La sconfitta non è inevitabile e la resa non fermerebbe la catastrofe

Assopace Palestina - Tuesday, August 26, 2025

di Jamal Zaqout

25 agosto 2025.  

Sebbene sia ormai chiaro che Netanyahu e il suo governo fascista sono la causa principale del fallimento di tutti i tentativi dei mediatori di raggiungere un accordo ragionevole – anche solo provvisorio, che potrebbe finalmente porre fine al genocidio a Gaza e alla frammentazione in corso in Cisgiordania – alcune voci continuano a chiedere alle fazioni della resistenza a Gaza di rischiare facendo ulteriori concessioni. Alcuni arrivano addirittura a esortarle, apertamente o indirettamente, ad accettare le condizioni di Israele.

La strategia di escalation di Netanyahu

Netanyahu, che sembra non aver chiuso completamente la porta ai negoziati sulla proposta egiziana accettata senza condizioni da Hamas, pur mantenendo aperti i canali di comunicazione con i mediatori, continua a propendere per l’escalation militare e minaccia di distruggere la città di Gaza come ha fatto a Rafah, nella speranza di ottenere ciò che finora non è riuscito a realizzare. E questo nonostante gli avvertimenti del suo esercito sul pesante prezzo che una tale mossa comporterebbe, non solo in termini di catastrofe umanitaria, ma anche di gravi perdite militari che potrebbe subire se si gettasse incautamente nel pantano di Gaza City, con la probabilità di una crescente guerriglia che potrebbe diventare la forma dominante di confronto.

I veri motivi

I veri motivi dietro le manovre di Netanyahu risiedono nella natura e nella sostanza della strategia del suo governo di destra che, rafforzata dall’appoggio americano, si estende non solo a Gaza ma anche alla continua annessione e giudaizzazione della Cisgiordania. Non si tratta semplicemente di ragioni tattiche volte a migliorare i termini di un accordo: l’obiettivo è piuttosto quello di avvicinare il risultato a quella che la sua coalizione di destra chiama “vittoria assoluta”, un concetto che, a loro avviso, apre la strada alla liquidazione della causa palestinese, non alla fine della guerra a Gaza.

La questione della “sconfitta”

La questione fondamentale che richiede una discussione calma e approfondita è questa: il riconoscimento della ‘sconfitta’ da parte della resistenza porrebbe fine alla tragedia o aprirebbe la porta a un massacro ancora più grande? La risposta breve è: la sconfitta non è inevitabile e “riconoscerla” non è una via di salvezza, ma piuttosto una ricetta per ulteriori brutalità. Ciò che può fermare lo spargimento di sangue è modificare l’equazione costi-benefici ed esercitare pressioni politiche e legali sulla macchina della guerra israeliana, oltre a elaborare un accordo temporaneo di sicurezza umanitaria, non un “riconoscimento del dominio di Israele”, che non sarebbe altro che un assegno in bianco per lo sfollamento di massa.

Cosa intendiamo per “sconfitta”?

Cosa intendiamo quindi per “sconfitta”? È militare e tattica, una grave battuta d’arresto sul campo di battaglia? Oppure è politica, ovvero il crollo della capacità di garantire anche i diritti minimi? Oppure è la piena accettazione della narrativa del nemico secondo cui un intero popolo non ha alcun diritto nazionale? Dal punto di vista della destra fascista al potere in Israele, qualsiasi dichiarazione di “sconfitta” incarna tutti questi significati combinati e viene interpretata come un via libera per portare il suo progetto all’estremo.

Perché dichiarare la “sconfitta” non fermerebbe la tragedia

Primo: perché la logica della destra fascista nazionalista e religiosa al potere equipara la “sicurezza” alla sottomissione totale e allo sfollamento forzato. Un messaggio di resa non soddisferebbe il suo appetito, ma la convincerebbe solo che una maggiore brutalità porta a maggiori guadagni. Secondo: perché gli strumenti legali e internazionali, così come le leve popolari ed economiche, perderebbero il loro slancio se il discorso palestinese si spostasse verso la concessione della perdita di diritti. Terzo: perché tale riconoscimento rappresenterebbe una minaccia esistenziale per il popolo palestinese nel suo complesso, facilitando la distruzione delle istituzioni, frammentando il fronte interno e indebolendo qualsiasi capacità di impedire espulsioni di massa su larga scala.

Cosa può porre fine alla tragedia?

Una soluzione provvisoria potrebbe risiedere in un accordo temporaneo di sicurezza umanitaria: «un cessate il fuoco immediato, lo scambio di prigionieri e detenuti, il ritorno degli sfollati all’interno di Gaza, l’apertura dei valichi e la consegna degli aiuti attraverso le agenzie delle Nazioni Unite con garanzie di monitoraggio internazionale a tempo determinato». Tuttavia, l’attenzione deve concentrarsi maggiormente sull’aumento dei costi per Israele in caso di continuazione della guerra: dal punto di vista legale attraverso procedimenti presso la Corte Penale Internazionale e la Corte Internazionale di Giustizia; dal punto di vista economico attraverso boicottaggi mirati e dal punto di vista politico rafforzando la pressione araba e internazionale sul governo israeliano, sfruttando al contempo quelli che sembrano essere i legami speciali di Trump con alcuni Stati Arabi.

La pianificazione del “giorno dopo” e i suoi rischi

Per quanto riguarda l’impegno nella cosiddetta pianificazione del “giorno dopo”, che comprende l’amministrazione civile e la fornitura di servizi, essa può offrire una pratica alternativa transitoria al caos della guerra. Tuttavia, comporta il rischio reale di consolidare la separazione di Gaza dall’entità nazionale, pietra angolare della strategia della coalizione di governo in Israele per impedire al popolo palestinese di determinare il proprio futuro e realizzare uno stato indipendente su tutto il territorio occupato nel 1967.

Prevenire lo sfollamento

Dare priorità alla prevenzione dello sfollamento attraverso sistemi solidi richiede impegni documentati da parte degli arabi e delle Nazioni Unite, zone di protezione umanitaria chiaramente designate, archiviazione dei registri della proprietà e della popolazione, finanziamenti per “rimanere sul posto” e garantire un piano di ricostruzione realistico che dia alla gente la speranza di rimanere, resistere e superare le conseguenze del genocidio e della sua devastazione umanitaria. Tuttavia, tutto ciò richiede necessariamente un governo riconosciuto a livello internazionale, che goda del consenso popolare attraverso un accordo nazionale sui suoi componenti, le sue priorità e i suoi principi operativi, fondato sulla trasparenza, l’integrità e la credibilità, e libero da polarizzazioni partigiane e interessi particolari.

Evitare la trappola del “riconoscimento della sconfitta”.

Evitare la trappola del “riconoscimento della sconfitta” non significa negare la realtà. Riconoscere la catastrofe non equivale a rinunciare alla legittimità dei diritti o ad arrendersi. Il pragmatismo non implica un compromesso sull’essenza, che richiede il coraggio di mobilitare elementi di forza, primi fra tutti l’unità e la legittimità popolare. L’accettazione di accordi di sicurezza transitori non deve scivolare nella resa alla logica israeliana di smantellare ancora una volta l’entità nazionale, una trappola strategica che il governo di occupazione cerca di imporre.

Conclusione: l’essenza della lotta

La sconfitta non è inevitabile e la resa non fermerebbe la tragedia, ma moltiplicherebbe solo la brutalità. L’essenza della lotta risiede ora nella narrazione e nella legittimità dei diritti, che richiedono sia fermezza nel difendere tali diritti, sia flessibilità negli strumenti impiegati, sia mobilitazione dell’unità per affrontare lo sfollamento. Questo è ciò che può fermare la tragedia e impedire che si trasformi a tutti gli effetti in una nuova Nakba.

Ricevuto prima della pubblicazione.

Jamal Zaqout è un politico e attivista palestinese. È nato nel campo profughi di al-Shati a Gaza City da una famiglia di rifugiati della città di Asdud a seguito della Nakba del 1948. È stato arrestato più volte dalle autorità israeliane di occupazione e deportato nel 1988 fuori dalla Palestina con l’accusa di aver partecipato alla formazione della Direzione Nazionale Unificata della Rivolta. Anche sua moglie, Naila Ayesh, è stata arrestata più di una volta, insieme al loro bambino, che ha trascorso sei mesi in prigione con sua madre. Zaqout è tornato nella Striscia di Gaza nel 1994 e da allora ha ricoperto una serie di posizioni di leadership politica, tra cui il Ministero della Gioventù e dello Sport, e la Deir-El Balah Disabled Rehabilitation Society. Ha studiato presso l’Alexandria University. Vive a Gaza.

Traduzione a cura di AssopacePalestina

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