Il boomerang coloniale

Jacobin Italia - Friday, August 1, 2025
Articolo di Miguel Mellino

«È un magnifico accordo! È giusto andare incontro alle sue esigenze, auguri e tante buone cose, presidente!». Queste le parole di Ursula von der Leyen nella conferenza stampa congiunta dopo la sigla di un accordo commerciale ed energetico di felice e manifesto vassallaggio economico e politico da parte della Ue nei confronti degli Stati uniti di Trump.

Un accordo firmato nel campo da golf personale di Trump in Scozia: una scena che basta soltanto guardarla, senza bisogno di suoni o parole, per capire il rapporto materiale e simbolico di sottomissione (anche di genere) che ne è alla base. Le parole di von der Leyen appartengono alla stessa «grammatica generativa», per ricordare il Chomsky linguista, di quelle pronunciate da Mark Rutte dopo l’accordo tra paesi europei e Nato per l’aumento al 5% del Pil della spesa militare: «È logico che l’Europa paghi le armi che Stati uniti invia in Ucraina. Sei straordinario, Donald, solo tu!». Ma di tutta l’imbarazzante «fraseologia della servitù» espressa da von der Leyen e Rutte, e in presenza fisica di Trump (non a distanza, vale la pena sottolinearlo!), vi è un «atto linguistico» del segretario generale della Nato che ci appare, al tempo stesso, il più rivoltante ma anche il più sintomatico: «Sometimes, Daddy has to use a Strong a Language». Si tratta di un «atto linguistico», un’azione espressa in parole secondo il linguista J. Austin, che esprime nel modo più efficace la natura del «sovranismo» europeo. In primo luogo delle ultradestre, certo, di «Patrioti», «sovrani» e «conservatori» di Europa, che si autopromuovono a partire da questo concetto; ma anche la Ue ne è attraversata sin dalla sua costituzione materiale tra Maastricht e Schengen, pur se in modi diversi e più ibridi, come ci ricorda ogni giorno la commissione von der Leyen, la più a destra della storia. Questa sottomissione volontaria di Rutte nell’invocare il «nome del padre» ci mostra in modo eloquente una certa «trasparenza del male». Lo ricordiamo, per Baudrillard, la trasparenza del male non significava che il male fosse più chiaro, ma, al contrario, che esso si fosse dissolto nella visibilità, nella banalizzazione tipiche delle società mediatizzate postmoderne contemporanee. Il male, dunque, non è più visibile come tale, poiché si è mimetizzato con il sistema, con la norma, con una nuova accezione del bene.

La trasparenza del male

Mettere sulla filigrana della scena di von der Leyen l’ignobile deferenza di Rutte a Trump ha l’effetto di una risonanza magnetica: ci mostra nella sua trasparenza scheletrica la vera ossatura dei «sovranismi» europei. Si tratta di sovranismi reattivi – fondati sulla naturalizzazione della condizione servile nei confronti del Signore, per dirla con e contro Nietzsche – poiché appare già depotenziato in partenza dalla forza reale delle potenze con vere ambizioni «sovrane» nell’attuale congiuntura globale, segnata dalla guerra e da un caos sistemico oramai strutturale: Stati uniti, certo, ma anche Cina, Russia e perfino Israele, braccio armato (tuttora) coloniale dell’ex impero occidentale in Medioriente. Nessuna autonomia politica, tanto meno economica: questo pseudo-sovranismo europeo – intendendo questo termine in senso meramente descrittivo, non come un giudizio di valore negativo rispetto agli altri sovranismi e quindi al di fuori di ogni «campismo» – scarica tutta la sua «violenza sovrana» soltanto su oppressi e dissidenti: «diversi», poveri, migranti, rifugiati, detenuti, lavoratori, senza-casa, precari, attivisti, militanti e studenti. Deregolazione, dunque, assalto autoritario alle repubbliche liberal-borghesi, potere assoluto al capitale, alla finanza, alle corporation, alle piattaforme, ai grandi monopoli e proprietari; subordinazione, iper-sfruttamento, securitarismo, violenza razziale, pugno duro col resto.

È questo ciò che significano oggi «riarmo» e «filo-atlantismo» nel linguaggio tanto delle ultradestre europee quanto dell’attuale Ue: sembianti orwelliani che stanno per accumulazione capitalistica a briglia sciolta, punitivismo, sottomissione assoluta al complesso militare-finanziario-penitenziario statunitense, sostegno incondizionato al progetto genocida del sionismo, ma anche alla guerra dell’occidente bianco e cristiano contro l’irreversibile declino della propria egemonia globale. Da qui la paranoia della grande sostituzione etnico-razziale nel continente, l’insistenza quasi eugenetica sul cosiddetto «inverno demografico» bianco, ma soprattutto la nostalgia del colonialismo e del fascismo che attraversa questi pseudo-sovranismi europei: due esercizi del potere fondati, non a caso, sulla supremazia assoluta dell’Europa, per ricordare Fanon, ma anche sulla restaurazione morale e patriarcale dell’autorità, ovvero – stando invece a Lacan, Adorno, Pasolini e altri – sull’estrazione di un perverso «surplus di godimento» dalla sopraffazione fisica e psichica di corpi già disarmati o resi inermi dalla violenza sovrana. Sta qui, forse, uno degli usi della psicoanalisi, tutto da indagare, per l’analisi politica delle sempre più repressive politiche migratorie e securitarie.

La parabola di Rutte come genealogia della commissione von der Leyen

La stessa parabola di Rutte dunque aggiunge trasparenza alla trasparenza. Ex membro del management della Unilever, divenuto leader del Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (Vvd) nei Paesi bassi nel 2006 e primo ministro tra il 2010 e il 2023, la carriera politica del segretario della Nato, voluto da Trump e Biden, rappresenta un caso paradigmatico nell’ascesa di questo pseudo-sovranismo trasversale europeo, pur se nella sua versione liberal-razziale Nord-Europea. Tra i sostenitori più severi di una Ue «frugale», significante che condensava un razzismo coloniale «anti-mediterraneo» di tipo calvinista verso i paesi del Sud dell’Europa, Rutte ha caratterizzato il suo pragmatismo di governo attraverso questa combinazione di austerità, riduzione del welfare, libero mercato, finanza, detassazione di profitti, redditi, imprese e deregolamentazione degli investimenti esteri (l’Olanda è oggi un paradiso fiscale) con securitarismo, islamofobia, intransigenza verso poveri, migranti e rifugiati: un dispositivo di potere costruito a livello discorsivo come parte di una crociata occidentale contro la barbarie non-europea. Il Vvd di Rutte è arrivato al centro della scena politica nel clima di islamofobia successivo a due tragici eventi: gli omicidi del leader Lgbt di estrema destra Pim Fortuyn (2002), uno dei primi «omo-femo-nazionalisti” del continente, critico della società multiculturale, dell’Islam, della casta tecnocratica della Ue e del politicamente corretto, e quello del regista Theo Van Gogh (2004), autore del polemico cortometraggio Submission, in cui denunciava l’oppressione delle donne musulmane ritraendo il Corano su un corpo nudo.

È così che Rutte e il Vvd hanno cercato di consolidare un consenso di governo riversando la forza del sovranismo su migranti, rifugiati e olandesi non-bianchi. Ancora sintomatica la «politica della crudeltà», riprendendo il fortunato concetto di R. Segato, espressa dai loro provvedimenti anti-immigrazione: riduzione dei ricongiungimenti familiari, creazione di Cpr fuori dalla Ue, potenziamento dei Cpr in patria, ricorso a pressioni diplomatiche (come il taglio dei visti) per costringere i paesi terzi a rimpatriare gli espulsi, taglio delle prestazioni sociali per i non-olandesi, istituzione dell’obbligo di integrazione linguistica e culturale con corsi a pagamento a carico degli stessi migranti, esclusione dei sussidi di chi non supera i test, pressioni sulla Ue per rafforzare Frontex e per rendere più celeri le espulsioni. Va detto che nel 2022, dopo una lunga pressione dei movimenti antirazzisti locali e come effetto transnazionale della lotta antirazzista di Black Lives Matter negli Stati uniti, il governo Rutte ha riconosciuto e chiesto scuse, in nome dello stato olandese, per il passato coloniale del paese e per il suo ruolo nella schiavitù. Al gesto formale di riconoscimento, non è seguito alcun impegno dello Stato nel pagamento di riparazioni storiche o nella lotta materiale al razzismo strutturale contemporaneo. Enunciato in questo modo, dunque, come notato da diversi movimenti antirazzisti olandesi, il gesto sta più per una strategia di decolonial-washing che non per una qualche reale discontinuità con il passato coloniale. È stato lo stesso Rutte a confermare questa persistente colonialità, con un atto affermativo rimasto famoso e degno di «Daddy»: «Chi non si adegua ai valori olandesi, se ne dovrà andare». Inutile aggiungere che la parabola di Rutte appare come una genealogia storica quasi perfetta della commissione Von der Leyen.

Gli pseudo-sovranismi europei e il boomerang coloniale

Cosa muove questi valori olandesi, ce lo racconta in modo suggestivo Gloria Wekker, antropologa afro-olandese, in White Innocence. Paradoxes of Colonialism and Race (2016). Wekker identifica un paradosso al centro dell’identità nazionale olandese: da una parte, la passione, l’intensità e persino l’aggressività che la razza, nelle sue intersezioni con genere, sessualità e classe, suscita nella popolazione bianca, dall’altra il predominio nelle proprie auto-narrazioni della sua negazione, estraneità e disconoscimento. Sta qui l’operatore simbolico al cuore di ciò che Wekker chiama «innocenza bianca». Questo «fantasma della razza», questo «boomerang coloniale» – per stare alla proposta dello storico del diritto coloniale e imperiale anglo-ghanese Kojo Koram in Uncommon Wealth. Britain and the Aftermath of Empire (2022) – non tiene in ostaggio soltanto il simbolico olandese: agita invece l’intero spettro degli pseudo-sovranismi europei. Qualunque riferimento all’Italia è qui puramente voluto. Il godimento della crudeltà, dell’autoritarismo, della violenza, del militarismo e del razzismo appare qui come un rovescio perfettamente simmetrico della dimensione del declino europeo nel mondo: non è che una sublimazione coloniale della propria impotenza.

*Miguel Mellino insegna studi postcoloniali all’Università di Napoli L’Orientale. Tra i suoi libri, Post-Orientalismo. Said e gli studi postcoloniali (Meltemi, 2009), Governare la crisi dei rifugiati (Derive Approdi, 2019) e Marx nei margini. Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale (Alegre, 2020). Ha curato l’edizione italiana di Black Marxism di Cedric Robinson (Alegre, 2023).

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