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Washington e la sua aperta ostilità verso la Palestina
di Jamal Zaqout,  Sadanews, 2 settembre 2025.   La decisione americana di impedire al presidente palestinese di entrare a New York per partecipare alle riunioni dell’Assemblea Generale dell’ONU non è stata solo una misura procedurale. È una chiara dichiarazione politica che Washington non è affidabile e che non riconosce più nemmeno la minima legittimità dell’esistenza e della rappresentanza palestinese, anche davanti alle Nazioni Unite. Jamal Zaqout Questo comportamento palese non può essere separato dalla natura dell’amministrazione Trump, che ha deciso fin dal primo momento di allinearsi completamente con Israele, non solo come alleato strategico, ma come unica parte autorizzata a determinare il futuro della regione. Una grave violazione degli accordi internazionali Dal punto di vista giuridico, ciò che Washington ha fatto rappresenta una grave violazione dell’accordo sulla sede delle Nazioni Unite firmato nel 1947, che obbliga il paese ospitante a concedere visti a tutti i rappresentanti degli stati membri e agli osservatori, indipendentemente dalle controversie politiche. Ignorare questi obblighi non solo danneggia la Palestina, ma mina anche l’indipendenza delle stesse Nazioni Unite, rendendole ostaggio della volontà del paese ospitante. Se l’organizzazione non è in grado di garantire che il capo di uno stato osservatore possa raggiungere la sua assemblea generale, nonostante la fiducia pubblica riposta in Washington, come può proteggere il diritto di questo popolo all’autodeterminazione e dargli la possibilità di ottenere la libertà e l’indipendenza e di far tornare i suoi rifugiati? Washington: da presunto mediatore a parte coinvolta La decisione di Washington dimostra inequivocabilmente che non si tratta di un mediatore, ma di una parte attiva coinvolta nella liquidazione della causa palestinese. Questa realtà costringerà le altre potenze internazionali a riconsiderare la necessità di rompere il monopolio americano e ad assumersi le proprie responsabilità, incoraggiando i palestinesi a ripristinare la loro unità politica di fronte ai piani che mirano alla cancellazione della Palestina? Se molti paesi sono sinceramente intenzionati a riconoscere lo stato di Palestina, consentendo al suo popolo di determinare il proprio destino e incarnare la propria sovranità, come potranno affermare la credibilità delle loro recenti posizioni e dimostrare che non stanno semplicemente cercando di assolversi davanti all’opinione pubblica dei loro paesi? Tra Gaza e New York: l’obiettivo è la liquidazione Il pretesto israelo-americano a Gaza è “sradicare Hamas”, mentre la realtà sul campo è un genocidio che prende di mira sia le persone che le proprietà. A New York, la “scusa procedurale” sembra servire principalmente ad escludere la Palestina, compresa l’esclusione dalla piattaforma delle Nazioni Unite della leadership cronica dell’AP che dipende da Washington. Ciò conferma che la Palestina è l’entità presa di mira, in tutte le sue componenti, sia che si tratti dell’Autorità la cui unica scelta è quella di placare Washington e Tel Aviv, sia che si tratti della resistenza contro i loro piani. Il fallimento della politica della disperazione e l’opzione della pacificazione È giunto il momento che la leadership dominante dell’AP, che controlla le decisioni e il percorso nazionale, riconosca di aver intrapreso una strada che ha portato solo disastri nazionali e che inseguire il miraggio dell’accordo con Washington e Tel Aviv ha portato a un’ulteriore frammentazione. Affidarsi a Washington non è stata solo una scommessa persa, ma è stato distruttivo, poiché gli USA non sono mai stati un mediatore, ma una parte principale nel progetto di liquidazione della Palestina. Un’opportunità per l’unità e la rinascita nazionale globale Il crollo dell’illusione di affidarsi al ruolo americano potrebbe essere un momento cruciale che apre le porte alla rivitalizzazione della condizione palestinese, se le leadership palestinesi lo interpretano correttamente e ne traggono insegnamento attraverso tre meccanismi: Primo: lavorando immediatamente per attuare l’accordo di Pechino per ripristinare il ruolo e lo status dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e ricostruirla come fronte nazionale che unisce tutti i palestinesi. Secondo: elaborando un programma nazionale basato sulla liberazione e sui diritti, non sulla gestione delle crisi o sull’attesa di “benevolenze o sovvenzioni americane”. Terzo: attivando strumenti di forza popolare e diplomazia in alleanza con le forze internazionali e i popoli che rifiutano il genocidio così come rifiutano di trasformare le Nazioni Unite in un’appendice della Casa Bianca. L’intera comunità palestinese si trova di fronte all’imperativo urgente di chiudere il capitolo della divisione e affrontare i pericoli imminenti che minacciano il destino nazionale nel suo complesso. Ciò richiede la formazione immediata di un governo di unità nazionale autorizzato ad affrontare tutte le conseguenze del genocidio e ciò che ha afflitto il sistema politico nei suoi noti mali, per affrontare i rischi maggiori, compresa una seria preparazione per elezioni generali complete entro un lasso di tempo concordato per ripristinare la fiducia del popolo, che può essere affidata solo a loro. Siamo seri nel trarre insegnamenti? Non è più possibile continuare la narrativa israeliana secondo cui il problema risiede in “Hamas” o nell’“Autorità”. L’obiettivo americano-israeliano comprende l’intera comunità palestinese. Questa realtà dovrebbe essere il punto di partenza per superare la divisione e ristabilire la dignità della grande lotta per la libertà e la liberazione dall’occupazione. Trasformare lo scandalo americano in un’opportunità nazionale La decisione della Casa Bianca può sembrare un’altra sconfitta diplomatica per la politica della leadership dominante nell’AP, ma in realtà è uno specchio rivelatore di quanto sia pericoloso il ricorso a Washington. Questa decisione scandalosa può trasformarsi in un’opportunità se questa leadership avrà il coraggio di tornare al suo popolo e chiudere il capitolo dell’illusione, partendo dal presupposto che la Palestina non sarà riconquistata grazie alla Casa Bianca, ma solo attraverso la volontà del suo popolo, la sua fermezza e la sua capacità di resistere, rendendo necessaria la formazione di una coalizione internazionale che metta la giustizia al di sopra degli accordi e delle estorsioni. L’essenza della legittimità è la legittimità nazionale e l’entità della mobilitazione popolare attorno alla sua leadership, verso la libertà e la liberazione dall’occupazione. Quale piano diplomatico vogliamo? È chiaro che la strategia di dipendenza dal sostegno esterno a scapito della rinascita interna non ha alcun valore nella realtà e che qualsiasi piano diplomatico che non derivi dagli elementi di forza interna, specialmente nella fase di liberazione nazionale contro il progetto sionista e il suo sostenitore, la Casa Bianca, deve essere parte integrante di una strategia di lavoro basata sui punti di forza del popolo palestinese che metta in campo tutti gli elementi della sua resilienza. Dovrebbe concentrare le sue alleanze internazionali sulle forze progressiste e umanitarie che hanno protetto i suoi movimenti nelle capitali mondiali e hanno persino costretto molte di queste capitali a cambiare posizione, poiché il crimine è troppo grande per essere sopportato dall’umanità. Questa lezione e altre segnalano che il mondo, che vive su un sottile filo di giustizia, rispetta solo i forti che dedicano la loro vita a preservare la dignità dei loro popoli. Se non fosse stato per la forza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e per il sostegno schiacciante di cui gode da parte del suo popolo in patria e in esilio, l’Assemblea Generale non si sarebbe affrettata a trasferirsi nella sua sede europea a Ginevra quando al presidente Arafat fu impedito di rivolgersi al mondo dalla sua tribuna a New York nel 1988. Dobbiamo chiederci: come mai lo status dell’organizzazione è regredito nonostante l’intifada globale che sostiene la Palestina e il suo popolo? Dobbiamo trarre insegnamento da questo confronto. La recente posizione americana dimostra inequivocabilmente che Washington, impegnata a manipolare la questione palestinese secondo i piani israeliani, non solo si è accontentata di sostenere l’occupazione, ma è diventata parte principale e palese della cospirazione volta a cancellare la Palestina dalla geografia e dalla storia, non solo dalle piattaforme internazionali. Pertanto, la risposta palestinese deve essere unitaria e basarsi anche sul rilancio di tutti gli elementi di forza propria, preservando l’unità nella rappresentanza per ripristinare lo status dell’OLP e rafforzare il suo ruolo di casa inclusiva per tutti i palestinesi e di ampio fronte nazionale per guidare la liberazione nazionale. Dovrebbe inoltre esserci un’ampia rete di alleanze che investano nel diritto internazionale e nelle coalizioni globali, trasformando lo scandalo aggressivo di Washington in un’opportunità per ripristinare la dignità dell’unità palestinese, le Nazioni Unite come piattaforma inclusiva e la causa palestinese come causa di liberazione e di diritti che non possono essere cancellati. https://www.sadanews.ps/en/articles/226357.html Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
La sconfitta non è inevitabile e la resa non fermerebbe la catastrofe
di Jamal Zaqout,  25 agosto 2025.   Sebbene sia ormai chiaro che Netanyahu e il suo governo fascista sono la causa principale del fallimento di tutti i tentativi dei mediatori di raggiungere un accordo ragionevole – anche solo provvisorio, che potrebbe finalmente porre fine al genocidio a Gaza e alla frammentazione in corso in Cisgiordania – alcune voci continuano a chiedere alle fazioni della resistenza a Gaza di rischiare facendo ulteriori concessioni. Alcuni arrivano addirittura a esortarle, apertamente o indirettamente, ad accettare le condizioni di Israele. La strategia di escalation di Netanyahu Netanyahu, che sembra non aver chiuso completamente la porta ai negoziati sulla proposta egiziana accettata senza condizioni da Hamas, pur mantenendo aperti i canali di comunicazione con i mediatori, continua a propendere per l’escalation militare e minaccia di distruggere la città di Gaza come ha fatto a Rafah, nella speranza di ottenere ciò che finora non è riuscito a realizzare. E questo nonostante gli avvertimenti del suo esercito sul pesante prezzo che una tale mossa comporterebbe, non solo in termini di catastrofe umanitaria, ma anche di gravi perdite militari che potrebbe subire se si gettasse incautamente nel pantano di Gaza City, con la probabilità di una crescente guerriglia che potrebbe diventare la forma dominante di confronto. I veri motivi I veri motivi dietro le manovre di Netanyahu risiedono nella natura e nella sostanza della strategia del suo governo di destra che, rafforzata dall’appoggio americano, si estende non solo a Gaza ma anche alla continua annessione e giudaizzazione della Cisgiordania. Non si tratta semplicemente di ragioni tattiche volte a migliorare i termini di un accordo: l’obiettivo è piuttosto quello di avvicinare il risultato a quella che la sua coalizione di destra chiama “vittoria assoluta”, un concetto che, a loro avviso, apre la strada alla liquidazione della causa palestinese, non alla fine della guerra a Gaza. La questione della “sconfitta” La questione fondamentale che richiede una discussione calma e approfondita è questa: il riconoscimento della ‘sconfitta’ da parte della resistenza porrebbe fine alla tragedia o aprirebbe la porta a un massacro ancora più grande? La risposta breve è: la sconfitta non è inevitabile e “riconoscerla” non è una via di salvezza, ma piuttosto una ricetta per ulteriori brutalità. Ciò che può fermare lo spargimento di sangue è modificare l’equazione costi-benefici ed esercitare pressioni politiche e legali sulla macchina della guerra israeliana, oltre a elaborare un accordo temporaneo di sicurezza umanitaria, non un “riconoscimento del dominio di Israele”, che non sarebbe altro che un assegno in bianco per lo sfollamento di massa. Cosa intendiamo per “sconfitta”? Cosa intendiamo quindi per “sconfitta”? È militare e tattica, una grave battuta d’arresto sul campo di battaglia? Oppure è politica, ovvero il crollo della capacità di garantire anche i diritti minimi? Oppure è la piena accettazione della narrativa del nemico secondo cui un intero popolo non ha alcun diritto nazionale? Dal punto di vista della destra fascista al potere in Israele, qualsiasi dichiarazione di “sconfitta” incarna tutti questi significati combinati e viene interpretata come un via libera per portare il suo progetto all’estremo. Perché dichiarare la “sconfitta” non fermerebbe la tragedia Primo: perché la logica della destra fascista nazionalista e religiosa al potere equipara la “sicurezza” alla sottomissione totale e allo sfollamento forzato. Un messaggio di resa non soddisferebbe il suo appetito, ma la convincerebbe solo che una maggiore brutalità porta a maggiori guadagni. Secondo: perché gli strumenti legali e internazionali, così come le leve popolari ed economiche, perderebbero il loro slancio se il discorso palestinese si spostasse verso la concessione della perdita di diritti. Terzo: perché tale riconoscimento rappresenterebbe una minaccia esistenziale per il popolo palestinese nel suo complesso, facilitando la distruzione delle istituzioni, frammentando il fronte interno e indebolendo qualsiasi capacità di impedire espulsioni di massa su larga scala. Cosa può porre fine alla tragedia? Una soluzione provvisoria potrebbe risiedere in un accordo temporaneo di sicurezza umanitaria: «un cessate il fuoco immediato, lo scambio di prigionieri e detenuti, il ritorno degli sfollati all’interno di Gaza, l’apertura dei valichi e la consegna degli aiuti attraverso le agenzie delle Nazioni Unite con garanzie di monitoraggio internazionale a tempo determinato». Tuttavia, l’attenzione deve concentrarsi maggiormente sull’aumento dei costi per Israele in caso di continuazione della guerra: dal punto di vista legale attraverso procedimenti presso la Corte Penale Internazionale e la Corte Internazionale di Giustizia; dal punto di vista economico attraverso boicottaggi mirati e dal punto di vista politico rafforzando la pressione araba e internazionale sul governo israeliano, sfruttando al contempo quelli che sembrano essere i legami speciali di Trump con alcuni Stati Arabi. La pianificazione del “giorno dopo” e i suoi rischi Per quanto riguarda l’impegno nella cosiddetta pianificazione del “giorno dopo”, che comprende l’amministrazione civile e la fornitura di servizi, essa può offrire una pratica alternativa transitoria al caos della guerra. Tuttavia, comporta il rischio reale di consolidare la separazione di Gaza dall’entità nazionale, pietra angolare della strategia della coalizione di governo in Israele per impedire al popolo palestinese di determinare il proprio futuro e realizzare uno stato indipendente su tutto il territorio occupato nel 1967. Prevenire lo sfollamento Dare priorità alla prevenzione dello sfollamento attraverso sistemi solidi richiede impegni documentati da parte degli arabi e delle Nazioni Unite, zone di protezione umanitaria chiaramente designate, archiviazione dei registri della proprietà e della popolazione, finanziamenti per “rimanere sul posto” e garantire un piano di ricostruzione realistico che dia alla gente la speranza di rimanere, resistere e superare le conseguenze del genocidio e della sua devastazione umanitaria. Tuttavia, tutto ciò richiede necessariamente un governo riconosciuto a livello internazionale, che goda del consenso popolare attraverso un accordo nazionale sui suoi componenti, le sue priorità e i suoi principi operativi, fondato sulla trasparenza, l’integrità e la credibilità, e libero da polarizzazioni partigiane e interessi particolari. Evitare la trappola del “riconoscimento della sconfitta”. Evitare la trappola del “riconoscimento della sconfitta” non significa negare la realtà. Riconoscere la catastrofe non equivale a rinunciare alla legittimità dei diritti o ad arrendersi. Il pragmatismo non implica un compromesso sull’essenza, che richiede il coraggio di mobilitare elementi di forza, primi fra tutti l’unità e la legittimità popolare. L’accettazione di accordi di sicurezza transitori non deve scivolare nella resa alla logica israeliana di smantellare ancora una volta l’entità nazionale, una trappola strategica che il governo di occupazione cerca di imporre. Conclusione: l’essenza della lotta La sconfitta non è inevitabile e la resa non fermerebbe la tragedia, ma moltiplicherebbe solo la brutalità. L’essenza della lotta risiede ora nella narrazione e nella legittimità dei diritti, che richiedono sia fermezza nel difendere tali diritti, sia flessibilità negli strumenti impiegati, sia mobilitazione dell’unità per affrontare lo sfollamento. Questo è ciò che può fermare la tragedia e impedire che si trasformi a tutti gli effetti in una nuova Nakba. Ricevuto prima della pubblicazione. Jamal Zaqout è un politico e attivista palestinese. È nato nel campo profughi di al-Shati a Gaza City da una famiglia di rifugiati della città di Asdud a seguito della Nakba del 1948. È stato arrestato più volte dalle autorità israeliane di occupazione e deportato nel 1988 fuori dalla Palestina con l’accusa di aver partecipato alla formazione della Direzione Nazionale Unificata della Rivolta. Anche sua moglie, Naila Ayesh, è stata arrestata più di una volta, insieme al loro bambino, che ha trascorso sei mesi in prigione con sua madre. Zaqout è tornato nella Striscia di Gaza nel 1994 e da allora ha ricoperto una serie di posizioni di leadership politica, tra cui il Ministero della Gioventù e dello Sport, e la Deir-El Balah Disabled Rehabilitation Society. Ha studiato presso l’Alexandria University. Vive a Gaza. Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.