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Brasile. La normalità della violenza poliziesca
Il 28 ottobre scorso circa 140 persone, di cui 4 agenti, sono state uccise e un centinaio sono state arrestate nel corso di un assalto condotto da 2500 membri della Polizia Civile e della Polizia Militare brasiliane, nelle favelas di Alemão e Penha a Rio de Janeiro. Gli agenti si sono serviti anche di elicotteri e mezzi blindati. Su numerosi cadaveri, alcuni con le mani legate, sono stati rinvenuti i segni di colpi esplosi alle spalle o alla nuca. Oltre alle numerose esecuzioni extragiudiziali, i testimoni parlano di perquisizioni ed irruzioni nelle abitazioni private realizzate senza mandato, di torture, di colpi sparati dagli elicotteri, di feriti morti dissanguati a causa dello stop da parte degli agenti all’intervento dei sanitari. Nelle proteste e manifestazioni organizzate da movimenti e associazioni e dagli abitanti delle favelas di Rio e di altre città, sono comparsi striscioni con la scritta “Favela Lives Matter”. Tutti denunciano «una violenza sistemica e razzista» e puntano il dito soprattutto contro le autorità locali, allineate con l’ex presidente di estrema destra Jair Bolsonaro. All’ex capo di stato, condannato a settembre a 27 anni di reclusione per il tentato golpe del gennaio 2023, è strettamente legato Claudio Castro, governatore dello stato di Rio de Janeiro e membro del “Partito Liberale” dell’ex presidente di estrema destra. Questa strage è salita agli onori delle cronache per l’enorme dispiegamento di forze e per l’elevato numero delle vittime, ma la violenza della polizia nelle aree dove vive la popolazione più povera e razzializzata è un fatto “normale”. Ne abbiamo parlato con Simone Ruini Ascolta la diretta:
La Cop nell’Amazzonia che muore
Piogge torrenziali, manifestazioni oceaniche, la pressione delle comunità indigene che ha attraversato i corridoi dei negoziati, e persino un incendio tra i padiglioni; un susseguirsi di eventi esterni ha accompagnato il vertice. Quelle fiamme divampate nei padiglioni non sono state altro che l’annuncio di una fumata nera che sarebbe arrivata poche ore dopo.  Il documento finale della COP, la Mutirao decision, denunciava che il testo in discussione era scritto di fatto dai PetroStati, grazie alle pressioni di Arabia Saudita, Stati Uniti e Russia.   Nonostante il nome simbolico del documento finale, Mutirao, che significa lavoro comunitario per conseguire un bene collettivo, questo testo farà il bene di pochi lasciando liberi i paesi ricchi di continuare a devastare.  Nel documento finale non c’è alcun riferimento ai combustibili fossili, non vengono neppure menzionati.  Il mondo si è congedato da Belém senza un piano per abbandonare gas, petrolio e carbone tornando indietro rispetto a quanto deciso a Dubai nel 2023. Le proteste e e danze indigene diventano una mera operazione i green whashing dell’amministrazione brasiliana. Ne abbiamo parlato con Andrea Merlone, Dirigente di ricerca all’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (INRiM) e ricercatore associato all’Istituto di Scienze Polari del CNR. Ascolta la diretta:
COP30 a Belém: lotte indigene tra estrattivismo ed emergenza climatica
Le immagini che più di tutte racchiudono il significato e la portata delle mobilitazioni per la giustizia climatica che si sono tenute a Belém – in occasione della 30esima Conferenza ONU sui Cambiamenti Climatici, la COP30 – appaiono tra le migliaia e migliaia di manifestanti che il 15 novembre scorso hanno riempito le strade nella città brasiliana nella marcia per il clima. Una maschera di cartone di Chico Mendes accanto ad una bandiera palestinese, ed un “funerale” del carbone e del petrolio, nel mezzo di rappresentanti di movimenti sociali ed indigeni che nei giorni precedenti avevano partecipato ai lavori della Cupula dos Povos, organizzata all’interno dell’Università dello Stato di Parà. Immagini che uniscono vertenze, lotte, piattaforme per l’autodeterminazione dei popoli, la giustizia ecologica, la protezione dei territori e degli ecosistemi, intersezionalità e diritti contadini e al cibo, e che evocano guerre e violenza epistemica, quella dell’estrattivismo e quella della colonialità del potere. Non è un caso che proprio i giorni prima della marcia si fosse commemorato il 30esimo anniversario dell’esecuzione di Ken Saro Wiwa, ucciso assieme ad altri 8 attivisti del popolo Ogoni per essersi opposto alle attività di estrazione di petrolio nel delta del Niger da parte della Shell. Così i padiglioni e le tende allestite all’università di Parà hanno legato, connesso storie, analisi, proposte, esperienze di resistenza dal basso, organizzate attorno ad alcuni assi tematici, dalla transizione giusta alla liberazione dei popoli, alla resistenza all’estrattivismo, alle economie popolari. Un’evento che ha visto per la maggior parte la partecipazione di movimenti brasiliani, dai Sem Terra, ai popoli indigeni, a quelli per il diritto all’educazione, all’acqua, i movimenti di comunità vittime di megainfrastrutture quali le idrovie nel Cerrado brasiliano o le grandi dighe, che proprio nello stato di Parà hanno segnato in passato la storia della resistenza territoriale. Basti pensare alla storica riunione dei popoli indigeni di Altamira nel 1989, organizzata dal popolo Kayapò mobilitato contro le dighe sul fiume Xingù, e dal suo leader “spirituale”, Raoni, anch’esso presente a Belem. > I corsi e ricorsi storici riaffiorano nelle contraddizioni del modello e del > paradigma di riferimento dei governi “progressisti” dell’America Latina, > quelli ancora rimasti. In primis c’è il sostegno dei governi del PT alla > megadiga di Belo Monte, all’annuncio fatto da Lula, proprio alla vigilia della > COP30, di concessioni di esplorazione petrolifera all’impresa statale > Petrobras alla foce del Rio delle Amazzoni. Un vero elefante nella stanza per il governo Lula, scisso tra cultura sviluppista e rivendicazioni ambientali e dei popoli indigeni incarnate da due donne, la ministra per l’Ambiente Marina Silva e quella per le questioni indigene, Sonia Guajajara presenti alla marcia per la giustizia climatica. La contraddizione però, è passata in sordina, per evitare di dare alle destre un’argomento da utilizzare alla vigilia della campagna elettorale per le presidenziali. Il tutto è stato celato quindi all’interno di una rivendicazione generica sulla messa al bando dei combustibili fossili da parte di movimenti e di un numero crescente di governi che hanno aderito all’iniziativa internazionale per un Trattato vincolante sulla non proliferazione fossile. Non a caso la Colombia di Gustavo Petro è stata a prima ad annunciare la decisione di proibire ogni forma di estrattivismo fossile e minerario nella sua parte di Amazzonia e la convocazione di una conferenza internazionale sulla nonproliferazione fossile che si terrà nell’aprile 2026 a ridosso della nuova tornata elettorale nel paese. Poco prima, a marzo, è in programma il Forum Sociale PanaAmazzonico (FOSPA) che si svolgerà nella regione ecuadoriana del Pastaza, a Puyo, al cuore dell’Amazzonia ecuadoriana, zona di forte presenza di imprese petrolifere e di acerrima resistenza da parte dei popoli indigeni. Anni or sono, in quei luoghi si decise di mantenere il petrolio nel sottosuolo dell’area forestale di Yasuni, una vittoria consolidata lo scorso anno da un referendum popolare che vanificò i tentativi di boicottaggio da parte del governo del Presidente Daniel Noboa. di Rosa Jijon I diritti della Natura riconosciuti dalla Costituzione ecuadoriana sono stati al centro di varie iniziative all’interno della Cupula dos Povos, tra cui la sesta sessione del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura, Verso un nuovo impegno con la Madre Natura, appuntamento conclusivo di una serie di sessioni tematiche su combustibili fossili e imprese minerarie canadesi. Prima in occasione della Climate Week di New York del settembre dello scorso anno, poi in tre sessioni (Serbia, Quito e Toronto) il Tribunale ha analizzato decine di casi di estrazione petrolifera, e progetti minerari di imprese canadesi, per lo più impegnate nella prospezione o estrazione di minerali “critici” o di “transizione”; necessari per la “transizione energetica” evidenziando le violazioni dei diritti delle comunità, dei difensori e difensore della Madre Terra, e della Natura. Parte del Tribunale, presieduto da Nnimmo Bassey storico attivista nigeriano e Ana Alfinito, avvocata brasiliana, è stata così dedicata all’analisi delle contraddizioni del modello di transizione energetica e la sua incompatibilità con il paradigma di riferimento del capitalismo estrattivista. Non a caso due importanti ricercatori del Pacto Ecosocial ed Intercultural del Sur, Maristella Svampa e Breno Bringel, hanno definito questa fase come quella del consenso della decarbonizzazione, caratterizzata da nuove forme di colonialismo e creazione di nuove zone di sacrificio per alimentare la transizione energetica nei vari Nord del mondo. Il Tribunale ha poi presentato le sue sentenze su combustibili fossili e imprese minerarie e la sua politica sui difensori della Madre Natura introdotta dall’intervento del Relatore Speciale ONU per i difensori dell’ambiente Michel Forst, ed adottato la sua dichiarazione finale “Per un nuovo impegno con la Madre Terra”, contributo politico ai lavori della Cupula dos Povos. > Nella sua dichiarazione il Tribunale afferma che la policrisi attuale ha > origine nei sistemi economici, politici, i e sociali determinati dalla > capitalismo, orientato alla crescita, oltre che al patriarcato, il razzismo e > l’antropocentrismo. Chiede che l’Amazzonia venga riconosciuta come soggetto di > diritto in base alla recente opinione consultiva della Corte Interamericana > dei Diritti Umani che per la prima volta riconosce i diritti intrinseci della > Natura. Questo però non basta, sarà urgente infatti porre fine all’estrazione di minerali e combustibili fossili dal suo sottosuolo oltre a rigettare false soluzioni alla crisi climatica quali il carbon trading o altre forme di “mercantilizzazione” della natura, o forme di “transizione verde” che vengono imposte a discapito dei diritti della Natura e dei popoli. Il Tribunale annuncia poi l’intenzione di tenere una sessione specifica su petrolio in Amazzonia proprio in concomitanza con il FOSPA in Ecuador, e riconosce il ruolo chiave delle comunità e dei difensori e difensore della Madre Terra, esortando la comunità internazionale a “riparare” ai danni causati da decenni di estrattivismo. Nel corso della Cupula dos Povos si sono tenuti altri Tribunali etici o di opinione, uno contro l’ecogenocidio convocato da movimenti di base brasiliani, confluiti nell’inizativa parallela della COP do Povo, altri due sul tema della transizione giusta ed il razzismo ambientale, e l’impatto delle imprese minerarie sui diritti dei popoli nello stato di Parà svoltosi in una zona periferica di Belem. Il Tribunale sulla transizione giusta promosso da ActionAid Brasile, ed ispirato alla sessione sul Cerrado del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP), ha analizzato vari casi portati alla sua attenzione da comunità di donne “quilomboas”, (popolazioni afrodiscendenti) relative alla contaminazione causata dalle imprese minerarie, o dall’imposizione di megaimpianti eolici “made in France” per la produzione di idrogeno verde da esportare in Europa, in particolare nello stato di Cearà, esempio evidente di come il Green New Deal europeo contribuisce a perpetuare ingiustizie storiche nei confronti di territori sacrificabili allo sviluppo, verde o marrone che sia. Altro caso presentato da comunità “quilomboas” di Belém era relativo agli impatti provocati dai lavori per la preparazione delle infrastrutture necessarie per ospitare le decine di migliaia di delegati alla COP30. Tra questi l’inquinamento provocato da infrastrutture fognarie che scaricano reflui nei quartieri periferici di Belém, oppure un’operazione in puro stile greenwashing, con la piantumazione di alberi per creare una foresta ai margini dell’aeroporto di Belém e che invece non è stata mai ultimata lasciandosi dietro gravi danni ambientali per le popolazioni afrodiscendenti. > Uno dei leitmotiv delle mobilitazioni a Belém è stato proprio la forte > presenza di popoli indigeni e afrodiscendenti, “invisibili” al potere, ed alle > istituzioni e che a Belém hanno preso parola per denunciare le loro condizioni > di vita inique. Per molti popoli indigeni brasiliani e quilomboas Belém ha > forse rappresentato l’ultima opportunità di visibilità e di amplificazione > delle proprie richieste a fronte del rischio di un ritorno delle destre al > potere. E per questo è stato necessario alzare il livello delle mobilitazioni, con ben due irruzioni all’interno della zona “blu” quella dove si svolgono i negoziati ufficiali ben distante in termini topografici e politici dalla Cupula dos Povos. Proprio all’indomani dell’ultima azione di protesta del popolo Mundurukù, Sonia Guajajara annunciava la decisione di demarcare quelle terre, ed il lancio di una iniziativa intergovernamentale di 15 paesi, la prima in assoluto nel suo genere, per la demarcazione ed il riconoscimento dei diritti territoriali di popoli indigeni e comunità locali ed afrodiscendenti, e la protezione delle foreste. Dieci saranno quindi le terre indigene demarcate in Brasile, su un totale di 63 milioni di ettari che il governo intende regolalizzare, 59 milioni dei quali per i popoli indigeni e 4 per le comunità quilomboas. Colombia e Congo hanno annunciato iniziative simili. di Rosa Jijon L’appello alla demarcazione delle terre indigene era stato ripreso anche nella dichiarazione finale della Cupula dos Povos nella quale si chiedono anche il riconoscimento del ruolo centrale delle conoscenze ancestrali, la riforma agraria e la promozione dell’agroecologia, il contrasto a forme di razzismo ambientale, si condanna il genocidio del popolo palestinese e si chiede che le spese militari vengano destinate al recupero e risarcimento del debito ecologico causato dai disastri climatici e dall’estrattivismo fossile. La dichiarazione della Cupula sostiene la richiesta di nonproliferazione fossile ed una transizione giusta, sovrana e popolare fatta dai popoli e per i popoli, respingendo ogni forma di “falsa soluzione di mercato”. Tra queste il programma TFFF (Tropical Forests Forever Fund) un fondo promosso dal governo brasiliano con la leadership della Banca Mondiale che dovrebbe convogliare capitali pubblici e privati per 4 miliardi di dollari l’anno alla protezione delle foreste. > Il rischio, secondo le decine di organizzazioni che hanno firmato una > dichiarazione congiunta al riguardo, è che questo programma possa offrire alle > imprese l’ennesima occasione di greenwashing, oltre a non affrontare alla > radice le cause della deforestazione senza mettere al centro i diritti dei > popoli delle foreste. Temi questi che hanno caratterizzato anche il viaggio della Flotilla Amazzonica Yaku Mama che, partita dall’Ecuador, è arrivata a Belém dopo tremila kilometri di navigazione , richiamando alla memoria la storica “navigazione” della Senna da parte di una flotilla indigena in occasione della COP di Parigi di 15 anni fa. Il messaggio era e resta uno: è il momento di tracciare una linea rossa, la fine dell’economia fossile e del capitalismo estrattivista. Belém dimostra che da allora i movimenti sono cresciuti, si sono consolidati, e offrono alternative concrete e praticabili e sopratutto quanto mai urgenti, come si legge nella diachiazione di Belém del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura, per noi umani e per tutto il vivente. La copertina è di Rosa Jijon SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo COP30 a Belém: lotte indigene tra estrattivismo ed emergenza climatica proviene da DINAMOpress.
La COP30 espelle la delegazione di Israele
La delegazione israeliana è stata espulsa dall’assemblea della COP30. Le proteste di fronte alla sede di Belem in Brasile e il boicottaggio espresso dalla maggioranza delle delegazioni hanno cacciato i rappresentanti del genocidio a Gaza. La notizia è stata censurata dalla stampa scorta mediatica di Netanyahu. La Commissione Onu per […] L'articolo La COP30 espelle la delegazione di Israele su Contropiano.
Cop30, tra le proteste indigene
Martedì, contestualmente alla conferenza COP30 (30ª Conferenza delle Parti sulla Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) che sta avendo luogo in questi giorni a Belém in Brasile, è scoppiata una nutrita protesta da parte di comunità indigene e attivisti per il clima, che ha visto dozzine di manifestanti – […] L'articolo Cop30, tra le proteste indigene su Contropiano.
BRASILE: I POPOLI INDIGENI SBARCANO ALLA COP30, “L’UNICA RISPOSTA ALL’EMERGENZA CLIMATICA SIAMO NOI”
Prosegue a Belem, capitale dello stato brasiliano del Parà, la Cop30, la trentesima conferenza dell’Onu sul clima. Almeno 5 mila rappresentanti dei popoli amazzonici sono sbarcati in città in quella che è stata definita “la barqueata dos povos”: in migliaia hanno navigato per settimane a bordo di circa 300 imbarcazioni. Erano partiti dal cuore dell’Amazzonia, dal Perù alla Colombia all’Ecuador, in alcuni casi percorrendo anche 3 mila chilometri, per arrivare al cospetto di potenti, delegati e leader mondiali riuniti alla Cop30. “L’Amazzonia non è dei ricchi, nessuno tocchi la nostra terra” hanno detto gli indigeni, dando il via al parallelo “Vertice dei Popoli” iniziato in queste ore e che vuole denunciare lo sfruttamento dei fiumi amazzonici e l’impatto dell’espansione del settore agricolo sulla foresta. L’intervento ai nostri microfoni di Antonio Lupo, membro del direttivo del Comitato Amigos Movimento Sin Terra Italia e presidente di ISDE Liguria, medici per l’ambiente. Ascolta o scarica
CLIMA: AL VIA LA COP30 IN BRASILE. LULA: “INFLIGGIAMO UN’ALTRA SCONFITTA AI NEGAZIONISTI”
Al via a Belem, in Brasile, i lavori della trentesima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. A inaugurare la Cop30 è il discorso del presidente brasiliano Lula da Silva: “controllano gli algoritmi, seminano odio, diffondono paura, attaccano le istituzioni, la scienza e le università. È il momento di infliggere una nuova sconfitta ai negazionisti”, ha dichiarato Lula con riferimento a coloro che negano l’esistenza della crisi climatica. Nel suo discorso inaugurale Lula ha lanciato anche altri messaggi significativi, in particolare agli assenti illustri, tra i quali Trump, Netanyahu e Meloni: “se quanti fanno la guerra fossero qui a questa Cop, si renderebbero conto che è molto più economico investire 1,3 miliardi per porre fine al problema climatico piuttosto che spendere 2,7 trilioni di dollari per fare la guerra”. Riguardo alla sede scelta per la conferenza, il presidente brasiliano ha spiegato che “portare la Cop nel cuore dell’Amazzonia è stato un compito arduo, ma necessario: l’Amazzonia non è un’entità astratta. Chi vede la foresta solo dall’alto non sa cosa succede alla sua ombra. Il bioma più diversificato della terra è la casa di oltre 50 milioni di persone”. Infine, la proposta: “per andare avanti è necessaria una governance globale più solida, in grado di garantire che le parole si traducano in azioni. Creare un Consiglio per il clima, collegato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è un modo per dare a questa sfida l’importanza politica che merita”. Sulle frequenze di Radio Onda d’Urto la corrispondenza e il commento di Ferdinando Cotugno, giornalista inviato alla Cop30 di Belem, in Brasile, per il quotidiano “Domani”. Ascolta o scarica.
Brasile: processo a Bolsonaro, rischi amnistia e mobilitazioni popolari
Insieme ad Andrea Cegna parliamo della storica condanna a 27 anni per tentato golpe dell’ex presidente Bolsonaro. Sul fronte interno, però, il parlamento brasiliano ha nel frattempo dato segni di voler avviare un provvedimento di amnistia. Anche Trump preme sul paese, definendo “sorprendente” la condanna e assicurando vicinanza al suo amico Bolsonaro. Ma il 21 […]
Brasile. Condannato l’ex presidente Bolsonaro, gli USA minacciano ritorsioni
L’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro è stato condannato ieri per il tentato colpo di Stato dell’8 gennaio 2023, quando migliaia di bolsonaristi – una settimana dopo l’insediamento di Lula – presero d’assalto le sedi dei tre rami del governo. Con 4 voti contro 1, cinque giudici hanno deciso di condannare il leader dell’estrema destra brasiliana, accusato di […] L'articolo Brasile. Condannato l’ex presidente Bolsonaro, gli USA minacciano ritorsioni su Contropiano.
La violenza e le figure del lavoro domestico dal Sudafrica al Brasile (e da noi)
Mentre il mondo intero ha dato molta attenzione al presunto genocidio bianco in Sudafrica, poco o quasi nulla viene detto della violenza contro le donne in Sudafrica. Una violenza che si manifesta non solo in atti di violenza fisica confermati dai più alti indici di stupro registrati nel mondo, ma anche da una violenza naturalizzata. Se la violenza fisica contro le donne, a volte, riceve forti denunce – come nel 2017, quando durante Afro Punk Joburg Thandiswa Mazwai, esibendosi con la band BLK JKS, prese il microfono per dichiarare «Men are trash» (gli uomini sono spazzatura), riferendosi alla tragica morte di Karabo Mokoena, scomparsa e poi ritrovata uccisa e bruciata dal suo compagno, dando così vita a una controversa campagna – altri tipi di violenza restano invece taciuti. > Se dal 2019, sulle buste di plastica di uno dei supermercati più popolari del > paese, si legge “END Gender-Based Violence” (fermiamo la violenza contro le > donne), nelle case della maggior parte dell’élite sudafricana — sia essa > bianca o nera — si consuma quotidianamente una “soft violence”. Secondo Amy Jo Murray e Kevin Durrheim, University of Johannesburg, in Sudafrica le lavoratrici domestiche rappresentano circa il 25% del settore informale non agricolo. Si tratta di donne nere, con bassa istruzione, che si prendono cura delle case e dei figli delle famiglie benestanti. È una scena familiare anche in Brasile. Ma se in Brasile ci sono stati progressi normativi significativi, in Sudafrica la maggior parte di esse continua a lavorare – appunto – in nero. Oggi la media dei salari è di circa 600 rand (meno di 30 euro al giorno), incluso il trasporto, un altro aspetto importante parlando della subalternità di queste persone. In entrambi i Paesi, queste donne devono percorrere lunghe distanze dalle periferie povere per soddisfare i bisogni dei suoi “padroni” che vivono, invece, nelle zone ricche della città. In Brasile “as patroas” è sempre al femminile, riflettendo una visione patriarcale che riserva alla donna qualsiasi funzione domestica. In Sudafrica, il tragitto è spesso insicuro: vecchi kombi non revisionate e sovraffollate. Siamo lontano dalle denunce per contatti fisici molesti in mezzi pubblici. La logistica del trasporto è rappresentativa della disumanità delle nostre società. Più povero sei, più lontano vivi, più paghi per spostarti per lavorare, meno tempo hai per vivere. Che sia riposare o goderti la vita. A Rio, durante il governo Bolsonaro, si sono messi in atto diversi provvedimenti per espellere i giovani dalle aree di divertimento della zona sud, riducendo le linee o, cosa che avviene anche a Cape Town, sospendendo il servizio pubblico diretto al mare nel weekend. Parlare di “trasporto pubblico” in Sudafrica è, comunque, irreale. La fine dell’apartheid nel 1994 ha portato al superamento – sulla carta – di differenze razziali e la garanzia di uguali diritti per tutte le cittadine e tutti i cittadini, anche sul lavoro. Ci sono stati miglioramenti nel salario minimo e l’introduzione di contratti. Questi progressi legislativi portarono ad alcuni miglioramenti nel salario minimo e all’uso di contratti di lavoro per i lavoratori domestici. Tuttavia pratiche radicate in una mentalità razzista, classista e paternalista permangono: straordinari non pagati, compensi in natura (es. alloggio). La questione dell’alloggio è un altro aspetto disumano. Mentre alle domestiche brasiliane viene riservata una stanza della dimensione di un letto singolo, localizzato sul retro della cucina, il “quarto de empregada”, lo stesso non esiste in Sudafrica dove le domestiche non entrano nello spazio della casa. A Sea Point, ricco quartiere di Cape Town, ogni palazzo ha un portinaio. Alcuni non sono visibili come nei palazzi di Copacabana a Rio, dove passano giorni e notti seduti all’ingresso. Essendosi i ricchi spostati dalle ville agli appartamenti, la donna continua nella sua funzione di cameriera, mentre l’uomo da giardiniere è stato adattato a tuttofare. Questi uomini vivono in microstanze, situate nei garage o solai o, se fortunati, in aree esterne. Comunque gli ingressi alle loro “celle dormitorio” sono spesso posizionate a lato alla raccolta dei rifiuti. Vengono però salutati affettuosamente per nome, con annesso sorriso, dai condomini. > In entrambi i Paesi, il modo in cui la classe media e ricca gestisce queste > relazioni lavorative è grottesco. I datori di lavoro sensibili agli stereotipi > razziali – forse per coscienza o per vergogna – cercano di mascherare il tutto > come una relazione neutrale. Tuttavia, ciò che li accomuna a chi invece non vede nulla di strano nella divisione di classe tra padrone/servo è l’idea condivisa che “la collaboratrice domestica è come parte della famiglia”. E in un certo senso lo è: passa più tempo con i figli dei datori di lavoro che con i propri. Nei voli Brasile-Italia, non è raro vedere queste donne (non bianche) accudire neonati le cui madri (bianche) non sanno come placarne il pianto. Le nannies, as babás, spesso poi dimenticate da questi bambini una volta raggiunta l’adolescenza. È necessario che ogni attività lavorativa sia disciplinata da regole oggettive e rispettose della dignità di ognuno. Senza addentrarci nell’analisi del lavoro domestico e riproduttivo (Federici, 2014) la relazione ambigua che regola il lavoro di cura delle donne a servizio della classe media e ricca sudafricana e brasiliana perpetua relazioni perverse basate su reciproche pretese che esulano normali rapporti di lavoro. Ad esempio, se da una parte la datrice di lavoro normalizza che la dipendente sia a sua disposizione (tempo extra e servizio), dall’altra la dipendente normalizza che la datrice di lavoro le garantisca (denaro extra e accesso) in caso di emergenza. Si instaura così un equilibrio implicito, non regolato da norme oggettive ma da aspettative basate su due opposte posizioni di potere: superiorità e subordinazione. Questa ambiguità consente pratiche di lavoro potenzialmente ingiuste, di sfruttamento e di paternalismo, sotto la maschera di relazioni “familiari”. Nel suo libro Maids and Madams (1980) la sociologa sudafricana Jacklyn Cock descrive il lavoro domestico come riflesso delle strutture oppressive dell’apartheid. Le gerarchie razziali erano visibili e brutali. Le lavoratrici domestiche affrontavano condizioni prossime alla schiavitù con i datori di lavoro che esercitavano un potere incontrollato sulle loro vite, rafforzando il ruolo subordinato della “maid” rispetto alla “madam”. Il lavoro domestico rafforzava una rigida gerarchia razziale, delimitando chiaramente i ruoli e lo status della “madam/signora” e della “maid/cameriera”. > Se la figura della domestica è nella società Italiana meno naturalizzata > rispetto a società con una diretta eredità schiavista (Brasile) e razzialmente > legalmente segregata (Sudafrica), forse quanto detto finora può aver > inorridito. I soliti selvaggi. Cosa succede se trasferiamo tutte le osservazioni e la conseguente indignazione alla figura di lavoro servile comune in Italia: la badante? Il nome fa inorridire tanto quanto as patroas, as nanies, as babás. Donne spesso giovani, immigrate, contrattate dalle famiglie per svolgere lavori domestici e mansioni infermieristiche nella cura di persone anziane o disabili a domicilio colmando le carenze dell’assistenza pubblica. Sono figure fondamentali per molte «famiglie italiane», praticamente parte della “famiglia”, si dice. Qualsiasi osservazione riguardo questa figura professionale riceve come risposta: «sono ben pagate». Come le donne di cui prima si parlava, spesso hanno un livello di istruzione basso, o in caso contrario non hanno avuto possibilità di inserimento lavorativo nei luoghi di origine. A volte lasciano Paesi in conflitto, spesso lasciano i loro figli e le loro figlie, sempre lasciano le loro famiglie. A volte sono più giovani delle figlie delle persone che le impiegano. Spesso sono celibi, e guarda caso finiscono per sposarsi con qualche uomo “parte o vicino alla famiglia”. In cambio di una casa e un salario, dànno disponibilità quasi che totale. Infatti in quanto domiciliare, significa includere la notte. Spesso si prendono cura di anziani e malati in condizioni estreme, spesso li accompagnano alla morte. Mentre abbondano saggi e analisi su queste condizioni, il lavoro di domestiche, portinai, e badanti continua a basarsi su un disequilibrio tra bisogno e potere. L’immagine di copertina è di International Domestic Workers Federation (flickr). Nella foto un gruppo di lavoratrici del South African Domestic Service and Allied Workers Union che manifestano di fronte all’Alta corte di Pretoria (Sud Africa) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo La violenza e le figure del lavoro domestico dal Sudafrica al Brasile (e da noi) proviene da DINAMOpress.