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Gli italiani in guerra. Indagine sulla percezione dei conflitti e sul riarmo nella società italiana
Pacifisti, disertori e mercenari stranieri. Secondo gli italiani le probabilità che l’Italia sarà coinvolta in un conflitto entro i prossimi cinque anni sono salite a quota 31 su una scala da 0 a 100. Se scoppiasse la guerra, l’Italia però non correrebbe alle armi con ardore patriottico. Le persone anagraficamente più interessate, tra i 18 e i 45 anni, sarebbero in larghissima maggioranza riluttanti a rispondere alla chiamata delle Forze armate. Solo il 16% si dichiara pronto a combattere (tra gli uomini la percentuale sale al 21% e tra le donne scende al 12%). Il 39% invece protesterebbe, in quanto pacifista. Il 26% preferirebbe appaltare le operazioni militari e la difesa del territorio a soldati di professione e a contingenti di mercenari stranieri, da reclutare e stipendiare. Il 19% diserterebbe: si darebbe alla fuga pur di evitare il fronte. Per il 65% degli italiani non siamo un popolo di guerrieri e saremmo travolti dal nemico, se non potessimo contare sull’aiuto degli alleati. Nato o sistema di difesa europeo? Se le alleanze saranno decisive per la nostra salvezza, la Nato rimane una pietra angolare della politica di difesa: poco meno della metà degli italiani (il 49%) è favorevole al rafforzamento del patto atlantico. Il 18% crede invece che si dovrebbero costruire alleanze a geometria variabile, l’8% ritiene che l’Italia debba uscire dalla Nato e fare affidamento esclusivamente sulle proprie forze, ma il 25% non ha una chiara opinione in proposito. C’è però anche un’altra strada percorribile. Il 58% degli italiani è favorevole a un sistema di difesa europeo integrato, con un esercito unico, armamenti comuni e un comando unificato. Il 22% è invece contrario, convinto che non si debba né rafforzare il nostro esercito, né unirci alle forze degli altri Paesi europei: sono gli oppositori a qualsiasi programma di riarmo. Ma qual è la politica preferibile per l’Italia? La neutralità. Il riarmo resta un dilemma, le alleanze sono strategiche, ma la politica preferibile per l’Italia è la neutralità. Riguardo alla guerra russo-ucraina, il 33% degli italiani ritiene giusto schierarsi a difesa di Kiev, solo il 5% sta dalla parte di Mosca, ma la maggioranza assoluta (il 62%) è convinta che il nostro Paese dovrebbe restare neutrale. Riguardo al conflitto in corso in Medio Oriente, il 21% è a favore dei palestinesi, solo il 9% si schiera con Israele, mentre la grande maggioranza (il 70%) auspica una posizione neutrale dell’Italia. Riguardo alle dichiarate mire espansionistiche americane, nell’ipotesi di una occupazione della Groenlandia, solo il 4% degli italiani starebbe dalla parte di Washington, il 38% sarebbe favorevole alla costruzione di un’alleanza internazionale per difendere l’isola e la maggioranza (il 58%) preferirebbe ancora una volta che l’Italia mantenesse una posizione di neutralità. Eppure, in questi anni l’Italia non è stata assente nei tanti teatri di guerra: dopo il 1989, l’Italia è stata presente con proprie truppe in 8 diversi teatri di guerra. “In più, sottolinea il CENSIS, la partecipazione a operazioni di peacekeeping sotto l’egida delle Nazioni Unite è stata intensa. Lo scorso anno l’Italia era prima tra tutti i Paesi occidentali per numerosità del personale impegnato in missioni internazionali di pace: 1.783 militari. Il prezzo pagato in termini di vite umane è stato alto. Dal 1989, i caduti italiani sono stati 146: 53 nella missione Isaf (Afghanistan), 35 nella missione Antica Babilonia (Iraq), 7 nella missione Ibis (Somalia) e 7 anche nella missione Kfor (Kosovo)”. Intanto, aumenta sempre più la spesa militare: nel 2024 la spesa per la difesa dell’Italia si è attestata a 35,6 miliardi di dollari, corrispondenti all’1,5% del Pil. L’incremento della spesa militare negli ultimi dieci anni è stato considerevole: +46,0% in termini reali. Ma il valore per abitante in Italia è pari a 586 dollari a fronte di 2.440 dollari pro capite negli Stati Uniti (per complessivi 935 miliardi di dollari, pari al 3,2% del Pil), 2.095 in Norvegia, 1.725 in Danimarca, 1.376 in Svezia, 1.291 in Olanda, 1.214 in Finlandia, 1.138 nel Regno Unito, 1.096 in Germania, 926 in Francia, 807 in Polonia. Anche la Grecia presenta un valore superiore all’Italia: 686 dollari per abitante e il 3,0% del Pil. Tra gli Stati europei, si collocano ai primi posti la Polonia (con una spesa militare pari al 4,1% del Pil), i Paesi baltici (l’Estonia e la Lettonia al 3,4%, la Lituania al 3,1%) e i Paesi scandinavi (la Finlandia e la Svezia al 2,3%, la Norvegia al 2,2%). All’ultimo posto tra tutti i Paesi Nato c’è la Spagna, con l’1,2% del Pil. Il personale militare italiano ammonta a 171.000 unità. Siamo preceduti soltanto da Stati Uniti (1,3 milioni), Turchia (481.000), Polonia (216.000), Francia (205.000) e Germania (186.000). Precediamo Regno Unito (138.000) e Spagna (117.000). Nel mondo le testate nucleari in dotazione a 9 Paesi sono complessivamente 12.241, nonostante la successione nel tempo di diversi trattati di non proliferazione e lo smantellamento parziale degli arsenali russi e americani (il picco si toccò nel 1986, con 70.374 bombe atomiche disponibili). Oggi la Federazione russa ne possiede 5.459, gli Stati Uniti 5.177, la Cina 600, la Francia 290, il Regno Unito 225, l’India 180, il Pakistan 170, Israele 90 e la Corea del Nord 50. Qui il Report del CENSIS: Gli italiani in guerra. Indagine sulla percezione dei conflitti e sul riarmo nella società italiana: https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/Gli%20italiani%20in%20guerra.pdf. Giovanni Caprio
Francia, Germania, aumento delle spese militari
Gianni Alioti è uno dei maggiori esperti italiani delle produzioni di armamenti, e di lui su Pressenza abbiamo pubblicato varie documentate riflessioni. Nei giorni scorsi è stato pubblicato un suo approfondimento di cui vi segnaliamo alcuni passaggi. Il testo completo è leggibile sul sito dell’associazione ‘La porta di vetro’: https://www.laportadivetro.com/post/l-editoriale-della-domenica-da-uno-scoperto-militarismo-agli-interessi-delle-multinazionali “Il presidente francese Emmanuel Macron nel tradizionale discorso alle Forze armate alla vigilia della festa nazionale del 14 luglio ha confermato (nonostante il debito vertiginoso) che il livello delle spese militari sarà elevato nel 2027 a 64 miliardi di euro, il doppio del bilancio di cui le forze armate francesi disponevano nel 2017, al suo arrivo all’Eliseo. Le spese militari in Francia previste per il 2025 superano già i 50 miliardi di euro. Non è da meno il Cancelliere tedesco Friedrich Merz. Nel giorno del suo insediamento ha affermato che la massima priorità del suo Governo era quella di costruire l’esercito più potente d’Europa. Promessa non inedita per la Germania… È stato di parola. A giugno di quest’anno il Governo tedesco ha approvato sia il bilancio 2025, portando le spese militari a 94 miliardi di euro pari al 2,4% del PIL, sia il piano finanziario a medio termine per circa 500 miliardi di euro, prevedendo un forte aumento del debito netto tra 2025 e 2029, allo scopo di sostenere il potenziamento militare della Germania. In soldoni un incremento della spesa militare del 70% entro il 2029, per portarla a 162 miliardi di euro l’anno (3,5% del PIL rispetto a 1,6% del 2024). Non semplice da far digerire a un’opinione pubblica, cosciente dei corrispettivi tagli a sanità, istruzione, welfare. Che il Cancelliere Merz si muova, al netto della retorica, fuori da una reale prospettiva di difesa comune europea (come del resto fanno anche gli altri leader dei principali paesi), lo dimostra il fatto che ha firmato a Londra un trattato bilaterale con il premier britannico Keir Starmer. Trattato che prevede una clausola di assistenza reciproca in caso di minaccia. Inoltre, va detto che il programma di riarmo tedesco, alla guida di quello europeo, è sostenuto da un allineamento politico particolarmente inquietante. Coinvolge, oltre al Cancelliere, anche la massima carica dello Stato tedesco e la presidente (tedesca) della Commissione europea. E, aggiungo non senza malizia, anche l’amministratore delegato della multinazionale tedesca Rheinmetall, cioè l’azienda più dinamica, sia nella riorganizzazione del complesso militare-industriale in Europa (Ucraina compresa), sia nell’accaparrarsi le più grandi commesse di armamenti, come quella di 23 miliardi di euro dell’Esercito Italiano per la produzione, in joint venture con Leonardo, di 280 carri armati e 1.050 veicoli corazzati. In effetti, non solo le ingenti risorse dei singoli Stati spese in nuovi armamenti hanno moltiplicato il portafoglio ordini e i ricavi dell’azienda, ma hanno “garantito” la sua capitalizzazione finanziaria in Borsa. Con la guerra ad alta intensità in Ucraina, il valore di un’azione Rheinmetall è schizzato dai 90 euro del gennaio 2022 ai 1.871 euro del 14 luglio 2025. Un incremento che sfiora il 2.000%. Un’evidente certificazione di quanto scritto da Maurizio Boni sulla rivista Analisi Difesa: “[…] c’è anche il sospetto che il nuovo militarismo del Ventunesimo secolo sia alimentato, oltre che da indubbie radici culturali, anche da un fattore molto più potente dell’ideologia: gli interessi delle multinazionali che vedono nel militarismo, e del conseguente riarmo, non solo della Germania, un’occasione irripetibile per accrescere i propri profitti. Il fatto che il Cancelliere Merz sia stato il Presidente del Consiglio di Sorveglianza di BlackRock Deutschland, la filiale tedesca del colosso statunitense, una delle più grandi società di gestione patrimoniale del mondo, non ci incoraggia affatto”. E BlackRock non è solo una grande società di investimento con sede a New York, con un patrimonio totale di 10 mila miliardi di dollari (al 31 dicembre 2023), di cui un terzo in Europa. Ma è tra i principali azionisti sia delle 5 big al mondo per fatturato militare (Lockheed Martin, RTX, Northrop Grumman, Boeing e General Dynamics), sia della tedesca Rheinmetall, delle britanniche BAE Systems e Rolls-Royce, dell’italiana Leonardo, della trans-europea Airbus, della ucraina JSC e di altre aziende europee che operano in campo militare. Sulla corsa al riarmo in Europa e la correlazione tra il programma ReArm Europe e obiettivo deciso in ambito NATO di spendere in spese militari + “sicurezza allargata”, ho rilasciato un’intervista a Settimana News, ( di cui alcuni passaggi su https://www.pressenza.com/it/2025/04/il-riarmo-delleuropa-una-intervista-a-gianni-alioti-the-weapon-watch/ . Concludo questo mio punto di vista critico sul riarmo europeo, tra retorica militarista e interessi delle multinazionali del settore, ricordando (per dovere di cronaca), che la politica di riarmo nei paesi UE e in quelli europei della NATO è ripresa nel 2014 (dopo la flessione causata dalla crisi finanziaria globale del 2008-2009). In dieci anni le spese militari sono più che raddoppiate, crescendo esattamente del 121% tra 2014-2024 (fonte Consiglio Europeo). Ciò che cambia, quindi, non è tanto il trend, quanto la narrativa pubblica. Siamo passati, come sostiene Carlo Tombola di The Weapon Watch, dal lungo silenzio mediatico sulla corsa al riarmo iniziata da oltre un decennio alla distorsione del linguaggio durante la pandemia. Fino alla situazione attuale in cui tutto è in funzione della guerra inevitabile. Una narrazione bellicista che pare più funzionale a spostare ingenti risorse pubbliche a interessi privati, piuttosto che alla difesa reale. Redazione Italia
MILITARIZZAZIONE: LA SICILIA SEMPRE PIÙ AL CENTRO DEGLI INTERESSI BELLICI DI STATI UNITI E NATO
“La Sicilia sarà il primo luogo al di fuori degli Stati Uniti dove verranno formati i piloti degli F-35. Così come siamo l’unico Paese al mondo dove vengono assemblati gli F-35, a Cameri”. Lo ha annunciato un gongolante ministro della Difesa, Guido Crosetto, in vista a un’altra base, la sarda Decimomannu. Ma che peso ha una dichiarazione del genere nel contesto geopolitico attuale? Quale il sottotesto e quali le ricadute principali in un territorio già abbondantemente militarizzato? Per fare il punto, occorre guardare non solo alla posizione strategica della Sicilia, ma anche alle potenzialità offerte all’economia di guerra non solo dalla presenza di basi Usa-Nato sul suo territorio, ma anche dall’utilizzzo che questi ultimi stanno già facendo dello spazio aereo di tutto il Mediterraneo orientale, con il bene placido del governo Meloni. “Nei giorni successivi ai primi bombardamenti aerei israeliani in Iran – riporta il 20 giugno sui propri social Antonio Mazzeo, giornalista e attivista antimilitarista –  sempre a largo della costa orientale siciliana sono stati effettuati i rifornimenti in volo per i caccia F-15 ed F-35 inviati da Washington nello scacchiere mediorientale, mentre dalla stazione aereonavale di Sigonella sono decollati i velivoli spia P-8A Poseidon di US Navy per svolgere missioni di intelligence e riconoscimento nelle acque del Mediterraneo orientale a favore delle unità da guerra israeliane. La Sicilia ancora una volta si conferma la piattaforma avanzata USA e NATO nel Mediterraneo”. Proprio per chiedere lo smantellamento delle basi Usa-Nato e la smilitarizzazione di Sigonella: domenica 6 luglio manifestazione a Sigonella “Per la pace e per il disarmo” e contro il genocidio del popolo palestinese. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto, il commento e l’analisi di Antonio Mazzeo, giornalista, scrittore e attivista antimilitarista Ascolta o scarica