Oltre il biocapitalismo

Jacobin Italia - Thursday, July 31, 2025
Articolo di Luca Mandara

Il problema storico che sta all’origine e definisce il compito dell’eco-marxismo è fondare de jure quella che Paul Guillibert, nel suo Sfruttare i viventi. Un’ecologia politica del lavoro recentemente tradotto dal francese per Ombre Corte, definisce «un’ecologia di classe», per un nuovo progetto eco-socialista. Per farlo, il marxismo più aggiornato, come quello del ricercatore francese, si confronta con gli studi eco-femministi, decoloniali, ecologisti, formulando una teoria omnicomprensiva dei molteplici rapporti di dominio (di classe, di genere, di razza, inter-specifico) che articolano oggi la società capitalistica.

Verso il biocapitalismo

Negli anni Sessanta-Settanta, mentre la comunità scientifica denunciava i «limiti della crescita», alcuni pensatori marxisti hanno fatto propria la scoperta ecologica dell’impossibilità di una crescita infinita senza intaccare risorse, processi e equilibri biofisici che fino ad allora avevano permesso la vita degli esseri umani e di diverse altre specie. Emancipati dall’orizzonte produttivistico condiviso anche dal socialismo «reale», dal canto loro, questi pensatori hanno a loro volta emancipato l’ecologismo da una concezione astorica e sacrale della natura, da proteggere, conservare, ripristinare quale è sempre stata senza considerare i «costi» sociali. L’idea marxiana che, invece, la «natura» sia un prodotto storico (di una storia naturale e sociale) e che questa produzione non sia unica ma si modifichi storicamente, rende il rapporto con la natura innanzitutto produttivo e politico, cioè esito di conflitti storici. Da scienza dei processi biofisici, l’ecologia diventa così «ecologia politica», che studia la questione dei rapporti col non-umano a partire dalla questione dei rapporti di forza tra umani. 

Nell’eco-marxismo questi rapporti sono rapporti tra classi in lotta a causa del carattere della produzione. Quella capitalistica è finalizzata all’accumulazione crescente di capitale mediante lo sfruttamento del lavoro «vivo» salariato e della natura in generale oltre i limiti della loro capacità di riprodurre la propria energia vivente. Poiché lo sfruttamento del lavoro umano pone un limite «naturale» alla durata della giornata lavorativa – la riproduzione della forza lavoro stessa richiede del tempo – il capitale tende a ridurre il valore dei beni salario in vari modi, come impiegare le macchine in agricoltura. Agricoltura meccanizzata e urbanizzazione, a loro volta, causano una «frattura metabolica» del «ricambio organico» tra uomo e natura di cui già Marx considerava le nefaste conseguenze: perdita di fertilità della terra, inquinamento delle città, proliferazione di malattie, riduzione dell’età media, ecc.

La critica ecologista è stata arricchita da quella femminista secondo la quale anche la riproduzione intra-umana non è un fatto naturale ma il prodotto di un’attività storica: il lavoro «domestico» femminile. Per pensatrici come Silvia Federici, quest’attività non viene «contabilizzata» nei costi poiché la produzione capitalistica è fondata sul salario, che apparentemente lascia libero il lavoratore nei suoi rapporti riproduttivi. In verità, tali rapporti sono organizzati da forme e istituzioni di dominio sulla donna che rendono la riproduzione conforme e funzionale alla produzione capitalistica. La donna serve gratis la sua attività di crescita ed educazione dei figli, forza lavoro futura, di cura degli anziani, socialmente necessaria ma non ripagata. A sua volta se ne avvantaggia la riproduzione della forza lavoro maschile. Come sottolinea Nancy Fraser nel suo Capitalismo Cannibale, la logica intrinseca dello sfruttamento di genere non è venuta meno con l’integrazione delle donne nel mercato del lavoro. In Occidente, anzi, si è esteso e incrociato sempre di più con motivi «razziali»: il lavoro domestico viene appaltato ad altre donne più povere, soprattutto straniere.

Anche la questione razziale ha una sua componente ecologica. La critica decoloniale ha mostrato che il capitale tende a ridurre i costi dei beni salario anche sfruttando manodopera nelle «colonie» in rapporti non salariati, schiavili, servili o malamente salariati, oltre che appropriandosi violentemente delle risorse e impiegare il modello distruttivo della piantagione a monocoltura. 

Infine, come evidenziato dall’ambientalismo, anche il non-umano è attivo nel generare gli elementi necessari alla produzione e riproduzione umana (aria respirabile, acqua potabile, terreno coltivabile ecc.), e anche questa attività non viene ripagata da alcun valore. Questo porta diversi eco-marxisti a estendere la categoria di lavoro alla natura non-umana o a parte di essa, come nel caso di Guillibert, e a estendere l’uso dei concetti marxiani sui rapporti tra capitale e lavoro al rapporto capitale-natura. Il ricercatore francese, ad esempio, parla di «sussunzione totale della vita» al capitale per indicare la produzione di una nuova natura del capitale, fatta di Ogm e altro, già adeguata e conforme al regime dell’accumulazione. Attraverso la brevettazione della conoscenza, vengono messi a valore processi e relazioni tra viventi e tra questi e non-viventi danneggiando la loro capacità di rigenerazione. È la fase del «biocapitalismo», che smentisce certe concezioni della natura alla base delle critiche moralistiche alla sofferenza animale che accentuano una passivizzazione della natura sconosciuta al capitale. Quest’ultimo si caratterizza piuttosto per «un’intensificazione patologica, distruttiva e alienata della produttività della natura in nome del profitto».

Verso un comunismo dei viventi

La critica ecologista deve quindi mirare al dominio stesso del capitale e alle sue molteplici forme: tra divisione di classe in fabbrica, divisione di genere in famiglia, divisioni razziali nella piantagione, divisioni inter-specifiche c’è differenza, ma anche una radice comune. È il capitalismo come sistema che «mira all’accumulazione attraverso lo sfruttamento del lavoro e la svalorizzazione permanente delle condizioni oggettive di vita», ossia di quella «natura» che non è affatto un’entità astorica, ma «l’insieme delle realtà svalutate nel capitalismo, quelle che sono oggetto di un’appropriazione gratuita», e per lo più violenta. 

La violenza intra-specifica ed inter-specifica necessaria al capitalismo è perciò tra le cause storiche del dissesto ecologico. Essa è, inoltre, uno strumento fondamentale per costringere il non-umano ai tempi dell’accumulazione, come dimostrano i molteplici casi di resistenza animale. Chiaro che un progetto eco-socialista non può quindi limitarsi alla semplice transizione energetica, né alla «giusta» redistribuzione dei suoi costi sociali. Se l’origine è il dominio, e questo ha origine nel rapporto tra produzione e riproduzione internazionale, allora solo una rivoluzione di questi rapporti può condurre a una società «sostenibile».

Assunti i limiti alla crescita; assunta la centralità del momento della riproduzione sociale oltre quello della produzione di beni, sorge nell’eco-marxismo la corrente della Degrowth Communism inaugurata da Kohei Saito e appoggiata dal «comunismo dei viventi» di Guillibert, secondo la quale una «decrescita» può essere ottenuta quando, rivoluzionati i rapporti di proprietà e le finalità della produzione (dall’accumulazione alla soddisfazione dei bisogni umani e non), le attività produttive vengono messe al servizio di quelle riproduttive, meno energivore (o, come scrive Emanuele Leonardi, neghentropiche) per il maggiore impiego di energia umana.

Siamo pronti per il biotariato?

Detto del progetto, resta da interrogare la questione del chi per esso. Secondo alcuni la trasformazione della composizione «tecnica» del lavoro nel biocapitalismo deve portare a ripensare la classe nei termini operaisti della sua composizione «politica», introducendovi ora il non-umano. Léna Balaud parla ad esempio di «composizione ecologica della classe operaia»; Jason Moore di «proletariato ecologico o ‘biotariato’»; Guillibert, di un’«ecologia di classe» che «si costituisce a partire dalle resistenze animali alla messa a lavoro […] dalle quali sviluppare lotte e nuove composizioni». 

Su questo punto mi pare persistere però una certa vaghezza e una certa confusione di priorità che contraddice, invece, la precisione con cui la critica eco-marxista riesce a cogliere le molteplici forme di sfruttamento.

Chi formula queste ipotesi di alleanze inter-specifiche nella lotta politica, fonda le sue proposte su una revisione del concetto di lavoro che, mi pare, estende troppo la categoria dimenticando la fondamentale differenza che passa tra lavoro umano e attività non-umana: la storicità. Anche la natura ha una sua storia, ma quella umana è caratterizzata dal fatto che gli uomini modificano le forme della loro relazione con la natura non-umana; che producendo una «natura» producono la stessa produzione; che, a causa di fattori non-naturali, come la nascita delle classi, il passaggio tra forme di produzione è stato mediato da rivoluzioni politiche, per lo più violente. Fenomeni su cui agiscono condizioni naturali non-umane, certo, ma anche fattori che non troviamo nel mondo non-umano ma sono, appunto, nuovi, storici. 

Da cui i dubbi sull’estendibilità di concetti della critica dell’economia politica di Marx – come sussunzione, lavoro, alienazione – alla «natura» o alla «vita». Il rischio è che, nel merito di illuminare l’utilizzo capitalistico del non-umano, appaia una sussunzione diretta al capitale dell’ente non-umano, che lascia nell’ombra il fatto che tale sussunzione è resa possibile solo mediante la sussunzione del lavoro umano, sia vivo, sia morto, cioè oggettivato nello strumento/macchina così come nella conoscenza che viene applicata durante il processo. Il punto della sussunzione della «natura» resta, quindi, la riduzione del valore del lavoro umano mediante la riduzione del valore delle merci che rientrano nel suo salario; e la lotta per la giornata lavorativa normale è, necessariamente, ciò che la produzione scatena «da sé» e da cui bisogna partire per ogni attività politica. 

La questione è anacronistica solo se non si guarda al livello internazionale di questa lotta. Qui mi pare esserci un altro limite dell’eco-marxismo, che spesso coglie il carattere internazionale della divisione del lavoro, ma lo perde quando si tratta di passare all’analisi politica della «composizione di classe». Ci si focalizza molto sulla «nostra» esperienza di alleanza tra lavoro e ambiente, ma poco spazio è lasciato a quei movimenti extra-occidentali che da tempo uniscono le due questioni a quella della «sovranità» sul proprio territorio dovendolo sottrarre al dominio delle potenze imperialistiche occidentali. 

La sovranità, invece, appare spesso solo nella sua versione destrorsa. Guillibert, ad esempio, denuncia il nuovo compromesso eco-razzista che giustifica politiche migratorie restrittive in nome della sovranità su un territorio dalle risorse scarse. Ci si dimentica, però, che la perdita di sovranità nazionale è stato uno dei fattori che ha contribuito al dominio sugli stessi popoli europei dei cosiddetti mercati finanziari globali (leggi monopoli anglo-americani) che distruggono e si appropriano della terra anche in Occidente, come dimostra drammaticamente il caso ucraino. Inoltre, ci si dimentica di quei popoli che sono privi di sovranità, sia formalmente (vedi i palestinesi), sia realmente (vedi i popoli soggetti a governi «fantoccio»), la cui lotta per una sovranità formale e reale è una lotta di liberazione non solo politica, ma anche potenzialmente ecologica. 

Lo scriveva Herbert Marcuse già nel 1972 a proposito della guerra in Vietnam, infatti, l’«ecocidio» è un’arma di «genocidio» perché uccide non solo i viventi di oggi, ma le fonti naturali per la nascita e lo sviluppo autonomo delle generazioni a venire. Quella vietnamita – e oggi potremmo dire quella gazawi – era per lui una «liberazione ecologica rivoluzionaria» che «le bombe hanno lo scopo di prevenire». Prova ne è la scomparsa mediatica di Greta Thunberg dopo le sue prese di posizione radicali sul genocidio palestinese. 

Da questo punto di vista, un ripensamento a sinistra del concetto di sovranità è una sfida che l’eco-marxismo deve affrontare. Ha buoni maestri, a partire da Vladimir ‘Ilic. Ma anche prove concrete che sta già avvenendo, come mostrano le recenti nazionalizzazioni delle risorse in Mali, Niger e Burkina Faso, dove ha permesso ingenti investimenti statali nella produzione tessile locale, oltre che una migliore redistribuzione della ricchezza con evidenti successi anche economici. Senza contare la sperimentazione del popolo del Rojava di una società laica, democratica, ecologica, senza divisioni di genere.

Credo quindi che il problema dell’unità internazionale intra-umana per una lotta anti-imperialista sia una priorità ecologica rispetto a quella inter-specifica. 

Valorizzare attraverso una nuova teoria del lavoro la «rivolta animale», può avere un’importante funzione simbolica e morale: conoscere la loro sofferenza e ribellione può stimolare il medesimo bisogno negli uomini che soffrono dello sfruttamento e dell’alienazione. Ma questo piano morale-sensoriale-sentimentale, dall’indubbio valore, resta qualitativamente diverso dalla dimensione politica. Come, infatti, si organizza una «rivolta animale»? Non sarebbe tale organizzazione anch’essa una imposizione contro cui l’animale potrebbe fare resistenza? 

Chiarire le priorità rafforzerebbe, senza intaccare, il merito e la sfida profonda che, a mio modo di vedere, è stata posta dal sorgere dell’eco-marxismo: restituire al marxismo quella dimensione utopica perduta dopo la fine della «grande narrazione» produttivistica-prometeica, senza la quale nessun movimento può «abolire lo stato di cose presenti». Questo movimento è fatto di uomini e donne; a loro volta mossi da bisogni, desideri e coscienze. Immaginare un altro oltre le forme cannibali di soddisfazione e percezione del mondo capitalistico, è necessario per spezzare la presa su quella dimensione soggettiva del desiderio che occorre incanalare nella costruzione vissuta «in prima persona» di una società pacificata nei rapporti inter- e intra-specifici.

*Luca Mandara insegna filosofia e storia nei licei e collabora con le Università di Napoli e della Basilicata, dove si occupa di teoria critica e di questione ecologica. Partecipa al movimento per la sanità pubblica e alle iniziative di altre organizzazioni politiche attive a Napoli.

L'articolo Oltre il biocapitalismo proviene da Jacobin Italia.