Il meccanismo che garantisce l’impunità agli agenti di polizia in Italia
In Italia la disciplina degli agenti di polizia è un complesso insieme di norme
contraddittorie che ne garantiscono quasi sempre l’impunità persino per gravi
reati penali.
L’articolo 8 del DPR 737/1981 prevedeva il licenziamento
automatico.[1] Tuttavia, tale articolo è stato dichiarato incostituzionale dalla
Corte Costituzionale con sentenza n. 971 del 12-14 ottobre 1988.[2]
In pratica, il principio attualmente vigente è che la destituzione
dell’operatore delle polizie debba sempre essere disposto a seguito di un
procedimento disciplinare istituito dal Consiglio Superiore Disciplinare di
ciascuna forza di polizia. Ogni forza di polizia italiana ha un proprio
regolamento disciplinare e un proprio Consiglio di Disciplina, che stabilisce le
eventuali sanzioni per i comportamenti non conformi a tali regolamenti (vedi
note seguenti). Questo Consiglio disciplinare è istituito dai vertici di
ciascuna polizia che di fatto quasi mai arriva alla misura di destituzione.
L’autonomia del procedimento disciplinare dal parallelo procedimento penale da
parte di tribunali è da tempo consolidata (sentenza 51/2014 della Corte
Costituzionale[3]).
Come confermato anche dalla Sessione Plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 29
gennaio 2009[4], il procedimento disciplinare deve essere sospeso fino alla
conclusione del procedimento penale solo a partire dal momento del rinvio a
giudizio del dipendente. Esistono anche disposizioni di coordinamento (come gli
articoli 653 e seguenti del Codice di Procedura Penale) che definiscono i
criteri in base ai quali l’esito di un procedimento penale è considerato
determinante ai fini dell’accertamento della responsabilità per il fatto per il
quale il dipendente è stato condannato. Tuttavia, il Consiglio di Disciplina
(articolo 16 del citato DPR 737/1981), organo competente a decidere sulle
sanzioni oltre al rimprovero (e quindi alla sospensione dal servizio e al
licenziamento), ha ampia discrezionalità nel valutare il danno disciplinare
connesso a quanto accertato nel procedimento penale (ciò vale in particolare per
il Consiglio Supremo e per il Consiglio di Disciplina Centrale).
È qui che nascono le discordanze applicative, ben note agli addetti ai lavori
(avvocati e sindacati di polizia): la discrezionalità si trasforma in assoluto
arbitrio e persino comportamenti identici possono valutati in modo estremamente
diverso.
Il Consiglio Supremo di Disciplina della Polizia di Stato[5] è istituito
annualmente con decreto del Ministro dell’Interno ed è composto da: il Ministro
o, per sua delega, il Sottosegretario di Stato (che lo convoca e lo presiede);
il Capo della Polizia, che è anche Direttore Generale della Pubblica Sicurezza
(o il suo Vice-Direttore); e due funzionari della Polizia di Stato con qualifica
dirigenziale, designati dai sindacati di polizia più rappresentativi a livello
nazionale. Le deliberazioni del consiglio sono adottate a maggioranza assoluta
dei suoi membri. Il Consiglio Centrale Disciplinare è istituito con decreto del
Capo della Polizia ed è composto da: a) il Direttore Centrale del Personale del
Dipartimento della Pubblica Sicurezza (o, per sua delega, il Direttore di un
servizio della Direzione Centrale, che lo convoca e lo presiede); b) due
funzionari della Polizia di Stato con qualifica dirigenziale; c) due ufficiali
della Polizia di Stato con qualifica dirigenziale non inferiore a quella
dell’imputato, designati di volta in volta dai sindacati di polizia più
rappresentativi a livello nazionale. Il Consiglio Disciplinare Provinciale è
istituito con decreto del Questore ed è composto da: a) vice questore con
funzioni vicarie che lo convoca e lo presiede; b) da due funzionari del ruolo
direttivo della Polizia di Stato; c) da due appartenenti ai ruoli della Polizia
di Stato di qualifica superiore a quella dell’incolpato, designati di volta in
volta dai sindacati di polizia più rappresentativi sul piano provinciale.
Per le altre forze di polizia, il regolamento prevede procedure specifiche,
tuttavia analoghe a quelle della Polizia di Stato, attribuendo sempre potere
decisivo ai vertici nazionali e locali.
Di fatto i vertici delle forze di polizia hanno sempre cercato di evitare
sanzioni gravi, fortemente sostenuti a tal proposito dai sindacati o dai
rappresentanti del personale, anzi spesso non hanno comminato alcuna sanzione.
È ovvio che il codice disciplinare dovrebbe essere radicalmente riformato e che
un codice unico per tutte le forze di polizia sarebbe opportuno, ma come detto
in nostre precedenti pubblicazioni, nessuna autorità istituzionale o forza
politica osa infrangere l’autonomia, il libero arbitrio e la pressoché totale
impunità del personale di queste forze.
Per un archivio delle impunità
Ricordiamo che nessuno degli alti ufficiali di polizia condannati, anche di
quarto grado, per reati penali commessi al vertice del G8 di Genova è stato
destituito nonostante le gravi condanne. Lo stesso vale anche per tutti i casi
di reati commessi da dirigenti e operatori delle polizie in molteplici
circostanze. Si pensi ai responsabili di torture del caso Dozier, nonché ai
poliziotti autori delle torture alla caserma Ranieri durante il Global Forum di
Napoli (prologo del G8 di Genova), ai casi quali l’assassinio di Stefano Cucchi,
quello di Federico Aldrovandi ucciso come George Floyd e i cui assassini sono
reintegrati in servizio, e tanti altri ancora (citati in Polizie, sicurezza e
insicurezze).
L’ultimo caso emblematico e assai sconcertante è quello del Fabrizio Ledoti che
nel 2001 era uno dei capi squadra del Settimo nucleo del Reparto mobile di Roma,
artefice della “mattanza messicana alla Diaz e condannato a 4 anni per lesioni
gravi (vedi articolo di Marco Preve) condanna prescritta perché non c’era legge
sulla tortura e le torture erano classificate come semplici lesioni e quindi
punite con circa 3 anni e presto prescrittibili, ma promosso ispettore e
risarcito.
Seguendo peraltro l’esempio dell’eccellente analisi pubblicata dal presidente
della sezione riesame del Tribunale di Perugia, Pino Narducci, l’Osservatorio
Repressione si impegna a creare un archivio di tutte i casi di impunità.
Chiediamo di segnalarci documenti e informazioni a tale proposito.
NOTE:
[1] NEL PUBBLICO IMPIEGO ITALIANO, IL “LICENZIAMENTO DI DIRITTO” CONSISTE
NELL’ESPULSIONE AUTOMATICA DI UN DIPENDENTE PUBBLICO A SEGUITO DI UNA SPECIFICA
CONDANNA PENALE, SENZA LA NECESSITÀ DI ULTERIORI PROCEDIMENTI DISCIPLINARI. IN
ALTRE PAROLE, NEI CASI PREVISTI DALLA LEGGE, UNA CONDANNA PENALE COMPORTA
AUTOMATICAMENTE IL LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE. MA COME MOSTRIAMO IN QUESTO
ARTICOLO QUESTO NON VALE PER GLI OPERATORI DELLE POLIZIE PROPRIO GRAZIE AL
MECCANISMO DI GARANZIA DELLA LORO IMPUNITÀ.
[2] LA CORTE COSTITUZIONALE DICHIARA INCOSTITUZIONALE IL DECRETO PRESIDENZIALE
25 OTTOBRE 1981, N. 737 (SANZIONI DISCIPLINARI PER IL PERSONALE
DELL’AMMINISTRAZIONE DELLA PUBBLICA SICUREZZA E DISCIPLINA DEI RELATIVI
PROCEDIMENTI): HTTPS://GIURCOST.ORG/DECISIONI/1988/0971S-88.HTML
[3] ALLORA LA CORTE COSTITUZIONALE ERA COMPOSTA DA ALCUNI FRA I PIÙ IMPORTANTI
MINISTRI DEI PASSATI GOVERNI E ANCHE DALL’ATTUALE PRESIDENTE SERGIO
MATTARELLA: HTTPS://WWW.CORTECOSTITUZIONALE.IT/ACTIONSCHEDAPRONUNCIA.DO?ANNO=2014&NUMERO=51.
[4] HTTPS://SIULP.IT/PROCEDIMENTO-DISCIPLINARE-LESERCIZIO-DELLAZIONE-PENALE-E-PRESUPPOSTO-OSTATIVO-CONS-STATO-SENT-NR-109-DEL-15-DICEMBRE-2008/
[5] HTTPS://WWW.FSP-POLIZIA.IT/D-P-R-25-OTTOBRE-1981-N-737/ E HTTPS://WWW.INTERNO.GOV.IT/SITES/DEFAULT/FILES/MODULISTICA/CODICE_COMPORTAMENTO_DEI_DIPENDENTI_DEL_MINISTERO_DELLINTERNO.PDF
Salvatore Turi Palidda