I disertori dello smart-working

Jacobin Italia - Tuesday, September 2, 2025
Articolo di Mara D’Ercole

A partire dal marzo dello scorso anno le grandi aziende italiane hanno iniziato a ridurre, in modo graduale ma inesorabile, la possibilità di lavorare in smart-working, e la tendenza sembra quella di continuare a ridurre.  Lavoratrici e lavoratori proprio non l’hanno presa bene, e hanno scioperato contro la riduzione del lavoro agile in Capgemini, Dhl, Unipol, Panini, Eni, TinextaCyber, Fibercop  e Tim, e l’elenco non pretende di essere esaustivo.

A un primo sguardo non si capisce perché le imprese insistano sul lavoro in presenza, tutto lascerebbe pensare che il lavoro da casa porti benefici a più livelli. L’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, ad esempio, continua a enumerare i vantaggi dello smart working per le aziende, per i lavoratori e per l’ambiente. Secondo il Rapporto 2024 dell’Osservatorio, con due giorni di lavoro da remoto a settimana la produttività di ciascun lavoratore aumenta dal 15 al 20% l’anno, e il costo della postazione di lavoro si abbassa di 200 euro; se, in aggiunta, si decide di ridurre gli spazi della sede aziendale, l’abbattimento dei costi può toccare i 2.500 euro l’anno per ciascun lavoratore impiegato con questa modalità. 

Oltre ai vantaggi per l’azienda ci sono i vantaggi per i dipendenti. Nello stesso Rapporto si sostiene che con due giorni di smart working a settimana ciascun lavoratore risparmia, per i mancati spostamenti, una media di circa 80 ore l’anno, che gli permettono di bilanciare meglio vita privata e vita lavorativa e di migliorare notevolmente il proprio livello di benessere. Ovviamente il risparmio tocca anche il portafoglio: il gruzzolo medio stimato è di circa 900 euro l’anno per persona, non irrilevante in un paese in cui i salari non solo non aumentano ma, com’è noto, si riducono da 30 anni a questa parte.

A tutto questo si sommerebbero i benefici per l’ambiente: i mancati spostamenti e il ridimensionamento delle sedi si tradurrebbero in una riduzione di 460 kg di emissioni di CO2 per ciascun lavoratore in smart working per due volte a settimana, numeri che, moltiplicati su scala nazionale, rappresenterebbero un beneficio ambientale notevole.

Vantaggi importanti, dunque, che alimentano le proteste di chi in sede tutti i giorni proprio non ci vuole tornare. Ma la situazione di oggi si spiega solo tenendo conto del fatto che a questo punto ci siamo arrivati attraverso la pandemia di Covid 19, non possiamo sapere quanto lo smart working si sarebbe diffuso se le cose fossero andate diversamente. Nel 2020, in piena pandemia, lo smart working, che era stato introdotto dal Jobs Act e poi disciplinato dalla legge n.81 del 2017, è entrato di prepotenza nella vita dei lavoratori in lockdown quando il governo ha decretato l’accesso al lavoro agile senza necessità della stipula di un accordo individuale tra azienda e lavoratore nel settore privato, e l’attivazione dello smart-working come forma di lavoro ordinario nella Pubblica Amministrazione. Senza alcuna complicata trattativa con capi o gestori del personale per valutare se il lavoro potesse essere svolto da remoto oppure no, computer e cellulari aziendali sono arrivati ai lavoratori alla velocità della luce, nelle case grandi e in quelle piccine, e nessun top manager ha rilevato problemi o ha avuto qualcosa da ridire sull’engagement degli impiegati. 

Ma quando la pandemia è stata contenuta e poi sconfitta, mentre in Italia la disciplina smart working creata durante il Covid veniva prorogata, iniziavano i mal di pancia dei sacerdoti della scienza manageriale. A maggio 2022  Elon Musk,  che ancora non era entrato ufficialmente in politica, scriveva agli impiegati di Tesla una mail imperiosa comunicando loro che «chi non vuole stare in ufficio almeno 40 ore a settimana dovrebbe andare a lavorare altrove». In un’intervista del 2023 alla Cnbc, poi, spiegava la sua contrarietà al lavoro da remoto affermando «non è giusto che chi lavora in ufficio stia a casa comodo mentre altri – operai, corrieri, cuochi – devono essere presenti fisicamente. È una questione morale»,  dichiarava un inedito Elon Musk contro i privilegi di classe.  

Del resto il fatto che non tutti possano lavorare da remoto è incontestabile, solo il 30% dei lavoratori può farlo, diceva in un’intervista al il Manifesto nel 2020 Antonio Casilli, e nella stessa intervista esprimeva preoccupazione per le conseguenze della remotizzazione del lavoro: «Il lavoro da remoto potrebbe essere imposto e non scelto. In alcuni casi potrebbe essere il preludio al licenziamento, al part time involontario o al taglio del costo del lavoro».

Oltre ai dubbi espressi da Casilli e legati alla stabilità del posto di lavoro, esiste il tema complesso e inquietante della sorveglianza dei lavoratori attraverso i loro stessi strumenti di lavoro, l’allarmante possibilità di intrufolarsi nella vita dei dipendenti attraverso le videocamere, o per misurare ogni clic, ogni movimento del mouse, ogni pausa, ogni singola attività svolta o non svolta, superando la legge e la fantasia e trasformandosi in bossware. 

Ma se è vero che la produttività da remoto non si abbassa e anzi aumenta, se è vero che i controlli sono anche pervasivi, qual è il motivo reale che spinge le aziende a smantellare progressivamente lo smart-working e quale quello che spinge i lavoratori a protestare? Il panopticon digitale non è sufficiente? Il capitalismo di oggi, anche quello digitale, non può fare a meno dell’open-space?

Cosa c’è di tanto essenziale al funzionamento dell’azienda dentro i nostri uffici? 

Intanto i sistemi di monitoraggio dei dipendenti anche in presenza sono un vero e proprio bersaglio in movimento per la legislazione a protezione dei lavoratori. Pur nella vigenza di tutele dettate sia dalla legislazione europea che da quella italiana sulla videosorveglianza, la Internet of Things e i nuovi sistemi di monitoraggio sviluppati durante il Covid, combinati con l’intelligenza artificiale, permetterebbero tecniche di sorveglianza con cui la legislazione farebbe fatica a stare al passo.  

Tuttavia ciò che deteriora il rapporto tra azienda e smart-working è il bisogno di controllo dei corpi, cui evidentemente la tecnologia non può supplire. 

L’open space, che durante la pandemia si è trasformato in un luogo ancora più duro da vivere, dove la sorveglianza e la valutazione non passano solo attraverso badge e tornelli, codice di abbigliamento, inserimento nella gerarchia sociale aziendale, durata delle pause, prossemica nei corridoi e negli ascensori, ma attraverso un potente sistema di assoggettamento che solo il lavoro in presenza permette. Nell’open-space nessuno, tranne il manager, ha una parete dietro cui celarsi anche per poco, nessuno ha la propria scrivania, nessuno può personalizzarla con un qualsiasi oggetto, le riunioni in presenza sono rare, le si fa perlopiù online per parlare in cuffia semmai anche con il collega di fianco, convocato anch’egli nella stessa riunione, e tutto accade senza mai potersi sottrarre allo sguardo di tutti; i  corpi sono produttivi ma anche, e soprattutto, assoggettati. Nel lavoro da remoto questa dinamica si incrina, si apre una pericolosa piccola fenditura di libertà, di distanza psichica dal sistema azienda anche durante il tempo a essa dedicato. Il rischio da scongiurare è quindi che i «corpi docili», per citare Michel Foucault, si sentano distanti dallo sguardo del manager, e che l’enorme fatica impiegata a rappresentare come realtà psichica immersiva i modelli di management che regolano la rat race della vita in azienda assumano un’importanza relativa insopportabile per il sistema di comando dell’azienda. 

L’aggrapparsi dei lavoratori al lavoro da remoto, il rifiuto di tornare in ufficio, appare una forma, seppur blanda, di diserzione dei dispositivi sistemici di comando dell’azienda, e l’organizzazione di scioperi e proteste come forma iniziale di politicizzazione di questo nuovo spazio.  

*Mara D’Ercole, attivista, ha lavorato a tempo pieno in Cgil. Rientrata sul posto di lavoro ha continuato a scrivere di questioni lavorative su Sinistra sindacale.

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