Non abbiamo imparato nulla dal genocidio di Srebrenica
Srebrenica dall’inizio del conflitto si era trasformata in un’enclave a
maggioranza bosniaco-musulmana sotto il comando dell’Esercito della Repubblica
della Bosnia-Erzegovina. Molti civili in fuga dalle atrocità della guerra si
rifugiarono in questa piccola cittadina. Data la crisi umanitaria, il 16 aprile
del 1993 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU dichiara la città “zona sicura” e
smilitarizza i Caschi blu dispiegati nell’area (UNPROFOR). A inizio luglio
inizia l’offensiva delle truppe serbo-bosniache, che entrano nella città l’11
luglio e in due giorni, separata la popolazione maschile e femminile, sotto gli
occhi inermi delle truppe ONU, inizia il massacro.
> Più di 8mila uomini di ogni età vengono sterminati e gettati in fosse comuni,
> i corpi poi saranno riesumati per spostarli in altre fosse secondarie e
> terziarie, per farne perdere le tracce.
Ancora oggi non sono stati ritrovati tutti i resti, ma la ricerca non si ferma.
La natura genocida dell’atto è stata confermata dal Tribunale Penale
Internazionale per l’Ex-Jugoslavia (ICTY) e dalla Corte di Giustizia
Internazionale (ICJ), che hanno giudicato colpevoli 16 persone, tra cui Ratko
Mladić. L’ICTY è stato anche il primo tribunale internazionale ad adottare una
sentenza di condanna qualificando lo stupro come reato contro l’umanità.
A maggio del 2024, su iniziativa di Germania e Ruanda, è stata votata una
mozione che istituisce l’11 luglio come “Giornata internazionale di riflessione
e commemorazione del genocidio di Srebrenica”. La risoluzione, che condanna la
negazione del genocidio e la glorificazione di chi lo ha commesso, è stata
votata con 84 voti favorevoli, 19 contrari e 68 astensioni; tra i contrari
Serbia, Russia e Ungheria. In Serbia e nella Repubblica Srpska (l’unità
amministrativa a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina) è stata svolta una
massiccia campagna contro la risoluzione sotto lo slogan “noi non siamo un
popolo genocida”. Il Presidente serbo Vučić al potere dal 2017 – ma al centro
della vita politica del paese dal 2012, prima come Ministro della difesa poi
come Primo Ministro – ha fatto leva sui sentimenti nazionalisti e revanscisti
per supportare la sua Presidenza già scricchiolante. In quei mesi, al centro di
Belgrado, è comparsa una scritta: «L’unico genocidio commesso nei Balcani è
stato quello contro i Serbi».
Belgrado, luglio 2024 – foto dell’autrice
Israele quel giorno non si è presentato per evitare di dover votare una mozione
che riguardasse il riconoscimento di un altro genocidio oltre l’Olocausto, come
scrive Fracesco Strazzari sul Il Manifesto: «I rapporti tra Israele e Serbia
sono più che amichevoli, come testimoniato dalla recente visita della portavoce
del Parlamento di Belgrado a Tel Aviv. Le forniture di armi alla Serbia sono
definite da Tel Aviv come episodi occasionali. Un’inchiesta di BIRN e “Haaretz”
ha appurato che, nel pieno dell’offensiva su Gaza, le vendite di armi serbe a
Israele sono cresciute di 30 volte (da 1,6 a 42,3 milioni di dollari) anche
grazie a uno spin doctor israeliano, incaricato dell’immagine del
contestatissimo presidente Vučić».
> Infatti da un anno, il Presidente di destra Vučić è al centro delle
> contestazioni del movimento studentesco che ora chiedono a gran voce le sue
> dimissioni e accusano tutto il sistema politico serbo di corruzione e
> clientelismo.
E nonostante nell’ultima enorme manifestazione del 28 giugno ci siano stati dei
discorsi nazionalisti dal palco della manifestazione, come scrive Aleksandar
Ivković su European Western Balkans: «dall’inizio delle proteste si sono
registrati sviluppi incoraggianti nelle relazioni interetniche. L’integrazione
degli studenti bosniaci di Novi Pazar nel movimento è stata ampiamente
considerata come un importante passo avanti nelle relazioni serbo-bosniache. La
protesta studentesca tenutasi ad aprile nella città di Novi Pazar, a maggioranza
bosniaca, è stata ricca di simbolismi senza precedenti, tra cui studenti con
l’hijab che portavano bandiere serbe».
Ma nel frattempo le tensioni in Bosnia non sono diminuite, a febbraio di
quest’anno il Presidente della Repubblica Srpska Milorad Dodik ha promulgato
leggi che di fatto annunciano la separazione della parte serbo-bosniaca dalla
Bosnia-Erzegovina. Per questo è stato condannato per attentato all’ordine
costituzionale, ma le autorità non hanno proceduto all’arresto e la situazione
rimane in stallo con tutte le istituzioni federali bloccate. Questa nuova crisi
istituzionale mostra tutti i limiti di una federazione costruita a tavolino su
base etnico-comunitaria con gli accordi internazionali di Dayton.
> La crisi è certo alimentata dagli echi della guerra in Ucraina, che sta
> riaprendo le ferite mai guarite del crollo del socialismo reale, del
> saccheggio dei beni pubblici dei aesi socialisti, della successiva crisi
> economica, dell’emigrazione e della costruzione di sistemi di democrazia
> rappresentativa clientelari. E se la Bosnia rischia di scoppiare, non è da
> meno la situazione in Kosovo.
A trent’anni dalla fine della guerra, non esiste una lettura comune di cosa sia
accaduto tra Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e
Macedonia. Come spiega Tatjana Đorđević su Valigia Blu, i libri scolastici non
hanno una storia condivisa: ma «tre storie diverse vengono insegnate ai ragazzi,
a seconda della loro nazionalità, serba, bosniaca o croata».
La guerra nell’ex-Jugoslavia rimane un conflitto dimenticato dagli altri Stati
europei, basti pensare che all’inizio della guerra in Ucraina molti giornali
italiani hanno titolato che finiva l’era di pace in Europa sancita con la fine
del secondo conflitto mondiale, come se a pochi chilometri dalla nostre coste
negli anni Novanta non fosse in corso una guerra sanguinosa. Si distoglie ancora
lo sguardo dalle responsabilità europee e statunitensi in quel conflitto, mentre
il genocidio del popolo palestinese è in live-streaming su nostri telefoni.
Sono state le madri, le sorelle, le donne vittime di violenze e stupri, a
raccogliere i pezzi e a tenere viva la memoria. Munira Subašić,
dell’associazione “Madri di Srebrenica”, ha parlato all’Assemblea Generale delle
Nazioni: «È difficile vivere con il dolore nell’anima, ascoltare la negazione
del genocidio. I nostri figli sono stati uccisi perché avevano nomi diversi,
erano musulmani. L’Europa e il mondo sono rimasti in silenzio a guardare. Le
madri non hanno aspettato, si sono alzate per ottenere giustizia […] e hanno
cresciuto i figli, rimasti orfani, insegnando a non odiare e non cercare
vendetta […]. Il mondo e l’Europa sono profondamente ingiusti, specialmente nei
confronti delle persone musulmane in Bosnia-Erzegovina. Per trent’anni non hanno
imparato niente e non so proprio quale tipo di messaggio possono dare alla
Palestina o all’Ucraina» (discorso dal minuto 27:12 al 35:30).
E oggi a trent’anni dalla guerra civile e dal genocidio in Bosnia, dopo il
completo fallimento delle istituzioni nazionali e internazionali, possiamo
sperare nelle madri di Srebrenica, nella loro ricerca di giustizia e tessitura
della memoria, e nelle strade in rivolta della Serbia. Forse solo dal loro
incontro si potrà creare una storia condivisa e un futuro più giusto per tutta
la regione.
L’immagine di copertina è Jelle Visser, il Memoriale del genocidio a Potočari,
via Flickr
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