontano dall’opinionismo permanente dei social e dalla ricerca
ossessiva di visibilità.
Lo abbiamo incontrato nel suo studio a Molfetta, pochi giorni dopo le elezioni
regionali pugliesi, segnate anche da piccole polemiche locali per via di alcuni
politici che hanno contrapposto i seggi vuoti alle file lunghissime per il
firmacopie di Caparezza in città. Con lui abbiamo parlato di libertà, di musica,
di pathosfera e di politica.
Il 31 ottobre è uscito il tuo nuovo album, Orbit Orbit, per la prima volta
accompagnato anche da un fumetto che lo complementa. È un’opera ibrida che
sembra chiudere una trilogia: Prisoner 709 parlava della prigionia mentale,
Exuvia della fuga, Orbit Orbit della libertà. Che tipo di libertà racconti e
quanto ti sembra davvero raggiungibile?
Quando si parla di libertà si apre subito un vaso di Pandora, perché ogni idea
di libertà si porta dietro anche le sue contraddizioni. Chi è davvero libero,
quale società è davvero libera? Quella occidentale o quelle che si
contrappongono a quella occidentale? Come misuriamo la libertà? Insomma,
entriamo subito in un ginepraio.
Io mi sono sempre sentito un «prigioniero della Terra» – come lo siamo tutti –
perché ho sempre visto il pianeta come una bella galera da cui non si può
fuggire, e la forza di gravità come una specie di braccialetto elettronico.
Allora mi sono chiesto: qual è stata, nella mia vita, una vera forma di libertà?
Perché alla fine il disco è molto personale. L’unica risposta evidente era
l’immaginazione. Per me l’immaginazione è una forma autentica di libertà: in
nessun contesto puoi vietare a una persona di immaginare qualcosa di migliore o
di peggiore.
L’unico vincolo, l’unica contraddizione, è che l’immaginazione agisce prendendo
come punto di riferimento la realtà. Per spiegarmi uso un esempio di Karl
Jaspers, filosofo tedesco che ha studiato Van Gogh e ha concluso che il suo atto
creativo fosse una reazione alla malattia. Secondo Jaspers l’atto creativo è
come una perla: così come la conchiglia crea la perla, così l’essere umano crea
l’opera d’arte. Ma la conchiglia crea la perla quando dentro entra un granello
di sabbia o qualcosa che la infastidisce: per anestetizzare quel dolore lo
ricopre di madreperla e nasce la perla. Tutte le perle hanno dentro qualcosa di
disturbante. Nel mio caso la realtà è la cosa disturbante, l’immaginazione è la
madreperla e la perla è l’opera – in questo caso Orbit Orbit – che metto al
mondo. Quindi per me l’immaginazione è una forma di reazione alla realtà: è
libertà ma è anche resistenza. Non credo sia una libertà «pura», nel mio caso è
proprio una forma di resistenza. E Orbit Orbit è, nel fumetto, l’onomatopea
dell’immaginazione: ecco perché l’album si chiama così.
L’orbita è movimento ma anche una ripetizione intorno a un centro. Per un
progetto che parla di libertà, ti interessava di più l’idea di fuga dal sistema
o quella di imparare a muoversi dentro i suoi campi gravitazionali?
Bisogna imparare a muoversi dentro. È così anche nel fumetto: le tavole si
chiamano «gabbie» e la libertà si esercita proprio all’interno di queste gabbie.
La fuga, per me, era il tema di Exuvia, l’album precedente, e rappresentava il
passaggio da uno stato all’altro. In parte è successo davvero, perché a un certo
punto sono diventato sceneggiatore di fumetti, quindi questa transizione si è
compiuta. Ma mi sono reso conto che la fuga assoluta non è possibile.
L’immaginazione deve saper convivere con la realtà e muoversi all’interno di
queste micro e macro gabbie.
Nel tuo ultimo album c’è una bellissima canzone in cui parli di come abbiamo
perso empatia, di come siamo usciti dalla «pathosfera». Secondo te come si
rientra nella pathosfera?
È una domanda dalla risposta difficile, perché il mio è più un desiderio che una
ricetta. Mi sono accorto che, man mano che cresciamo, tutto ciò che ci circonda
diventa sempre più insostenibile. Per salvarmi, per non essere continuamente
ferito, mi sono reso conto che iniziavo anch’io a costruire delle barriere
intorno a me, a far finta di non vedere, ad anestetizzarmi, a uscire dalla
pathosfera. È un errore, ma penso sia un errore che accomuna tante persone oggi,
nell’era dei social, dove sei costantemente sotto attacco da chiunque. E spesso
le stesse persone che attaccano sono quelle che non riescono a reggere i colpi
quando li subiscono.
Allora ti difendi creandoti una corazza di cinismo, che però è molto pericolosa,
perché quando perdi la fiducia nell’umanità è un attimo che perdi la tua di
umanità. Il vero pericolo è diventare insensibili: non riconoscere più le cose e
le persone belle che hai intorno. Ma puoi riconoscerle solo se accetti anche la
loro parte negativa. Credo che questa sia una grande lezione della vita, che ho
imparato nel mio giro di boa di cinquantenne. Quindi, per rientrare nella
pathosfera, bisogna tornare a essere empatici, ma l’empatia è un atto violento,
nel senso che quando ti metti davvero nei panni dell’altro non è facile
sopportarne il peso e le contraddizioni. Bisogna accettare di fare a pugni con
la realtà e con quello che ci fa male, invece di anestetizzarci.
So che ci sono anche persone un po’ deluse dalla mia «virata» su queste
tematiche, dopo dischi considerati più politici. Ma per me la politica non è per
forza fare il tribuno del popolo, anche i sentimenti rientrano nella politica,
anzi direi che la politica del sentimento è quella più autentica, più forte, più
coinvolgente.
Questa introspezione è qualcosa che ti accomuna ad altri grandi artisti
impegnati – penso a Zerocalcare – che come te partono spesso da sé stessi per
parlare del mondo. È un po’ un segno dei tempi secondo te? Abbiamo bisogno di
partire dalle esperienze autobiografiche per parlare della collettività?
Questa è una cosa che, nel mio caso, è avvenuta crescendo. Quando ero giovane mi
sentivo parte integrante di un mondo che si muoveva nel presente. Poi a un certo
punto dentro di me è cominciato a fare capolino il passato. Non so per quale
motivo, forse perché c’è sempre meno futuro. E in qualche modo il passato ti
ricorda che sei stato tante cose diverse, hai avuto varie vite. Così ho iniziato
a vedermi come un viaggio e non più come un ragazzo che vive nel suo contesto
sociale, che lotta per il suo presente e per un futuro migliore collettivo. Ho
cominciato ad analizzare tutte le tappe del mio viaggio, che non è fatto
soltanto di posti bellissimi, è fatto anche di posti orrendi, come tutte le vite
di ciascuno di noi. E questa cosa probabilmente è una necessità, io la vedo come
una necessità adulta. Sentivo che non volevo più parlare, che non volevo più
puntare il dito, ma volevo rivolgerlo verso di me, per capire che cosa è
successo nella mia vita. Questo non significa che abbia smesso di pensare alla
collettività, semplicemente ho pensato che prima di salire sul pulpito dovessi
capire meglio chi sono io sul pulpito. Perché poi diventa più credibile quello
che dici dal pulpito.
Una domanda soprattutto per i lettori americani che ti leggeranno: in
un’intervista hai raccontato che il primo album che hai comprato era dei Run Dmc
e anni dopo, ormai affermato, hai anche collaborato con Darryl McDaniels. Che
influenza ha avuto il rap americano – e più in generale la musica statunitense –
su di te?
Il rap americano è stato l’epifania della mia vita musicale. Da piccolo non ho
mai avuto il desiderio di diventare un cantante, perché ero molto introverso – e
sono ancora molto introverso, anche se ho fatto un lavoro su di me. Da bambino
il mio desiderio era diventare fumettista, perché mi immaginavo dentro una
stanza, fuori dall’ambiente circostante, solo io e la mia fantasia.
Poi a un certo punto succede qualcosa: vedo in tv You Be Illin’ dei Run Dmc.
L’immagine di questi tre ragazzi in tuta che fanno rap, con uno di loro che
ottiene suoni muovendo i vinili – e io a casa avevo un sacco di vinili di mio
padre – mi colpisce tantissimo. Era come usare un oggetto per qualcosa per cui
non era «nato», un po’ come Zappa quando in una trasmissione si mette a suonare
le ruote di una bicicletta. In più da bambino ero affascinato dal suono delle
parole: adoravo gli scioglilingua. Vedere quella cadenza ritmica, quel modo di
parlare in modo musicale, è stata una folgorazione sulla via di Damasco.
Non sapevo neanche che quello fosse rap, né chi fossero davvero quei tre. Sono
andato in un negozio di dischi a Molfetta a chiedere insistentemente l’album dei
Run Dmc che conteneva You Be Illin’. Non c’era internet, il disco arrivava
dall’America e non era distribuito in Italia, così sono tornato in quel negozio
un’infinità di volte per vedere se fosse arrivato. Quando finalmente è successo,
mi ricordo benissimo di me davanti alla cassa, col proprietario che indugiava a
fare lo scontrino e io che non vedevo l’ora di correre a casa per ascoltarlo
tutto. Per me il rap americano è stato il Big Bang.
Ovviamente parlare di «rap americano» è dire tutto e niente, perché è partito in
un modo ed è diventato tutt’altro. Io, per esempio, non ho mai subito il fascino
del gangsta rap: lì un certo tipo di atteggiamento ha cominciato a non piacermi
più. Ma con i Run Dmc, e poi con gruppi come Public Enemy e Beastie Boys, ogni
nuovo disco era come aprire una scatola di giocattoli. Ho iniziato a pensare che
potessi provare a fare anch’io rap quando ho sentito per la prima volta Frankie
hi-nrg, uno che aveva trovato un modo per tradurre in italiano quella stessa
forza comunicativa.
Un’altra cosa che interessa ai lettori di Jacobin è capire come siamo passati
dall’Italia del più grande Partito comunista d’Europa a un paese governato da
Giorgia Meloni. Tu che lavori sull’immaginario e sulle emozioni collettive, come
vivi questa fase politica? Cosa racconta, secondo te, del nostro paese?
Credo che il Partito comunista italiano sia stato il partito più credibile e più
serio di tutti. Era un partito in cui c’era anche della poesia, non so come
dire… Oggi invece viviamo in un paese che secondo me non è di destra, ma è
populista, in cui c’è una disaffezione verso la complessità. C’è proprio un
rifiuto della complessità a livello generale, non solo in politica. Ma è
sbagliato, perché la vita è la cosa più complessa che esiste. Oggi quando c’è un
problema complesso – pensiamo alle emigrazioni – la risposta semplice è quella
che attecchisce. La famosa politica di pancia funziona di più perché
approfondire è faticoso, ma se ti rifiuti di approfondire stai impoverendo anche
il meccanismo cerebrale che ti porta a evolverti come persona. E così si
comincia a vivere in una società manichea. Non penso però che sia un problema
solo italiano, lo vediamo anche negli Stati uniti. È proprio un problema
generale, alimentato forse anche dal web, in cui le notizie diventano
semplicemente un titolo da clickbait e gli algoritmi alimentano le
polarizzazioni. Questo sta impoverendo il dialogo, sta impoverendo l’approccio
alla vita. Il semplicismo è il grave problema di questo momento storico. E non
era così nel passato: per esempio le lettere che Van Gogh scriveva al fratello
Teo (a un certo punto sono andato in fissa per Van Gogh) erano di una profondità
e di una valenza narrativa fortissima. Si ambiva alla complessità, ora si
ambisce al semplicismo, che attenzione non è la semplicità. La semplicità è un
valore, soprattutto nella divulgazione, è il semplicismo il problema.
Negli ultimi anni si è molto discusso a sinistra del rapporto fra cultura e
politica. Da un lato abbiamo visto come incentrare la politica sulla dimensione
culturale possa produrre fenomeni problematici come le culture wars; dall’altro,
in Italia sappiamo fin dai tempi di Antonio Gramsci quanto l’egemonia culturale
sia importante per conquistare nuovi diritti. Tu da artista che nella produzione
culturale non dimentica la politica cosa ne pensi di questo complicato rapporto?
Partiamo dall’arte: io penso che nell’arte sia tutto lecito e lo dico in maniera
lapidaria. Nell’arte non puoi assolutamente mettere paletti, di nessun tipo. Poi
gli artisti si assumeranno la loro responsabilità per quello che dicono, ma
l’arte è qualcosa d’altro rispetto alla comunità, alla vita, quindi diciamo che
io sull’arte e sulla creatività non voglio paletti. Sono contro la cancel
culture: non sono per andare a prendere cose del passato e censurarle, perché
sono una testimonianza del passato e danno forza a quello che accade oggi. Oggi,
se guardi un vecchio film in cui si prende in giro una categoria e lo confronti
con un film di oggi, in cui si sta più attenti, capisci che è stato fatto un
passo avanti. Però, se mi cancelli la testimonianza del passato,
quest’evoluzione si perde.
Lo stesso vale per le statue dei personaggi del passato: non sono per il loro
abbattimento, ma per cambiare il modo in cui le raccontiamo. Altrimenti è come
cancellare porzioni della tua vita. Io ho fatto cazzate nella mia vita, ma non
posso cancellarle, altrimenti esco dalla pathosfera. Devono aver avuto un senso,
anche solo quello di avermi portato a essere una persona migliore. Dovremmo
guardare alla società allo stesso modo: come a un essere umano che cresce e
cambia.
Ovviamente, nella vita e in politica, le battaglie culturali servono e sono
importanti. Però, personalmente, sono per le rivoluzioni culturali consapevoli:
non che io mi sveglio e da oggi si fa così, perché in quel modo non cambi
realmente e culturalmente le persone. Preferisco i piccoli passi avanti
collettivi che, quando diventano consapevoli, non li tocchi più, o almeno si
spera.
Vieni da Molfetta e hai portato spesso nei testi e nello stile uno sguardo
laterale rispetto ai canoni culturali dominanti. In che modo il fatto di venire
da una città medio-piccola del sud ha modellato il tuo modo di fare cultura e le
tue idee politiche?
Non lo so, mi sembra che il mio approccio alla vita derivi più da come sono
fatto io, dal mio carattere, che dal posto in cui sono nato. Però provo a
ragionarci adesso: Molfetta è un paesone in cui sopravvive un’idea di comunità e
dove non c’è ancora quell’individualismo spinto tipico dei paesi capitalisti
contemporanei. Questo genera forme di aiuto e di solidarietà, e ci aiuta a stare
dentro la pathosfera. Mi piace vivere qui, e questa è una zona bellissima. Ci
sono però anche dei problemi, ad esempio le questioni legate alla criminalità,
che proprio non sopporto per indole e che mi fanno contorcere lo stomaco. I miei
miti non saranno mai quelli celebrati dagli sceneggiati contemporanei. Ho anche
un rapporto difficile con la religione cattolica, che qui è molto radicata. A
volte, soprattutto durante le festività, la fede viene vissuta con un afflato un
po’ troppo doloroso, con l’ostentazione del dolore. Durante la settimana di
Pasqua vedi gente trafitta, gente che piange, gente incappucciata. Sono cose che
non mi hanno fatto bene da bambino, mi hanno generato ansie e paura. Una cosa
bella invece è che, al di là della religione, a Molfetta e nelle città limitrofe
si tende a sdrammatizzare molto, e questo mi ha aiutato a non prendermi mai
troppo sul serio, a non sentirmi un divo. Ho sempre sdrammatizzato il mio ruolo
e per fortuna non mi sono mai sentito «sto cazzo» e questa cosa secondo me fa
parte del modo di essere di un molfettese.
Che rapporto hai oggi con la parola «sinistra»? È ancora una bussola o è
diventata una categoria troppo confusa?
Io in tutta la mia vita ho sempre votato Rifondazione comunista [a Molfetta
Rifondazione si presenta ancora col proprio simbolo e alle ultime elezioni
comunali il suo candidato ha preso l’8,1%, NdR]. Sono nato in una famiglia che
più o meno orbitava politicamente intorno alla Democrazia cristiana, quindi non
ho avuto un imprinting comunista, semplicemente mi sono avvicinato a
Rifondazione guardando quello che facevano i ragazzi del partito qui a Molfetta.
Mi sono appassionato a loro e quindi ho sempre votato per Rifondazione. I
ragazzi di Rifondazione erano quelli che facevano le cose più interessanti,
erano i più sinceri e i più onesti. Difficilmente potrei votare per il
centrosinistra oggi, che mi sembra troppo di centro, troppo di stampo
democristiano.
Qual è il tuo album preferito?
Il mio album preferito è sempre l’ultimo che ho fatto, perché è il più fresco ma
anche perché ogni nuovo album per me è come se fosse una morte da celebrare.
Quando pubblico un disco mi libero di pensieri che in maniera frustrante ho
faticato a mettere su carta per anni e quindi per me è una morte da festeggiare.
Forse è l’imprinting religioso e molfettese che ritorna!
Ultima domanda: non so se lo sai, ma Zohran Mamdani prima di diventare sindaco
di New York faceva il rapper. Quando ti vedremo candidato sindaco di Molfetta?
Mai! Ho molto rispetto verso la politica e non sono uno di quelli che dice che i
politici sono tutti dei ladri. Non sono per i semplicismi: tra le persone che
scelgono di fare politica c’è sempre qualcuno che ha dentro un fuoco vero, e
questo va riconosciuto. Come nella musica: c’è chi ha quel fuoco, solo che
magari non lo trovi nella playlist di Spotify, devi andarlo a cercare. La
politica la prendo molto seriamente e, proprio perché la prendo seriamente, so
che non ho quel fuoco. Nel tempo sono stato corteggiato più volte per entrare in
qualche lista. Ho sempre rifiutato, anche per rispetto della politica. Non ne
avrei le competenze e, soprattutto, non ne ho il desiderio. Servono persone a
sinistra mosse da una passione autentica. Ne conosco, ne ho viste gravitare in
quell’ambito. Non esiste l’integerrimo, tutti fanno errori, ma se qualcuno ha un
fuoco reale, e lo fa perché ci crede, allora bisogna mandare avanti quella
persona lì. Sono alla ricerca di persone così.
*Jacopo Custodi è ricercatore in Scienze Politiche presso la Scuola Normale di
Pisa. Ha curato Comunismo e questione nazionale. Madrepatria o Madre
terra? (Meltemi, 2021) e Le parole e il consenso. Come battere la destra a
partire dalle parole che usiamo ogni giorno (Castelvecchi, 2021) e scritto
Un’idea di paese (Castelvecchi, 2023). Michele Salvemini dopo gli esordi come
Mikimix, che lui stesso definisce «cantante insignificante, dal cui autodisgusto
nacque il sé stesso odierno», diventa Caparezza. Da allora ha pubblicato nove
album, l’ultimo dei quali si intitola Orbit Orbit.
L'articolo «Contro la destra serve complessità» proviene da Jacobin Italia.