Tag - immaginario

«Contro la destra serve complessità»
Articolo di Caparezza, Jacopo Custodi Michele Salvemini, in arte Caparezza, non ha bisogno di molte presentazioni: da oltre vent’anni è una delle voci più originali della musica italiana. Rapper in continua evoluzione, ha un pubblico vasto e fedele che lo ha seguito attraverso concept album sempre nuovi, in cui si mescolano linguaggi, generi musicali e immaginari. Album che somigliano più a degli universi narrativi che a semplici dischi. Il più recente, Orbit Orbit, uscito il 31 ottobre, è accompagnato da un fumetto scritto da lui, vecchio sogno adolescenziale finalmente portato a compimento. È uno dei pochi musicisti italiani contemporanei capaci di tenere insieme successo commerciale, sperimentazione artistica e impegno politico. Le sue canzoni continuano a risuonare nei cortei e nelle manifestazioni in tutta Italia, senza che lui si sia mai appiattito sugli stereotipi estetici e linguistici del «cantante di sinistra». Ogni volta che pubblica un nuovo disco scala le classifiche e buca il mainstream, per poi tornare volentieri nell’ombra, lontano dall’opinionismo permanente dei social e dalla ricerca ossessiva di visibilità. Lo abbiamo incontrato nel suo studio a Molfetta, pochi giorni dopo le elezioni regionali pugliesi, segnate anche da piccole polemiche locali per via di alcuni politici che hanno contrapposto i seggi vuoti alle file lunghissime per il firmacopie di Caparezza in città. Con lui abbiamo parlato di libertà, di musica, di pathosfera e di politica. Il 31 ottobre è uscito il tuo nuovo album, Orbit Orbit, per la prima volta accompagnato anche da un fumetto che lo complementa. È un’opera ibrida che sembra chiudere una trilogia: Prisoner 709 parlava della prigionia mentale, Exuvia della fuga, Orbit Orbit della libertà. Che tipo di libertà racconti e quanto ti sembra davvero raggiungibile? Quando si parla di libertà si apre subito un vaso di Pandora, perché ogni idea di libertà si porta dietro anche le sue contraddizioni. Chi è davvero libero, quale società è davvero libera? Quella occidentale o quelle che si contrappongono a quella occidentale? Come misuriamo la libertà? Insomma, entriamo subito in un ginepraio. Io mi sono sempre sentito un «prigioniero della Terra» – come lo siamo tutti – perché ho sempre visto il pianeta come una bella galera da cui non si può fuggire, e la forza di gravità come una specie di braccialetto elettronico. Allora mi sono chiesto: qual è stata, nella mia vita, una vera forma di libertà? Perché alla fine il disco è molto personale. L’unica risposta evidente era l’immaginazione. Per me l’immaginazione è una forma autentica di libertà: in nessun contesto puoi vietare a una persona di immaginare qualcosa di migliore o di peggiore.  L’unico vincolo, l’unica contraddizione, è che l’immaginazione agisce prendendo come punto di riferimento la realtà. Per spiegarmi uso un esempio di Karl Jaspers, filosofo tedesco che ha studiato Van Gogh e ha concluso che il suo atto creativo fosse una reazione alla malattia. Secondo Jaspers l’atto creativo è come una perla: così come la conchiglia crea la perla, così l’essere umano crea l’opera d’arte. Ma la conchiglia crea la perla quando dentro entra un granello di sabbia o qualcosa che la infastidisce: per anestetizzare quel dolore lo ricopre di madreperla e nasce la perla. Tutte le perle hanno dentro qualcosa di disturbante. Nel mio caso la realtà è la cosa disturbante, l’immaginazione è la madreperla e la perla è l’opera – in questo caso Orbit Orbit – che metto al mondo. Quindi per me l’immaginazione è una forma di reazione alla realtà: è libertà ma è anche resistenza. Non credo sia una libertà «pura», nel mio caso è proprio una forma di resistenza. E Orbit Orbit è, nel fumetto, l’onomatopea dell’immaginazione: ecco perché l’album si chiama così. L’orbita è movimento ma anche una ripetizione intorno a un centro. Per un progetto che parla di libertà, ti interessava di più l’idea di fuga dal sistema o quella di imparare a muoversi dentro i suoi campi gravitazionali? Bisogna imparare a muoversi dentro. È così anche nel fumetto: le tavole si chiamano «gabbie» e la libertà si esercita proprio all’interno di queste gabbie. La fuga, per me, era il tema di Exuvia, l’album precedente, e rappresentava il passaggio da uno stato all’altro. In parte è successo davvero, perché a un certo punto sono diventato sceneggiatore di fumetti, quindi questa transizione si è compiuta. Ma mi sono reso conto che la fuga assoluta non è possibile. L’immaginazione deve saper convivere con la realtà e muoversi all’interno di queste micro e macro gabbie. Nel tuo ultimo album c’è una bellissima canzone in cui parli di come abbiamo perso empatia, di come siamo usciti dalla «pathosfera». Secondo te come si rientra nella pathosfera? È una domanda dalla risposta difficile, perché il mio è più un desiderio che una ricetta. Mi sono accorto che, man mano che cresciamo, tutto ciò che ci circonda diventa sempre più insostenibile. Per salvarmi, per non essere continuamente ferito, mi sono reso conto che iniziavo anch’io a costruire delle barriere intorno a me, a far finta di non vedere, ad anestetizzarmi, a uscire dalla pathosfera. È un errore, ma penso sia un errore che accomuna tante persone oggi, nell’era dei social, dove sei costantemente sotto attacco da chiunque. E spesso le stesse persone che attaccano sono quelle che non riescono a reggere i colpi quando li subiscono. Allora ti difendi creandoti una corazza di cinismo, che però è molto pericolosa, perché quando perdi la fiducia nell’umanità è un attimo che perdi la tua di umanità. Il vero pericolo è diventare insensibili: non riconoscere più le cose e le persone belle che hai intorno. Ma puoi riconoscerle solo se accetti anche la loro parte negativa. Credo che questa sia una grande lezione della vita, che ho imparato nel mio giro di boa di cinquantenne. Quindi, per rientrare nella pathosfera, bisogna tornare a essere empatici, ma l’empatia è un atto violento, nel senso che quando ti metti davvero nei panni dell’altro non è facile sopportarne il peso e le contraddizioni. Bisogna accettare di fare a pugni con la realtà e con quello che ci fa male, invece di anestetizzarci. So che ci sono anche persone un po’ deluse dalla mia «virata» su queste tematiche, dopo dischi considerati più politici. Ma per me la politica non è per forza fare il tribuno del popolo, anche i sentimenti rientrano nella politica, anzi direi che la politica del sentimento è quella più autentica, più forte, più coinvolgente. Questa introspezione è qualcosa che ti accomuna ad altri grandi artisti impegnati – penso a Zerocalcare – che come te partono spesso da sé stessi per parlare del mondo. È un po’ un segno dei tempi secondo te? Abbiamo bisogno di partire dalle esperienze autobiografiche per parlare della collettività? Questa è una cosa che, nel mio caso, è avvenuta crescendo. Quando ero giovane mi sentivo parte integrante di un mondo che si muoveva nel presente. Poi a un certo punto dentro di me è cominciato a fare capolino il passato. Non so per quale motivo, forse perché c’è sempre meno futuro. E in qualche modo il passato ti ricorda che sei stato tante cose diverse, hai avuto varie vite. Così ho iniziato a vedermi come un viaggio e non più come un ragazzo che vive nel suo contesto sociale, che lotta per il suo presente e per un futuro migliore collettivo. Ho cominciato ad analizzare tutte le tappe del mio viaggio, che non è fatto soltanto di posti bellissimi, è fatto anche di posti orrendi, come tutte le vite di ciascuno di noi. E questa cosa probabilmente è una necessità, io la vedo come una necessità adulta. Sentivo che non volevo più parlare, che non volevo più puntare il dito, ma volevo rivolgerlo verso di me, per capire che cosa è successo nella mia vita. Questo non significa che abbia smesso di pensare alla collettività, semplicemente ho pensato che prima di salire sul pulpito dovessi capire meglio chi sono io sul pulpito. Perché poi diventa più credibile quello che dici dal pulpito. Una domanda soprattutto per i lettori americani che ti leggeranno: in un’intervista hai raccontato che il primo album che hai comprato era dei Run Dmc e anni dopo, ormai affermato, hai anche collaborato con Darryl McDaniels. Che influenza ha avuto il rap americano – e più in generale la musica statunitense – su di te? Il rap americano è stato l’epifania della mia vita musicale. Da piccolo non ho mai avuto il desiderio di diventare un cantante, perché ero molto introverso – e sono ancora molto introverso, anche se ho fatto un lavoro su di me. Da bambino il mio desiderio era diventare fumettista, perché mi immaginavo dentro una stanza, fuori dall’ambiente circostante, solo io e la mia fantasia. Poi a un certo punto succede qualcosa: vedo in tv You Be Illin’ dei Run Dmc. L’immagine di questi tre ragazzi in tuta che fanno rap, con uno di loro che ottiene suoni muovendo i vinili – e io a casa avevo un sacco di vinili di mio padre – mi colpisce tantissimo. Era come usare un oggetto per qualcosa per cui non era «nato», un po’ come Zappa quando in una trasmissione si mette a suonare le ruote di una bicicletta. In più da bambino ero affascinato dal suono delle parole: adoravo gli scioglilingua. Vedere quella cadenza ritmica, quel modo di parlare in modo musicale, è stata una folgorazione sulla via di Damasco. Non sapevo neanche che quello fosse rap, né chi fossero davvero quei tre. Sono andato in un negozio di dischi a Molfetta a chiedere insistentemente l’album dei Run Dmc che conteneva You Be Illin’. Non c’era internet, il disco arrivava dall’America e non era distribuito in Italia, così sono tornato in quel negozio un’infinità di volte per vedere se fosse arrivato. Quando finalmente è successo, mi ricordo benissimo di me davanti alla cassa, col proprietario che indugiava a fare lo scontrino e io che non vedevo l’ora di correre a casa per ascoltarlo tutto. Per me il rap americano è stato il Big Bang.  Ovviamente parlare di «rap americano» è dire tutto e niente, perché è partito in un modo ed è diventato tutt’altro. Io, per esempio, non ho mai subito il fascino del gangsta rap: lì un certo tipo di atteggiamento ha cominciato a non piacermi più. Ma con i Run Dmc, e poi con gruppi come Public Enemy e Beastie Boys, ogni nuovo disco era come aprire una scatola di giocattoli. Ho iniziato a pensare che potessi provare a fare anch’io rap quando ho sentito per la prima volta Frankie hi-nrg, uno che aveva trovato un modo per tradurre in italiano quella stessa forza comunicativa. Un’altra cosa che interessa ai lettori di Jacobin è capire come siamo passati dall’Italia del più grande Partito comunista d’Europa a un paese governato da Giorgia Meloni. Tu che lavori sull’immaginario e sulle emozioni collettive, come vivi questa fase politica? Cosa racconta, secondo te, del nostro paese? Credo che il Partito comunista italiano sia stato il partito più credibile e più serio di tutti. Era un partito in cui c’era anche della poesia, non so come dire… Oggi invece viviamo in un paese che secondo me non è di destra, ma è populista, in cui c’è una disaffezione verso la complessità. C’è proprio un rifiuto della complessità a livello generale, non solo in politica. Ma è sbagliato, perché la vita è la cosa più complessa che esiste. Oggi quando c’è un problema complesso – pensiamo alle emigrazioni – la risposta semplice è quella che attecchisce. La famosa politica di pancia funziona di più perché approfondire è faticoso, ma se ti rifiuti di approfondire stai impoverendo anche il meccanismo cerebrale che ti porta a evolverti come persona. E così si comincia a vivere in una società manichea. Non penso però che sia un problema solo italiano, lo vediamo anche negli Stati uniti. È proprio un problema generale, alimentato forse anche dal web, in cui le notizie diventano semplicemente un titolo da clickbait e gli algoritmi alimentano le polarizzazioni. Questo sta impoverendo il dialogo, sta impoverendo l’approccio alla vita. Il semplicismo è il grave problema di questo momento storico. E non era così nel passato: per esempio le lettere che Van Gogh scriveva al fratello Teo (a un certo punto sono andato in fissa per Van Gogh) erano di una profondità e di una valenza narrativa fortissima. Si ambiva alla complessità, ora si ambisce al semplicismo, che attenzione non è la semplicità. La semplicità è un valore, soprattutto nella divulgazione, è il semplicismo il problema. Negli ultimi anni si è molto discusso a sinistra del rapporto fra cultura e politica. Da un lato abbiamo visto come incentrare la politica sulla dimensione culturale possa produrre fenomeni problematici come le culture wars; dall’altro, in Italia sappiamo fin dai tempi di Antonio Gramsci quanto l’egemonia culturale sia importante per conquistare nuovi diritti. Tu da artista che nella produzione culturale non dimentica la politica cosa ne pensi di questo complicato rapporto? Partiamo dall’arte: io penso che nell’arte sia tutto lecito e lo dico in maniera lapidaria. Nell’arte non puoi assolutamente mettere paletti, di nessun tipo. Poi gli artisti si assumeranno la loro responsabilità per quello che dicono, ma l’arte è qualcosa d’altro rispetto alla comunità, alla vita, quindi diciamo che io sull’arte e sulla creatività non voglio paletti. Sono contro la cancel culture: non sono per andare a prendere cose del passato e censurarle, perché sono una testimonianza del passato e danno forza a quello che accade oggi. Oggi, se guardi un vecchio film in cui si prende in giro una categoria e lo confronti con un film di oggi, in cui si sta più attenti, capisci che è stato fatto un passo avanti. Però, se mi cancelli la testimonianza del passato, quest’evoluzione si perde. Lo stesso vale per le statue dei personaggi del passato: non sono per il loro abbattimento, ma per cambiare il modo in cui le raccontiamo. Altrimenti è come cancellare porzioni della tua vita. Io ho fatto cazzate nella mia vita, ma non posso cancellarle, altrimenti esco dalla pathosfera. Devono aver avuto un senso, anche solo quello di avermi portato a essere una persona migliore. Dovremmo guardare alla società allo stesso modo: come a un essere umano che cresce e cambia. Ovviamente, nella vita e in politica, le battaglie culturali servono e sono importanti. Però, personalmente, sono per le rivoluzioni culturali consapevoli: non che io mi sveglio e da oggi si fa così, perché in quel modo non cambi realmente e culturalmente le persone. Preferisco i piccoli passi avanti collettivi che, quando diventano consapevoli, non li tocchi più, o almeno si spera. Vieni da Molfetta e hai portato spesso nei testi e nello stile uno sguardo laterale rispetto ai canoni culturali dominanti. In che modo il fatto di venire da una città medio-piccola del sud ha modellato il tuo modo di fare cultura e le tue idee politiche? Non lo so, mi sembra che il mio approccio alla vita derivi più da come sono fatto io, dal mio carattere, che dal posto in cui sono nato. Però provo a ragionarci adesso: Molfetta è un paesone in cui sopravvive un’idea di comunità e dove non c’è ancora quell’individualismo spinto tipico dei paesi capitalisti contemporanei. Questo genera forme di aiuto e di solidarietà, e ci aiuta a stare dentro la pathosfera. Mi piace vivere qui, e questa è una zona bellissima. Ci sono però anche dei problemi, ad esempio le questioni legate alla criminalità, che proprio non sopporto per indole e che mi fanno contorcere lo stomaco. I miei miti non saranno mai quelli celebrati dagli sceneggiati contemporanei. Ho anche un rapporto difficile con la religione cattolica, che qui è molto radicata. A volte, soprattutto durante le festività, la fede viene vissuta con un afflato un po’ troppo doloroso, con l’ostentazione del dolore. Durante la settimana di Pasqua vedi gente trafitta, gente che piange, gente incappucciata. Sono cose che non mi hanno fatto bene da bambino, mi hanno generato ansie e paura. Una cosa bella invece è che, al di là della religione, a Molfetta e nelle città limitrofe si tende a sdrammatizzare molto, e questo mi ha aiutato a non prendermi mai troppo sul serio, a non sentirmi un divo. Ho sempre sdrammatizzato il mio ruolo e per fortuna non mi sono mai sentito «sto cazzo» e questa cosa secondo me fa parte del modo di essere di un molfettese. Che rapporto hai oggi con la parola «sinistra»? È ancora una bussola o è diventata una categoria troppo confusa? Io in tutta la mia vita ho sempre votato Rifondazione comunista [a Molfetta Rifondazione si presenta ancora col proprio simbolo e alle ultime elezioni comunali il suo candidato ha preso l’8,1%, NdR]. Sono nato in una famiglia che più o meno orbitava politicamente intorno alla Democrazia cristiana, quindi non ho avuto un imprinting comunista, semplicemente mi sono avvicinato a Rifondazione guardando quello che facevano i ragazzi del partito qui a Molfetta. Mi sono appassionato a loro e quindi ho sempre votato per Rifondazione. I ragazzi di Rifondazione erano quelli che facevano le cose più interessanti, erano i più sinceri e i più onesti. Difficilmente potrei votare per il centrosinistra oggi, che mi sembra troppo di centro, troppo di stampo democristiano. Qual è il tuo album preferito?  Il mio album preferito è sempre l’ultimo che ho fatto, perché è il più fresco ma anche perché ogni nuovo album per me è come se fosse una morte da celebrare. Quando pubblico un disco mi libero di pensieri che in maniera frustrante ho faticato a mettere su carta per anni e quindi per me è una morte da festeggiare. Forse è l’imprinting religioso e molfettese che ritorna! Ultima domanda: non so se lo sai, ma Zohran Mamdani prima di diventare sindaco di New York faceva il rapper. Quando ti vedremo candidato sindaco di Molfetta? Mai! Ho molto rispetto verso la politica e non sono uno di quelli che dice che i politici sono tutti dei ladri. Non sono per i semplicismi: tra le persone che scelgono di fare politica c’è sempre qualcuno che ha dentro un fuoco vero, e questo va riconosciuto. Come nella musica: c’è chi ha quel fuoco, solo che magari non lo trovi nella playlist di Spotify, devi andarlo a cercare. La politica la prendo molto seriamente e, proprio perché la prendo seriamente, so che non ho quel fuoco. Nel tempo sono stato corteggiato più volte per entrare in qualche lista. Ho sempre rifiutato, anche per rispetto della politica. Non ne avrei le competenze e, soprattutto, non ne ho il desiderio. Servono persone a sinistra mosse da una passione autentica. Ne conosco, ne ho viste gravitare in quell’ambito. Non esiste l’integerrimo, tutti fanno errori, ma se qualcuno ha un fuoco reale, e lo fa perché ci crede, allora bisogna mandare avanti quella persona lì. Sono alla ricerca di persone così.  *Jacopo Custodi è ricercatore in Scienze Politiche presso la Scuola Normale di Pisa. Ha curato Comunismo e questione nazionale. Madrepatria o Madre terra? (Meltemi, 2021) e Le parole e il consenso. Come battere la destra a partire dalle parole che usiamo ogni giorno (Castelvecchi, 2021) e scritto Un’idea di paese (Castelvecchi, 2023). Michele Salvemini dopo gli esordi come Mikimix, che lui stesso definisce «cantante insignificante, dal cui autodisgusto nacque il sé stesso odierno», diventa Caparezza. Da allora ha pubblicato nove album, l’ultimo dei quali si intitola Orbit Orbit. L'articolo «Contro la destra serve complessità» proviene da Jacobin Italia.
Spaghetti alla frontiera
La lezione degli spaghetti western sta nella loro capacità di lanciare potenti messaggi di sinistra utilizzando l’involucro dei film di genere e di un entusiasmante stile cinematografico popolare ABBONATI A JACOBIN ITALIA PER CONTINUARE A LEGGERE Attiva Accedi se sei già abbonato L'articolo Spaghetti alla frontiera proviene da Jacobin Italia.
La retorica operaia ma vuota degli Oasis
Articolo di Christopher J. Lee «Che stadio, man», ha gridato Liam Gallagher al pubblico, poco più di trentasette minuti dopo l’inizio del primo dei due concerti sold-out degli Oasis al MetLife Stadium di East Rutherford, nel New Jersey, un locale da 82.500 posti. «Grande quasi quanto casa mia». Se ci fossero stati dubbi, l’inconfondibile spavalderia e l’autostima che contraddistingue gli Oasis erano tornati. Con le recenti tappe in Corea del Sud, Giappone e Australia, più diverse altre in programma in Sud America, il tour Live ’25 – il primo della band dopo lo scioglimento nel 2009 – è stato un successo festoso. Lasciando poco al caso, ha anche prodotto poche sorprese, che si tratti di un pubblico numeroso (nonostante i costosi prezzi dinamici dei biglietti), del calore visibile sul palco tra i fratelli Gallagher, spesso tempestosi, o di scalette carismatiche che si sono soffermate sui primi due album canonici della band, Definitely Maybe (1994) e (What’s the Story) Morning Glory? (1995). Ciò che sorprende è l’accoglienza entusiastica che la band ha ricevuto, soprattutto negli Stati uniti. Mentre gli ascoltatori britannici riconobbero rapidamente gli Oasis, come testimoniano i loro storici concerti al Knebworth Festival del 1996, a soli due anni dall’uscita del loro Lp di debutto, negli anni Novanta ebbero un effetto più polarizzante sul pubblico statunitense. La loro sfacciata affermazione di essere più grandi dei Beatles suscitò disgusto in un momento in cui il volgare mercato divenne divisivo tra musicisti e pubblico della scena musicale indipendente. Liam Gallagher ha affrontato questa ambivalenzaa East Rutherford. «Ci piace venire qui… Abbiamo persino uno dei vostri ragazzi alla batteria» [riferendosi a Joey Waronker, attualmente membro degli Oasis in tour]. «Ci piace venire qui – ha ripetuto più tardi – ma quello che non ci è piaciuto è che ci è stato detto… ragazzi, dovete stare al gioco… Non dovete stare al gioco, cazzo». Se la musica e l’atteggiamento degli Oasis non sono cambiati, il mondo sì. Il pubblico non ha semplicemente imparato a tollerare l’autocompiacimento dei fratelli Gallagher; se ne è innamorato. Il loro umorismo inglese del nord è più comprensibile, la loro ambizione nuda e cruda più perdonabile. Certamente, una forte dose di nostalgia ha contribuito al successo del tour: anche gruppi musicali degli anni Novanta come Pulp, Stereolab e Pavement sono recentemente tornati alla ribalta. Eppure la nostalgia può significare molte cose. Il fascino populista degli Oasis, un tempo specifico della Gran Bretagna e della sua città natale, Manchester, si è intersecato con l’attuale momento populista globale in modi inaspettati. Il mondo sembra aver raggiunto gli Oasis. Le loro canzoni dure e ambiziose come Rock ‘n’ Roll Star, Supersonic e Live Forever risuonano ancora una volta, sebbene per ragioni che la band non avrebbe potuto prevedere. Il ritorno degli Oasis rivela i paradossi di lunga data della band di Manchester, fornendo una colonna sonora alle contraddizioni irrisolte della fase attuale. NON ESISTE UNA VIA D’USCITA FACILE Il carattere populista degli Oasis costituisce una tesi centrale dell’eccellente scritto di Alex Niven sulla band, Definitely Maybe (2014), parte della serie 33 1/3 di Bloomsbury, incentrata sugli album. Come altri gruppi iconici, gli Oasis sono emersi in un contesto di tendenze diverse, seppur correlate, che ne hanno decretato il successo. Insieme ad artisti come Blur, Elastica e i Verve, gli Oasis sono stati parte integrante della scena Britpop e del momento Cool Britannia della metà e della fine degli anni Novanta. Più profondamente, tuttavia, hanno evidenziato le tendenze economiche e politiche che stavano rimodellando il panorama musicale underground e la sua commercializzazione dagli anni Ottanta in poi. Come scrive Niven, Definitely Maybe è «un album caratterizzato dalla claustrofobia della città in decadenza in cui è stato immaginato». La città in questione è Manchester, dove i fratelli Gallagher sono cresciuti in un quartiere popolare e che, insieme ai suoi quartieri periferici, aveva già prodotto predecessori influenti come Joy Division, Smiths e Fall, tra molti artisti di rilievo. È anche la città al centro dello studio di Friedrich Engels del 1844, La condizione della classe operaia in Inghilterra. Tutto questo per dire che i Gallagher sono cresciuti all’interno di due storie interconnesse che hanno influenzato la loro visione del mondo. Altrettanto significativo è il fatto che entrambi siano cresciuti nella Gran Bretagna thatcheriana degli anni Ottanta – Noel è nato nel 1967 e Liam nel 1972 – e Noel in seguito ricorderà i suoi viaggi settimanali con il padre per riscuotere i sussidi di disoccupazione (dole payments) dall’ufficio di assistenza sociale locale. Questo ambiente operaio faceva il paio con quelli di altre parti del mondo, come il Pacifico nord-occidentale, dove figure come Kurt Cobain incontrarono analoghe opportunità limitate a causa delle conseguenze parallele del reaganismo. L’energia contorta di band come Nirvana e Oasis tradiva una rabbia di classe emergente che emerse come effetto delle politiche di questi governi. Eppure, mostravano anche una tensione tra disperazione e aspirazione che rivelava una resistenza al conservatorismo politico di quell’epoca, pur accettando la sua concezione individualistica del successo. Niven traccia un ulteriore paragone tra gli Oasis e l’hip-hop dell’epoca. A partire dalla fine degli anni Ottanta, la musica rap prese una svolta decisiva, campionando dischi soul e R&B degli anni Sessanta e Settanta, come testimoniato dai dischi rivoluzionari di De La Soul, A Tribe Called Quest e Beastie Boys: una tecnica di bricolage ingegnosa che finì per dominare il genere. Entrambi i fratelli Gallagher attraversarono una fase hip-hop (anche se breve) con Noel che, dopo aver visto i Public Enemy esibirsi a Manchester, disse che erano fonte di ispirazione. L’hip-hop è stata certamente un’altra risposta al reaganismo. Ancora più importante è la somiglianza di metodo artistico tra gli Oasis e i loro colleghi rapper. Entrambi hanno adottato un approccio di recupero del passato per recuperare materiale che potesse essere riutilizzato nel presente, trattando le registrazioni e il patrimonio musicale di coloro che li hanno preceduti come una sorta di bene pubblico. L’accusa critica secondo cui gli Oasis sarebbero derivati dai Rolling Stones, dai T. Rex e soprattutto dai Beatles non ha mai veramente colpito, soprattutto perché gli Oasis, come i loro colleghi hip-hop, sono stati trasparenti riguardo alle loro muse e alla loro adorazione. Gli Oasis emularono inoltre lo stile locale del loro tempo. Oltre al suono pesante e ad alto volume del grunge, mantennero elementi della scena shoegaze britannica, affine alla loro, che faceva ampio uso di pedali per effetti per creare paesaggi sonori immersivi di riverbero saturo. Gli Oasis firmarono con la Creation Records, etichetta di importanti gruppi shoegaze come Slowdive e My Bloody Valentine, nonché di importanti precursori come i Jesus and Mary Chain, che sperimentarono anche con la distorsione. Niven sottolinea come lo stesso tecnico del suono, Anjali Dutt, fosse dietro le quinte sia per Definitely Maybe che per il classico Loveless (1991) dei My Bloody Valentine, ampiamente considerato l’epitome del genere. Nonostante ciò, gli Oasis andarono oltre questi primi paragoni. Forgiando la propria identità, i Gallagher adottarono un’immagine pubblica travolgente oltre alla loro musica, con comportamenti rozzi, magliette da calcio e cappelli da pescatore e, non da ultimo, dimostrazioni di attrito (a volte inscenate) tra il freddo Noel e l’irascibile Liam. Questo spettacolo di mascolinità irriducibile, noto come «laddismo», faceva parte di una più ampia deriva culturale che spaziava dai delinquenti di Trainspotting (1993) di Irvine Welsh e del suo adattamento cinematografico di Danny Boyle al romanzo molto più tardo di Martin Amis, Lionel Asbo: State of England (2012). Questa sregolatezza coltivata era accompagnata da una certa bruttezza. In un modo che a molti sembrò razzista, Noel criticò la scelta di Jay-Z come headliner al Glastonbury Festival del 2008, affermando che l’hip-hop non era fatto per l’evento. In risposta, Jay-Z prese in giro Gallagher con una cover di Wonderwall all’inizio del suo set. Mark Fisher avrebbe poi denigrato gli Oasis e la scena Britpop per aver promosso una versione semplice ed esclusivamente bianca della britannicità, trascurando le innovazioni di musicisti come il visionario trip-hop Tricky, che stava registrando nello stesso periodo. Anche la musica degli Oasis ne avrebbe sofferto. Il successo globale li aveva condotti oltre le loro origini mancuniane, isolandoli dalla fonte della loro musica migliore. «Tutto il buono di Definitely Maybe – i suoi sogni di evasione, il suo senso di solidarietà, la sua rara libertà con materiali presi in prestito – trae la sua validità da questo contesto», scrive Niven. «Quando questo ancoraggio è scomparso, gli Oasis avrebbero perso il loro orientamento in modo piuttosto spettacolare». COSE CHE NON VEDRANNO MAI «Al giorno d’oggi, gli Oasis sono una di quelle band che sono per lo più amate dal pubblico, per lo più disprezzate dalla critica», attacca Niven in Definitely Maybe. Datato 2014, questo giudizio è stato probabilmente superato da un nuovo consenso critico, con molti commentatori che hanno attenuato le loro opinioni dopo il tour di reunion di quest’anno. Per i fan di lunga data, tuttavia, Live ’25 è stato niente meno che catartico. Clint Boon degli Inspiral Carpets, per il quale Noel un tempo ha lavorato come roadie, ha descritto l’atmosfera a Manchester per i cinque concerti degli Oasis dello scorso luglio come «come la fine della Seconda Guerra Mondiale». Con più moderazione, ma non meno entusiasmo, Irvine Welsh ha affermato che il tour è «ciò di cui avevamo bisogno» per portare un sentimento collettivo di gioia in un momento in cui la Gran Bretagna e il mondo si trovano a un bivio. Un’altra congiuntura di tendenze politiche, economiche e culturali, transatlantiche e non, ha segnato il ritorno della band. Gli Oasis non hanno mai finto di essere politicamente schietti, né di essere particolarmente astuti quando chiamati a farlo. Come racconta Niven, i Gallagher erano «grandi fan» di Tony Blair, che divenne rapidamente una recluta fuorviata per aver reso popolare il suo progetto New Labour. Più di recente, Noel ha fatto occasionali e pacati commenti su classe e opportunità, deplorando quanto sia costoso fondare una band al giorno d’oggi. Eppure è proprio la natura apolitica della band a rendere il loro tour una tregua problematica per molti. A differenza del concerto di beneficenza Together for Palestine di Brian Eno o delle prese di posizione pubbliche di singoli gruppi come Kneecap o Massive Attack, il genocidio a Gaza non è stato un argomento di discussione durante i loro concerti, per non parlare delle repressioni alla libertà di parola e all’immigrazione. Nostalgia non significa solo assecondare il passato, ma anche sfuggire alle difficoltà del presente. La nostalgia è anche un’opportunità per ricostruire mitologie. A differenza degli U2, un gruppo più anziano che ha poi decostruito i miti del West americano e della Berlino del dopoguerra fredda in The Joshua Tree (1987) e Achtung Baby (1991), gli Oasis non hanno mai dimostrato un interesse che andasse oltre se stessi. Per certi versi, questo solipsismo è stato loro utile. Sebbene spesso messi in competizione con i Blur, un paragone più illuminante è quello con i Radiohead – un tempo una band politicamente influente, molto popolare negli Stati Uniti, che da allora ha dovuto affrontare aspre critiche per la sua ipocrisia nei confronti di Israele. Con Live ’25, gli Oasis hanno rimesso in moto la propria mitologia per nascondere una contraddizione che covavano da tempo. Sebbene i Gallagher abbiano sofferto gli effetti del thatcherismo durante l’infanzia e la giovinezza, hanno ugualmente esemplificato l’attrattiva del thatcherismo per l’autocostruzione e l’autorealizzazione individuale. Sebbene numerosi artisti britannici, dai Black Sabbath ai Beatles, abbiano superato le proprie radici operaie – come fecero molti contemporanei hip-hop degli Oasis negli Stati Uniti – è difficile non cogliere questa ironia. Gli Oasis potrebbero essere la più grande storia di successo culturale del thatcherismo. Il fatto che gli Oasis si siano così allontanati dalla politica delle loro radici operaie è strettamente legato allo zeitgeist politico del momento attuale, e spiega perché la band risuoni ancora oggi in questo modo. Più che una semplice nostalgia degli anni Novanta o le qualità (probabilmente) vicine alla manosfera del laddismo degli Oasis, il ritorno dei fratelli Gallagher ha coinciso fortuitamente con un populismo emergente e retrogrado su entrambe le sponde dell’Atlantico – una risposta alle crescenti disuguaglianze economiche, ma non attraverso la solidarietà della classe operaia. «Il nucleo dell’identità degli Oasis era il populismo – scrive Niven – Forse più di ogni altra cosa, la loro ascesa a metà degli anni Novanta ha rappresentato lo scatenamento di una forma di idealismo populista con forti radici nell’esperienza della cultura operaia di fine Novecento». Eppure, questa promessa di articolare qualcosa di più grande e collettivo è svanita con il progredire della loro carriera discografica. Il loro populismo inscenato è diventato più redditizio che liberatorio, trascurando qualsiasi messaggio politico significativo o sostanza. Gli Oasis sono emblematici dell’attuale più ampio abbandono della politica operaia e dei suoi limiti autolesionistici. Sebbene Live ’25 abbia restituito una parvenza di sentimento collettivo ad alcuni, il ritorno degli Oasis serve a ricordare i loro difetti e come la svolta culturale e politica degli anni Novanta abbia influenzato profondamente la loro direzione creativa e la loro longevità. Sempre attenti alla questione della grandezza, Noel e Liam Gallagher hanno limitato la portata di questa possibilità, nonostante il successo dei loro primi due album. Per quanto calda e accogliente possa essere la nostalgia, non può riparare quell’occasione persa. *Christopher J. Lee insegna presso la Bard Prison Initiative. Ha pubblicato diversi libri ed è direttore responsabile della rivista Safundi. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo La retorica operaia ma vuota degli Oasis proviene da Jacobin Italia.
L’alienazione sarda in un film
Articolo di Andria Pili, Myriam Mereu Uscito al cinema il 23 ottobre 2025, La vita va così di Riccardo Milani ha dominato il botteghino, con un incasso totale di 1.606.299 euro, comprese le anteprime, e una media di 2.539 euro in 615 sale in tutta Italia al 26 ottobre. Sono dati Cinetel ripresi da CineGuru, che mette a confronto gli incassi dell’ultimo lungometraggio di Milani con quelli registrati dai suoi film precedenti – Un mondo a parte (2024) e Come un gatto in tangenziale (2017) – negli stessi periodi di riferimento. Questi numeri sono importanti per comprendere la ricezione di un film italiano rispetto ad altri titoli stranieri che hanno incassato somme decisamente inferiori – Springsteen: liberami dal nulla, Chainsaw Man-Il film: La storia di Reze, Bugonia. Ma soprattutto ci danno la misura di come una «commedia sociale», come ci viene presentata da buona parte della critica italiana, possa attestarsi al primo posto del box office facendo leva sulla presenza di nomi famosi (Diego Abatantuono, Virginia Raffaele, Aldo Baglio, Geppi Cucciari, non a caso i più citati dai media) e sfruttando «una storia di resistenza e appartenenza» ambientata in Sardegna.  Il film si ispira alla storia vera che, dal 2010 al 2016, ha contrapposto Ovidio Marras di Teulada alla Sitas di Benetton e Caltagirone, interessata al suo terreno per terminare la costruzione di un resort su Capo Malfatano, nelle coste del basso Sulcis. Lo scontro ebbe risonanza internazionale, trovando spazio anche sulle pagine del quotidiano The Guardian, in un articolo di John Hooper e Sara Perria del 2 settembre 2011. L’economia di Teulada – nel più ampio contesto della questione sarda – è negativamente condizionata dal peso del secondo poligono militare italiano e dai disincentivi creati dagli indennizzi, in uno dei territori più poveri dello Stato che ha subito prima lo sfruttamento e l’inquinamento ambientale da parte delle compagnie minerarie e delle multinazionali dell’alluminio, poi le conseguenze sociali della graduale dismissione di quest’attività. Di fronte a tale situazione, una parte di società è tentata dal seguire la via del turismo. Michele Mossa e Michele Trentini hanno girato un documentario, prodotto dall’Isre nel 2005, per mostrare lo sfruttamento di questo territorio a fini turistici. Gli autori hanno intervistato alcuni pastori e allevatori della zona di Capo Malfatano invasa dagli stabilimenti balneari e dai chioschi, tanto che si vede la spiaggia di Tuerredda presa d’assalto da orde di turisti. Uno dei pastori coinvolti è proprio Ovidio Marras, il quale, mentre prepara sa pilarda, il pomodoro secco, afferma: nosu biveus in s’ierru puru / no nasceus sceti in s’istadi cumenti faint is turistas («noi viviamo qui anche in inverno / non nasciamo solo d’estate come fanno i turisti»).  Il richiamo a una vicenda a sfondo sociale in un territorio al quale autori e produttori sono estranei, più il sostegno da parte della Regione, dell’Assessorato al Turismo e della Fondazione Sardinia Film Commission, impone che la pellicola non si possa trattare come un mero prodotto dell’ingegno. Essa pone delle questioni riguardanti sia l’immagine dell’isola per il mercato italiano, sia il rapporto tra la politica, il turismo e la produzione culturale in Sardegna. UNA PROMOZIONE DISCUTIBILE L’uscita è stata preceduta da un mese di promozione in cui sono stati riprodotti cliché inseriti perfettamente nella narrazione eterodiretta della Sardegna, in letteratura e in maniera ancora più incisiva al cinema. Il film – come descritto da Medusa – contrappone Efisio Mulas (Ignazio Loi), «custode silenzioso di un tempo che sembra non esistere più», al presidente di un gruppo immobiliare, «simbolo di un’Italia lanciata verso il futuro». In mezzo, la figlia di Efisio, «divisa tra le sirene del cambiamento e l’appartenenza alla propria terra». Inoltre, la comunità del pastore «si spacca tra chi sogna nuove opportunità di lavoro e chi teme di perdere per sempre la propria identità».  L’attore protagonista, Giuseppe Ignazio Loi, ottantaquattrenne originario di Terralba che da oltre settant’anni si dedica alla pastorizia, viene presentato come perfettamente identificato col personaggio: non ha mai preso l’aereo; da cinquant’anni non fa il bagno al mare. L’anziano è ripreso mentre si esprime in un italiano stentato, e questo diventa motivo di divertimento e bonaria presa in giro da parte di Virginia Raffaele. In una foto, Diego Abatantuono gli mette una mano in faccia; in un video backstage un’attrice lo bacia; un’altra posa il suo mento sulla sua testa. Negli spot promozionali, più che l’attore protagonista appare come una sorta di simpatica mascotte, degna di affetto ma non alla pari del resto del cast. Inoltre, sembra essere stato selezionato più per rappresentare un pastore sardo stereotipato che per impersonare Ovidio Marras, che era invece espressione di una particolare forma di insediamento agropastorale monofamiliare, detta furriadroxu, tipica del basso Sulcis. Il furriadroxu in cui viveva Marras è lo stesso «abitato» da Efisio Mulas nel film, un setting che dovrebbe ricondurre la vicenda reale alla sua rivisitazione in chiave dramedy.  Inoltre, è stato fatto sfilare durante la Milano Fashion Week, in una rassegna di moda – Diario di viaggio – curata da Antonio Marras e ispirata a Sea and Sardinia di D.H. Lawrence, autore secondo il quale la Sardegna era una terra non pienamente inserita nella civiltà. Lo stilista ha motivato la scelta in quanto Loi sarebbe «ambasciatore della bellezza che va preservata», interprete di una storia «simbolo dell’amore per le proprie origini e la propria terra». La scena era degna degli «zoo umani», i quali – citando lo storico Guido Abbattista – erano quelle «varietà di pratiche» compiute in Occidente, «a cavallo tra spettacolo, intrattenimento, divulgazione, educazione, propaganda – di messa in pubblica mostra di membri, rappresentanti, tipi provenienti da paesi e popoli alieni» (colonizzati).  Alcuni spot erano in forma di siparietto comico sul sardo, lingua viva ridotta a bizzarria per fenomeni da baraccone. Tutta la promozione sembra ricordarci come la sardità venga ammessa prevalentemente su un palco italiano. Un’identità addomesticata, da confinare ai canoni stereotipati della macchietta o dell’esotico.  UNA COMMEDIA STEREOTIPATA E APOLITICA Il nome di Ovidio Marras, come abbiamo visto, è modificato in Efisio Mulas, lo stesso del protagonista di Una questione d’onore di Luigi Zampa (1966), «la prima commedia italiana ambientata in Sardegna», secondo il critico cinematografico Gianni Olla. Il film di Zampa, che vedeva Ugo Tognazzi nei panni di Efisio Mulas, presenta i motivi tipici del filone banditesco sardo in salsa «sicilianizzante» e fa un uso esasperatamente caricaturale dell’accento sardo. Nel film di Milani, inoltre, il paese di Teulada diventa Bellesamanna, toponimo di una bellezza tanto grande da attrarre i gruppi immobiliari milanesi per portare lavoro in un territorio notoriamente depresso e strozzato dalla crisi.  La fedeltà al dato storico è demandata al ricorso al vero pastore sardo Giuseppe Ignazio Loi: una specie di marchio di autenticità garantito da una genuina parlata campidanese, talmente stretta che solo la figlia Francesca (Virginia Raffaele) è in grado di capirla. Ed è lei che fa da interprete al suo babbu quando dal Continente arriva Mariano, il capocantiere siciliano che sa trattare con tutti (Aldo Baglio), tranne che con Efisio; è lei l’unica a sostenere la battaglia del padre quando tutto il paese gli si è rivoltato contro a causa dei suoi infiniti ed estenuanti no. Un aspetto centrale del film è la falsa dicotomia tra i posti di lavoro e la natura incontaminata. La rappresentazione di una parte della comunità come disposta a piegarsi allo scempio edilizio per ottenere un’occupazione è un’assurda e pericolosa semplificazione che confonde causa ed effetto, rimuove la condizione subalterna di un popolo e la sua alienazione culturale conseguenti a un rapporto coloniale interno. Francesca resterà accanto al padre fino alla fine, quando di Efisio rimarrà il ricordo de s’arrastu (orma) inciso sulla lapide, ché nella vita non contano i passi che fai ma l’impronta che lasci.  In queste parole finali si scorge la doppia dimensione del film di Milani: da una parte, il messaggio rivolto ai sardi nel loro idioma, a mo’ di captatio benevolentiae o di monito alla salvaguardia della propria terra, delle proprie radici, della propria identità (parola insidiosa) contro interessi forestieri; dall’altra, la strizzata d’occhio al pubblico continentale, certamente più copioso rispetto a quello isolano, che all’uscita dalla sala, dopo i lunghissimi titoli di coda e i ringraziamenti istituzionali musicati da Moses Concas, e dopo lo spot che denuncia il furto di sabbia nelle spiagge sarde, avrà appreso un’importante lezione di vita dal pastore con la quarta elementare che sulla spiaggia di Bellesamanna si siede a contemplare l’orizzonte.  La storia, inserita entro il conflitto tra modernità e tradizione, appare depoliticizzata. Il suo significato di resistenza personale e anticoloniale viene occultato per ricondurla a manifestazione istintiva di difesa identitaria contro il progresso portato dall’esterno. Il messaggio è quindi depotenziato: una storia avulsa da un contesto segnato da rapporti di potere coloniale, che parla di grandi sentimenti ma non può far riflettere sulla necessità di una presa di coscienza dello sfruttamento dell’isola e contro la turistificazione.  Possiamo confrontare il successo del film di Milani con un’altra recente pellicola di un regista non sardo, Marco Amenta, ugualmente ispirata dalla vicenda di Ovidio Marras ma passata invece in sordina. Anna, un film drammatico, la cui forza risiede soprattutto nell’interpretazione dell’attrice protagonista, Rose Aste. Meno sponsorizzato de La vita va così, il film di Amenta è riuscito a trattare in maniera realistica ed energica un caso di speculazione edilizia che si è risolto a favore della proprietaria del terreno minacciato dalle ruspe. In questa rilettura al femminile dell’anziano pastore «resiliente» si innestano ulteriori elementi di natura politica che permettono di affrontare altri temi legati al ruolo della donna nella società contemporanea: la visione patriarcale del corpo femminile; l’alto tasso di disoccupazione che genera ostilità e rancore; la colpevolizzazione della donna che culmina nel suo isolamento.  Il confronto tra i due titoli ci spinge a fare una riflessione: affinché una storia simile abbia risonanza presso il pubblico italiano e goda di un maggiore sostegno promozionale è necessario trasporla in forma di commedia e farcirla di stereotipi? L’OPERAZIONE POLITICO-CULTURALE La politica oggi al governo dell’isola, il centrosinistra dominato dall’alleanza fra Pd e M5S, ha svolto intorno al film un’operazione volta a ripulire la propria immagine, fra notevoli contraddizioni. Il patrocinio della Presidente della Regione Alessandra Todde – il cui nome compare nei ringraziamenti finali insieme a tanti altri nomi – stona con il ruolo avuto dalla stessa nei confronti di altre appropriazioni di territorio isolano: ambiguo con la speculazione energetica e complice con l’occupazione militare. L’assessora all’ambiente Rosanna Laconi ha recentemente autorizzato il progetto di riqualificazione dell’ex Ospedale Marino di Cagliari in hotel di lusso a opera di uno dei più grandi imprenditori immobiliari sardi, Sergio Zuncheddu. Lo stesso comune di Cagliari, ugualmente ringraziato dal regista, non si è opposto a questo progetto e non sembra voler porre un freno all’inesorabile processo di gentrificazione e turistificazione della città. All’epoca dei fatti narrati nel film di Milani, il Partito democratico non prese una posizione contraria al progetto del resort a Capo Malfatano: la sua sezione di Teulada si espresse a favore, mentre il suo coordinamento provinciale dichiarò di prendere atto della coerenza di quel progetto con la normativa vigente. Paradossale, tenendo conto della storia narrata, è stata la sponsorizzazione da parte dell’Assessorato regionale al turismo, il cui titolare, Franco Cuccureddu, ha definito il film come «un grande spot per la Sardegna» e ha diffuso un messaggio pericoloso che contrappone un presunto turismo sostenibile da lui promosso a quello sostenuto dall’antagonista della storia.  TRA APPROPRIAZIONE CULTURALE E COLONIALISMO CINEMATOGRAFICO L’operazione politico-cinematografica ci pare emblematica dell’attuale fase di alienazione culturale sarda: dallo stigma all’esaltazione strumentale per scopi non emancipativi. L’appropriazione di una storia sarda di resistenza in favore di un’attività economica e della difesa di fatto di un bene collettivo contro il capitale del Nord Italia non ha prodotto un’opera di denuncia, né una «commedia sociale», ma una pellicola innocua, in cui lo stesso imprenditore milanese finisce per essere umanizzato e apparire, in fondo, un «buono» conquistato dai sentimenti del pastore sardo, mentre la politica regionale complice di altre operazioni coloniali viene addirittura ringraziata e la comunità teuladina colpevolizzata.   In sintesi, possiamo parlare del film come del paradosso di impossessarsi di una storia anticoloniale in termini coloniali, entro i meccanismi della turistificazione contro cui Ovidio Marras aveva lottato: la rappresentazione di una sardità ricca di stereotipi ricercati da un pubblico della penisola, che non viene chiamato a riflettere sul proprio privilegio nei confronti della Sardegna. A suo modo, una forma di speculazione, un colonialismo cinematografico che ricalca, in modo paradossale, quello edilizio di cui parla. Infine, è necessario chiedersi se sia giusto che la Regione promuova film che ripropongono stereotipi ricercati dal pubblico esterno, diffondendo anche un insidioso autoesotismo presso l’audience sarda. Compito della politica dovrebbe essere quello di sostenere la creazione di un «ecosistema culturale» favorevole a una produzione autonoma ed emancipata, per parlare innanzitutto ai sardi e dettare all’esterno un’immagine diversa di sé.  *Myriam Mereu, PhD in Studi Filologici e Letterari all’Università di Cagliari, è stata assegnista di ricerca in diversi progetti sul cinema e gli audiovisivi, tra cui il progetto “ATLas – Atlante delle televisioni locali” (Prin, 2020). Autrice di diversi contributi in riviste e volumi sul cinema in Sardegna, la sua prima monografia è Le voci dello schermo. Le lingue nel cinema sardo contemporaneo (Mimesis, 2024). Andria Pili è laureato magistrale in Scienze Economiche nell’Università degli studi di Cagliari e dottorando in Economia Politica nell’Università di Malaga. Membro fondatore del collettivo di ricerca Filosofia de Logu, nel cui ultimo volume Logu e Logos. Questione sarda e discorso decoloniale (Meltemi, 2024) ha pubblicato il capitolo Per una critica decoloniale del turismo in Sardegna. Ringraziamo V.F.M. per gli spunti che ci ha fornito. L'articolo L’alienazione sarda in un film proviene da Jacobin Italia.
L’astuzia del delfino tra gli squali
Articolo di Eileen Jones La morte di Robert Redford ha scatenato un’ondata di elogi insoliti anche per quelli che di solito accompagnano la scomparsa delle celebrità. Data la straordinaria longevità della sua fama nel corso di molti decenni e la natura poliedrica dei suoi interessi, c’è un Robert Redford diverso per ognuno di essi. Si può considerare il suo vasto contributo al cinema indipendente con il Sundance Film Festival da lui fondato, così come il suo impegno nello sviluppo di talenti cinematografici emergenti con il Sundance Institute. Si può apprezzare la sua ampia filmografia. Era un produttore attento e, da regista affermato, ha esordito con Gente comune (1980), che ha vinto l’Oscar come miglior film e gli è valso subito anche un Oscar come miglior regista. Puoi scegliere una fase preferita della sua leggendaria carriera di attore. Giovane e irresistibile (The Chase, A piedi nudi nel parco, The Hot Rock, La stangata)? Thriller politico (I tre giorni del Condor, Tutti gli uomini del presidente)? Romantico (Come eravamo, La mia Africa, Qualcosa di personale)? Neo-western (Butch Cassidy, Jeremiah Johnson, Tell Them Willie Boy Is Here, Il cavaliere elettrico, L’uomo che sussurrava ai cavalli)? Sports drama (Downhill Racer, Il migliore)? Maturo ma ancora sexy, che ruba la scena alle star maschili più giovani (Proposta indecente, Spy Game)? Venerabile saggio del cinema (A spasso nel bosco, Il vecchio e la pistola)? Potete dare un’occhiata al giovanissimo Redford anche nei primi anni Sessanta, quando recitava in televisione. E se volete apprezzare la sua calda voce tipicamente statunitense, sappiate che ha anche fatto da voce narrante di moltissimi film, soprattutto documentari sull’ambiente. Politicamente, ha coperto molti spazi. La sinistra può apprezzarlo per il suo impegno serio e a lungo termine per l’ambiente e i diritti dei nativi americani, nonché per i suoi film politici intelligenti della fine degli anni Sessanta e Settanta. I progressisti centristi possono apprezzarlo per il suo impegno di lunga data nel Partito democratico e per il suo impegno nel sistema esistente. E i conservatori di destra possono abbracciare il suo amore romanticizzato per il West americano, che ha ispirato il ruolo di Redford, un rude montanaro, in Jeremiah Johnson (1972) e il suo omaggio al Vecchio West, il suo libro del 1978, The Outlaw Trail: A Journey Through Time. E tutti possono apprezzare la sua bellezza, in termini di aspetto e di longevità. Tra questi, anche Donald Trump, che ha reso omaggio a Redford con una dichiarazione delle sue: «C’è stato un periodo in cui era il più sexy. Pensavo che fosse fantastico». La devozione di Redford al golden boy era così estrema che dovette trovare modi intelligenti per gestirla, per evitare che diventasse limitante e, francamente, un po’ nauseante. All’inizio, non aveva alcuna intenzione di diventare un ragazzo glamour di Hollywood in un modo che limitasse la sua carriera. Ecco perché rifiutò due dei ruoli più importanti degli anni Sessanta, entrambi pensati per «ragazzi d’oro»: Nick in Chi ha paura di Virginia Woolf? (1966), interpretato poi da George Segal, e Benjamin Braddock ne Il laureato (1967), il ruolo che rese Dustin Hoffman una star del cinema improbabile. Entrambi i film sono stati diretti da Mike Nichols, che aveva contribuito a rendere Robert Redford una star del teatro guidandolo nella commedia di successo A piedi nudi nel parco, scritta da Neil Simon. Nella biografia di Mark Harris, Mike Nichols: A Life (2021), Nichols descrive l’intelligenza laboriosa e scrupolosa che Redford ha messo a frutto in quel ruolo, il modo in cui ha trovato il nucleo comico del suo personaggio di avvocato teso e appena sposato: mille tic dettagliati, smorfie, serrate le mascelle, sguardi cupi e battute morse a denti stretti. Potete vedere Redford ricrearlo nella versione cinematografica del 1967 con Jane Fonda. È ancora molto divertente. E tenete presente che Redford aveva solo trent’anni quando rifiutò Chi ha paura di Virginia Woolf?, che lo avrebbe visto al fianco di star di Hollywood come Elizabeth Taylor e Richard Burton. Quell’audace atto di calcolo professionale fu un’eccellente indicazione della sua assoluta fiducia nel fatto che stava facendo progressi costanti e inevitabili verso la celebrità cinematografica. Fin dall’inizio, fu astuto. Direi che l’astuzia era la sua caratteristica principale come star, ma era così splendente nella sua bellezza che potreste non notarlo. Quei lievi movimenti oculari fulminei, quel sorriso disonesto, il duro lampo di intelligenza che traspariva. È strano ammirare l’astuzia in una star? È una qualità che trovo così rara nella società americana contemporanea. Il modo in cui ha costruito e sostenuto la sua carriera per avere il potere di passare dal mainstream all’estremo e viceversa è un modello di come affrontare un sistema spietato come l’industria dell’intrattenimento e vincere. Il suo uso selettivo del suo bell’aspetto e del suo carisma sullo schermo per mantenere la sua carriera fiorente in termini commerciali era bilanciato dalla complicazione e sovversione di quelle caratteristiche in film più cupi, strani e impegnativi. Prima di realizzare la versione cinematografica di successo di A piedi nudi nel parco, ad esempio, ha interpretato un attore hollywoodiano bisessuale enigmatico e tormentato che conduceva una doppia vita in A proposito di Daisy Clover (1965). E dopo aver consolidato la sua fama cinematografica con il doppio colpo di A piedi nudi nel parco e il colossale successo Butch Cassidy (entrambi del 1967), ha diretto il neo-western di grande impatto Tell Them Willie Boy Is Here (1969). È basato sulla storia vera di un giovane Paiute, interpretato da Robert Blake, in fuga dalla legge nel deserto della California meridionale del 1909 dopo aver ucciso il padre violento della sua ragazza (Katherine Ross) per legittima difesa. Redford interpreta il vicesceriffo a capo della squadra – presumibilmente l’ultima squadra di vecchia scuola western di cui si abbia notizia – che sta dando la caccia a Willie. Arriva ad ammirare l’uomo che sa essere destinato alla distruzione. Il film è stato scritto e diretto dal famoso regista Abraham Polonsky, inserito nella lista nera, che non dirigeva un film dai tempi dello straziante noir Le forze del male del 1948. Per me, il periodo meno attraente della carriera di Redford sono gli anni Ottanta, quando consolida la sua fama mainstream con tre film costruiti attorno alle sue attrattive da rubacuori: Il Migliore (1984), La mia Africa (1985) e Un amore senza fine (1986). Ha quasi cinquant’anni quando gira questi film e, ancora una volta, è stato intelligente da parte sua tentare un’ultima volta di interpretare un ruolo da protagonista romantico, mentre appariva ancora sensazionale. Il Migliore lo rappresenta come un dio che vive tra i comuni mortali, emanando un’aura dorata e nebulosa per gentile concessione del reparto luci, il tipo di tecnica cinematografica disgustosa che era molto popolare in quel decennio orribile. Ma quell’ultimo sforzo ha senza dubbio mantenuto attuale la fama di Redford e ha finanziato i suoi numerosi altri impegni per molti anni a venire. E ha realizzato quei film dopo il suo grande decennio degli anni Settanta, quando le sue posizioni politiche di sinistra potevano trovare la loro espressione più incisiva. Il Candidato (1972) di Michael Ritchie, ad esempio, è ancora oggi un’interpretazione straordinariamente mordace del processo politico, con Redford nel ruolo principale, un ambientalista appassionato che viene arruolato come il nuovo candidato democratico per la corsa al Senato della California. L’influenza costantemente corruttrice della politica è esaminata con acre dettaglio. E come spesso faceva, Redford fa un uso intelligente della sua sorprendente bellezza fisica in modi complessi. Contribuisce a rappresentare il suo ardente idealismo all’inizio del processo, e rende i modi insidiosi del suo ego gonfio e delle manovre sempre più ciniche che rovinano l’impressione di bellezza al tempo stesso cupamente comici e scoraggianti. La pronuncia perfettamente piatta dell’ultima battuta del film da parte di Redford, dopo che il suo personaggio gravemente sminuito vince le elezioni, lo rende indimenticabile: «Cosa facciamo adesso?». Redford chiude il decennio con Brubaker (1980), diretto da Stuart Rosenberg (Luke mano fredda). È un dramma carcerario poco visto in cui interpreta un nuovo direttore determinato a riformare radicalmente il sistema carcerario in una struttura del Sud degli Stati uniti. I fallimentari tentativi di affrontare la violenza e la corruzione endemiche del sistema penale si concludono con la nomina di un nuovo direttore, un brutale disciplinatore che probabilmente peggiorerà ulteriormente la situazione dei detenuti. Brubaker sembra rappresentare un cupo addio all’era della New Hollywood, caratterizzata da una breve lotta politica liberatoria, mentre iniziava la reazione reaganiana. L’astuta determinazione di Redford a sopravvivere e prosperare come star del cinema nel corso dei decenni gli ha permesso di fare, con ferrea concretezza, un calcolo azzardato per quanto riguarda il suo impegno politico e come esprimerlo nel cinema. Come eravamo è un ottimo esempio di un film politicamente sviscerato durante la sua realizzazione, al punto che è quasi impossibile capire cosa stia succedendo nelle sequenze successive che riguardano la rottura cruciale di un matrimonio tra un’attivista politica ebrea di nome Katie Morosky, interpretata da Barbra Streisand, e suo marito, lo scrittore Wasp Hubbell Gardiner, interpretato da Redford. Questo perché quelle scene chiariscono che Hubbell è essenzialmente un traditore preoccupato di salvare la propria carriera di sceneggiatore a Hollywood durante la lista nera, e le idee socialiste della moglie minacciano di trascinarlo verso il basso, così lei sacrifica il suo grande amore per lui e divorzia. Nella recente autobiografia di Streisand, My Name is Barbra, l’autrice entra nei dettagli delle pressioni esercitate dai Columbia Studios sul regista Sydney Pollack affinché tagliasse scene cruciali in modi che avrebbero oscurato il nocciolo della trama. È probabile che questi tagli abbiano reso il film un successo ancora maggiore, perché le caratteristiche da soap opera della storia d’amore emergono senza essere ostacolate da una distraente e spietata politica americana. E sebbene Streisand, Pollack e Redford fossero tutti egualmente insoddisfatti del film finale, sembra che Redford non abbia mai lottato molto per preservare il nucleo politico del film. Dopotutto, è comunque un ruolo da ragazzo d’oro fantastico per Redford. Ancora una volta complica e sovverte il suo tratto più essenziale e allo stesso tempo distraente come star del cinema. La bellezza di Hubbell è venerata da Katie, ma lui si rende conto fin da subito che bellezza e privilegi gli rendono «tutto troppo facile», in modi che rappresentano un pericolo per se stesso come scrittore e come essere umano. Mentre viene sempre più svuotato dal successo rapido e da un carrierismo astuto, si rivela sempre più simile a un manichino, finendo per avere una bionda alla Barbie come sostituto di Katie. Insieme sembrano attori in una pubblicità patinata. Questa settimana, un titolo del Guardian lo ha definito «un delfino tra gli squali», rafforzando l’idea che fosse un essere troppo raffinato per vivere tra i rozzi carnivori di Hollywood. Questo ha senso solo se si considera che i delfini sono anche animali formidabili che possono uccidere gli squali se si uniscono, non certo i simboli di pace della New Age. L’intelligenza è la loro caratteristica principale, e l’astuzia di Redford – anche se si è rivelata un’astuzia da traditore quando necessario per ottenere guadagni a lungo termine – era un tratto distintivo con cui bisognava fare i conti. *Eileen Jones è critica cinematografica per Jacobin, conduce il podcast Filmsuck e ha scritto Filmsuck, Usa. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo L’astuzia del delfino tra gli squali proviene da Jacobin Italia.
Le aride follie dell’amore sotto il capitalismo
Articolo di Tiare Gatti Mora Poche settimane fa mi trovavo a Perugia, città dalla quale provengo, ma in cui non ho mai abitato. Uno dei ragazzi del gruppo con cui sono uscita la sera mi ha detto una frase che mi è tornata in mente quando ho visto il nuovo film della sceneggiatrice e regista Celine Song, Materialists: «Cosa ci fai qui a Perugia se sei una ‘strafica’ che potrebbe essere su uno yacht?». Ossia, perché sprecare il tempo in una città di provincia quando ti potresti permettere di essere in posti considerati «una figata»? Il dilemma presentato nel nuovo film di Song non è in fondo nient’altro che una variante di questa domanda Molti paragonano, ragionevolmente, Materialists alle narrative di Jane Austen, ma a me ha fatto pensare a un altro grande classico che, nei suoi molti e brillanti adattamenti, parla dell’amore legato al soggetto femminile sotto il capitalismo: La signora delle camelie di Alexandre Dumas. In una scena del film capolavoro di George Cukor Camille (1936), il protagonista maschile da alla traviata, interpretata da Greta Garbo, una copia di Manon Lescaut di Prévost, personaggio femminile famoso per l’incapacità di resistere ai beni materiali e al lusso, pagandone un caro prezzo, cosa della quale più avanti nella trama sarà ritenuta ingiustamente colpevole Camille. È proprio il dilemma tra successo, lusso e vero amore che inonda la vita della trentacinquenne newyorkese protagonista di Materialists, Lucy (Dakota Johnson), una matchmaker che viene corteggiata dal ricchissimo, bello e maturo Harry (Pedro Pascal) e dal suo ex John (Chris Evans), un attraente, ma povero, giovane attore. Il film ci presenta un contrasto tra la vita nel lusso inimmaginabile del primo e quella precaria del secondo. Lucy si guadagna da vivere facendo la «matematica dell’amore», nella quale i conti si basano su altezza, peso, salario, età, aspetto fisico e altri elementi che non vanno mai oltre la superficie delle persone. Durante tutto il film, la vediamo combattere una battaglia interna tra la parte di sé che aspira a dare priorità alla sua situazione economica e quella che vuole semplicemente amare. La seconda, infine, vince. COMPAGNA O GIRLBOSS? Nell’edizione statunitense di Jacobin, Kristen R. Ghodsee conclude che Materialists racconta la storia di come, se si ha successo professionale, si può vivere l’amore con chi si vuole: «sotto il libero mercato, […] sono le donne che guadagnano abbastanza che possono permettersi di sposarsi per amore». Come dice Lucy stessa, «posso prendermi cura di me stessa». Questo, come argomenta correttamente Ghodsee, è un elemento essenziale per la soddisfazione delle donne nell’amore e nel sesso, ma l’orientamento politico del film vede la protagonista come in grado di prendersi cura di sé stessa grazie a una carriera professionale di successo. Le condizioni materiali nelle quali avviene questa carriera, o quelle che hanno permesso a questa donna di ottenerla, non vengono particolarmente messe a fuoco, eppure sono queste condizioni che dovrebbero «prendersi cura» non solo di Lucy, ma di ognuna di noi, della totalità della classe lavoratrice. Ossia il film sembra non avere problemi col fatto che sposarsi, o semplicemente formare una coppia, per amore sia un ulteriore lusso che si può permettere solo una certa fetta di donne professioniste.  Questa storia infatti non si pone il problema delle condizioni materiali per cui dobbiamo lottare affinché l’amore non sia più un «mercato», ma solo di come possiamo prendere la situazione in mano in modo individuale per non dover dipendere da un uomo, anche se il resto del mondo rimane così com’è. SÌ, SIAMO ESATTAMENTE DEI «PESCI» DA PESCARE In una scena del film, una cliente dice a Lucy di essere un catch, che in italiano si tradurrebbe come «buon partito», ma che in inglese significa letteralmente qualcosa di straordinario da pescare (in questo caso, nel «mercato» dell’amore). Lucy le risponde che non è un catch perché non è «un pesce». Ma ciò che Song riesce a fare con questo film è trasmettere una realtà in cui tutte e tutti siamo esattamente questo: pesci (al mercato) il cui valore dipende da numeri interamente legati alle apparenze. Lo vediamo nei calcoli, freddi, che realizza il personaggio di Johnson nell’analizzare i suoi clienti, nelle richieste di questi (altezza, età, reddito…), nel fatto stesso dell’esistenza di un servizio di matchmaking. L’aspetto forse più interessante di questo film è infatti che Song riesce a portare nei grandi schermi le varie realtà del modello romantico-sessuale attualmente incoraggiato dal capitalismo. Un modello definito, come argomentato dalla sociologa Eva Illouz, dalla ricerca (spesso letteralmente online) del viso e il corpo perfetti, che sostituisce l’incontro con un altro nella fisicità e nella spontaneità, «coi suoi difetti e la sua bellezza […], in un insieme di ambivalenza e pienezza»: con le loro particolarità, le persone «a volte, irrompono in noi senza che lo vogliamo». Così, invece di un incontro nel quale l’amore o l’attrazione ci colpiscono, cerchiamo di fare liste, come se fossero liste della spesa, nelle quali includiamo tutto ciò che vorremmo in un partner che, come i clienti di Lucy, stiamo cercando di trovare nel «mercato» romantico-sessuale (in inglese si usa moltissimo proprio l’espressione dating marketplace). Quindi sì, siamo dei «pesci» che, in questo sfortunato «mercato», hanno più o meno valore in base ad aspetti legati alle apparenze (fisiche o di altro tipo). In cerca della casa che non dovremmo volere La scelta di Lucy alla fine del film, pur come detto permessa dal suo successo professionale, rispecchia un rifiuto interessante di quello che il zeitgeist ci dice che dovremmo desiderare. Una volta che le donne si trovano un viso e un corpo perfetti, come descritti da Illouz, infatti, perché non goderne? In un interessantissimo articolo sulla rivista Damage, Dustin Guastella recupera delle osservazioni di Mark Fisher sullo stato della famiglia: Fisher sosteneva che «i legami familiari sono al giorno d’oggi insostenibili». «Non è soltanto lo stress delle ‘condizioni d’instabilità permanenti’ – continua Guastella – che rendono più difficile per i genitori rimanere insieme e crescere figli, ma anche che la socialità generata da tali condizioni rende difficile persino desiderare di avere una famiglia». Viviamo in un mondo nel quale ciò che viene visto come successo è una dedizione quasi ossessiva per la propria personalità (incentrata sempre di più su discorsi, in teoria, politici), sulla disponibilità e capacità (e purtroppo spesso l’obbligo) di trasferirsi per lavoro, sul cambio costante di appartamento in appartamento, di lavoro in lavoro e, come no, anche di partner in partner. Questo rende la solidità di relazioni, famiglie o anche di progetti politici stabili, o integrati in un territorio, profondamente difficili, non solo dal punto di vista logistico e materiale, ma anche per la mancanza di desiderabilità («Se sei bona cosa ci fai in una città di provincia italiana invece di farti un viaggio su uno yacht a Bali?»). Nella nostra realtà attuale, un viaggio meditativo in Thailandia o l’adozione di un cane vengono viste come esperienze più desiderabili, e meno a rischio dell’accusa di essere conservatrici, rispetto a una relazione basata semplicemente su un amore istintivo o al mettere su famiglia. Con la sua scelta, la protagonista del film di Song esce dallo schema nel quale l’obiettivo di ogni individuo dev’essere fare la scelta personale più «conveniente» e più in linea con uno stile di vita per cui siamo essenzialmente consumatrici di luoghi, esperienze e persone. È quest’instabilità assoluta e la sua celebrazione, che rappresenta quelle che nella Traviata di Verdi vengono chiamate «aride follie», che descrive la vita di questa prostituta in un mondo riempito da relazioni umane sterili, transazionali e temporanee. Anche se in una società implacabilmente maschilista che non perdona, lei decide di scapparne per un amore che la mette in una situazione economica difficile, ma nel quale vuole, nelle sue stesse parole, vivere. Non avrei scambiato Perugia per nessuno yacht. Come del resto non scambierei nessuna terra ferma per la vita alla deriva che, ci dicono e ripetono, dovremmo desiderare.  Avremmo in fondo semplicemente bisogno di una casa, in tutti i sensi della parola. *Tiare Gatti Mora, laureata presso la King’s College London, è una giornalista italospagnola che collabora come giornalista audiovisiva e militante con media e organizzazioni italiane, spagnole e anglosassoni. L'articolo Le aride follie dell’amore sotto il capitalismo proviene da Jacobin Italia.