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In Sudan l’emorragia non si ferma
Cosa sta succedendo in Sudan? È impossibile rispondere davvero a questa domanda se intesa in termini politici oltre che umanitari, o almeno lo è da una prospettiva europea. C’è chi legge la situazione sudanese come il risultato di scontri etnici ereditati dall’epoca coloniale, chi significa la guerra come frutto di conflitti d’interesse legati alla ricchezza di risorse presenti sul territorio (oro, terre rare, gomma arabica, petrolio) e chi invece vede la crisi umanitaria e politica come figlia di un vuoto di potere emerso durante e dopo la lotta di liberazione dalla dittatura di Omar al-Bashir. Sicuramente tutte queste ipotesi hanno un fondo di verità, tutte sono necessarie ma non sufficienti a spiegare la più grande crisi umanitaria al mondo e i più terribili crimini contro l’umanità della storia recente. Le Forze di supporto rapido (Rsf) sono l’eredità della milizia Janjaweed, che nei primi anni Duemila si è macchiata di crimini di guerra, contro l’umanità e persecuzioni di matrice etnica: nel 2013, infatti, il governo a guida al-Bashir ha formalizzato il gruppo paramilitare delle Rsf organizzando così l’allora formazione “a briglie sciolte” Janjaweed sotto un’autorità più controllabile. Lo stesso Mohamed Dagalo – detto Hemedti, attuale leader delle Rsf – era una figura di spicco tra le loro fila. I gruppi che subivano le violenze dei Janjaweed, come i Masalit e i Fur, sono gli stessi che subiscono le stragi delle Rsf. Inizialmente le Forze di supporto rapido erano incaricate di sopprimere i movimenti di insurrezione ed effettuare operazioni di “controllo dei confini”, incarichi ben presto trasformatisi persecuzione etnica e crimini contro l’umanità, per i quali sono sotto indagine dal 2023 presso la Corte Penale Internazionale, in riferimento alle azioni all’interno del conflitto scoppiato nell’aprile dello stesso anno. Anche le Forze armate sudanesi (Saf, esercito nazionale “regolare”), non sono senza macchia: inizialmente sotto il controllo del governo al-Bashir, di cui erano letteralmente il braccio armato, poi con la guida di Abdel Fattah al-Burhan al fianco dei ribelli e delle Rsf nel suo rovesciamento nel 2019. Dopo la destituzione del dittatore trentennale hanno mantenuto la fragile alleanza con le Rsf, formando un governo di transizione con una componente civile durato solo fino al 2021. > Con un altro colpo di stato hanno assunto un potere di natura militare, ma la > coalizione con la milizia – già di per sé problematica – ha retto solo fino al > 2023: il 15 aprile è scoppiata la guerra civile che ancora oggi devasta il > paese. Qui si comprende qualcosa di quel vuoto di potere, o meglio di quelle > rivendicazioni di potere strabordanti e irriducibili fra loro, di cui sopra. La ricchezza di risorse ha portato questo conflitto a eccedere i confini del Sudan, interessando il Ciad, la Libia, il Sud Sudan e, soprattutto, gli Emirati Arabi. Anche l’Egitto fa buon viso a cattivo gioco con il governo di al-Burhan, basti considerare che il Nilo, prima di raggiungere il territorio egiziano, passa per il Sudan: lì, infatti, confluiscono Nilo bianco e Nilo azzurro. L’attore più controverso rimane Abu Dhabi: da sempre accusato dal governo di Khartoum di foraggiare la guerra sostenendo le Rsf, a cui fornirebbe armi e mercenari (anche internazionali, in particolare colombiani) in cambio di risorse, ha di volta in volta rimandato le accuse al mittente, ma le prove di un coinvolgimento sono ormai schiaccianti. Numerosi rapporti delle Nazioni Unite, un primo datato gennaio 2024, un secondo aprile 2025, dimostrano una catena logistica che dagli Emirati arriva fino a Nyala – capitale del Darfur del Sud sotto il controllo delle Rsf – passando per Ciad orientale, Sud Sudan e Libia. I report indicano un tracciamento di aerei cargo non registrati che, in direzione Am Djarass (aeroporto del Ciad nordorientale), spariscono per qualche ora dai radar all’altezza di Nyala, per poi ricomparire ad Am Djarass. Pur non riuscendo a verificare il contenuto dei voli cargo, la catena logistica è innegabile. Da Nyala si irradia la rete infrastrutturale che raggiunge tutte le roccaforti della milizia, da ultima El Fasher. Da un altro report, questo confidenziale ma pubblicato in esclusiva sul “Guardian“, emerge il ritrovamento di passaporti emiratini sul campo di battaglia, nelle zone dello stato di Khartoum precedentemente controllate dalle Rsf e poi riconquistate dall’esercito. > Lo stesso documento indica che gli Emirati potrebbero aver fornito droni > modificati per lo sgancio di bombe termobariche, artiglieria controversa e con > capacità di distruzione molto maggiori rispetto ad altri tipi di arsenale > dello stesso calibro, testimoniate poi dalla sofferenza e dalla morte dei > sudanesi che ne hanno subito gli effetti. È bene ricordare, a questo proposito, che i bombardamenti non hanno mai risparmiato siti civili: ne sono un esempio gli attacchi, perpetrati anche nei primi mesi di quest’anno, sui mercati di El Fasher e Omdurman, che hanno provocato decine di morti e centinaia di feriti. El Fasher, poi, è stata teatro della più grande strage degli ultimi anni in Sudan: la sua capitolazione a fine ottobre, per mano delle Rsf, ha comportato migliaia di morti e dispersi, decine di migliaia di feriti, centinaia di migliaia di sfollati. Le maggiori organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch e Amnesty International, invocano un’indagine per crimini contro l’umanità sulle azioni delle Rsf a El Fasher, che hanno rievocato e superato per crudeltà l’assedio sul campo profughi di Zamzam (l’offensiva più devastante è avvenuta ad aprile 2025). Senza un sostegno esterno, la milizia non avrebbe potuto perpetrare queste atrocità, né conquistare tutto questo terreno: controlla infatti ormai quasi tutta la regione del Darfur e parte del Kordofan – dove ha già raggiunto alcune delle principali città, come Bara, e punta alla capitale El Obeid. IL COINVOLGIMENTO USA ED EUROPEO Nel frattempo, l’aspirante Nobel per la pace Donald Trump ha messo in piedi una task force dedicata alla crisi sudanese: il gruppo Quad vede tra le sue fila Arabia Saudita, Egitto, Stati Uniti, e non potevano mancare proprio gli Emirati Arabi. Si comprende come le proposte di un cessate il fuoco avanzate dal team Quad avessero già perso in partenza, Al-Burhan ha definito l’ultima «la peggiore ricevuta finora», perché, oltre alla presenza compromessa di Abu Dhabi, non prevede il ritiro e disarmo delle Rsf, che hanno invece accettato volentieri il piano, dichiarando unilateralmente un cessate il fuoco di tre mesi lunedì 24 novembre. Tregua che già martedì 25 novembre è stata violata dalla milizia e i suoi alleati: il Movimento popolare per la liberazione del Sudan del Nord (Splm-N), parte del governo parallelo guidato da Hemedti, ha rapito oltre 150 ragazzi, tra cui svariati minori, dalla miniera di Zallataya (Kordofan sud); le Rsf, invece, hanno attaccato una base militare nel Kordofan occidentale (secondo una dichiarazione dell’esercito che non è ancora stata verificata indipendentemente). Il consigliere speciale Usa per l’Africa Massad Boulos, inviato ad Abu Dhabi per discutere di Sudan, ha invitato «tutte le parti ad accettare il piano così com’è stato proposto, senza precondizioni», bocciando da subito le richieste di al-Burhan di prevedere quantomeno il disarmo della milizia. L’Unione Europea, dal canto suo, condivide le lacrime di coccodrillo trumpiane: dopo aver imposto delle sanzioni al numero due delle Rsf, Abdelrahim Dagalo, emesse dal Consiglio affari esteri, il Parlamento di Strasburgo il 27 novembre ha convocato una votazione su una Risoluzione legata alle ingerenze esterne nella guerra in Sudan. > Se la prima bozza condannava direttamente il coinvolgimento degli Emirati, > proponendo addirittura di interrompere il trattato di libero commercio delle > armi con Abu Dhabi (che sarebbe semplicemente una mossa ottemperante > all’embargo sulle armi e alla legislazione internazionale in materia di > commercio bellico in teatri di guerra), il documento finale che è stato > approvato non nomina neanche lo stato del Golfo persico. La presenza, nelle vesti di osservatori, dei diplomatici emiratini durante il voto parla da sé rispetto a questa virata angolare e repentina: Lana Nusseibeh, l’inviata di Abu Dhabi per l’Europa, è volata a Strasburgo insieme al suo entourage, dove ha partecipato a incontri con numerosi membri del Parlamento europeo. A tracciare la sottile linea rossa che ha determinato la cancellazione degli Emirati dalla risoluzione è stato il PPE, ma anche Marit Maij – negoziatrice capo per il gruppo S&D (socialisti e democratici) – ha ammesso a Politico di aver incontrato la delegazione emiratina su richiesta di quest’ultima, affermando però di avergli fatto presente che gli elementi del loro supporto alle Rsf sono schiaccianti. Il sito europeo ha ironicamente sottotitolato il servizio: «Gli ufficiali emiratini hanno condotto una spinta lobbista eclatante mentre i parlamentari pasticciano una risoluzione sul devastante conflitto africano». Nel frattempo, il 19 novembre, l’italiana Leonardo spa ha ufficializzato una Joint Venture con il gruppo Edge (Emirati Arabi), di cui quest’ultimo deterrà il 51% e ne commercializzerà i prodotti in casa. Da tutto ciò emerge un filo di legami politici, economici e finanziari che esulano dal contesto sudanese e rendono molto difficile individuare gli interessi concreti che muovono gli attori esterni a interferire nel conflitto e soprattutto la catena di beneficiari che non finisce certo ad Abu Dhabi. Tracciare il profilo delle dinamiche estrattiviste, lobbiste e quasi sempre neocoloniali non è semplice, ma a pagarle da più di cent’anni rimane il popolo sudanese. La copertina ritrae il campo profughi di Khor Abeche (Sud Darfur) dopo un attacco delle Rapid Support Force avvenuto il 22 marzo 2014. L’immagine è di Enough project (Flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo In Sudan l’emorragia non si ferma proviene da DINAMOpress.
La guerra civile del Sudan devasta il cuore della nostra umanità
> La guerra civile in Sudan è scoppiata nell’aprile 2023 e, finora, diversi > cicli di colloqui di pace non sono serviti a porre fine all’orribile conflitto > in corso. Due generali che erano alleati nel realizzare il colpo di stato del > 2021 sono ora i leader delle parti opposte: il generale Abdel Fattah al-Burhan > è il capo delle forze armate sudanesi (SAF) e, in sostanza, Presidente del > Paese. Il suo ex vice e ora avversario è il generale Mohamed Hamdan Dagalo, > leader delle Forze di Supporto Rapido (RSF), forte di 100.000 uomini. Nel giugno 2025, le RSF hanno ottenuto una vittoria significativa quando hanno preso il controllo della regione lungo il confine del Sudan con la Libia e l’Egitto. L’uomo forte libico, il generale Khalifa Haftar è stato accusato di sostenere le RSF fornendole armi e combattenti. Le RSF controllano anche la maggior parte del Darfur e gran parte del vicino Kordofan. In effetti, si teme che il paese possa ancora una volta essere diviso in due stati se le RSF portano avanti il loro piano dichiarato di stabilire un governo rivale.  ATROCITÀ IMPENSABILI Forse la conseguenza più orribile del conflitto è lo stupro e l’uccisione di innocenti, compresi bambini e neonati. Le Nazioni Unite riferiscono che oltre 40.000 persone sono state uccise e più di 14 milioni sono state sfollate; la classificazione della fase di sicurezza alimentare integrata ha identificato una carestia diffusa, che colpisce quasi 400.000 persone. Ci sono state anche orribili violenze sessuali estese a bambini molto piccoli, e segnalazioni di bambini che tentano di porre fine alla propria vita a seguito di questi episodi. Il popolo Massalit e altre comunità non arabe nello stato del Darfur occidentale del Sudan sono stati oggetto di pulizia etnica. Le RSF e le milizie arabe alleate hanno perpetrato atrocità e assalti incessanti nei quartieri di Massalit a El Geneina, la capitale del Darfur occidentale, massacrando migliaia di persone e lasciandone altrettante senza una casa o un rifugio. A febbraio, l’esercito sudanese ha bombardato Nyala, la più grande città del Darfur meridionale, con bombe non indirizzate. Questi attacchi hanno ucciso dozzine di persone e devastato quartieri civili, un caso da manuale di guerra indiscriminata. Nel frattempo, i convogli delle Nazioni Unite sono stati attaccati più volte, anche all’inizio di giugno e alla fine di agosto, dimostrando ancora una volta che anche gli operatori umanitari sono sotto assedio. I PAESI COMPLICI NEL CAOS SUDANESE Il generale al-Burhan è sostenuto principalmente dal Qatar, che gli fornisce sostegno finanziario e armi, dall’Iran che fornisce droni, e dall’Eritrea che ospita campi di addestramento per gruppi allineati alle SAF, in particolare vicino ai confini orientali. Le RSF stanno ricevendo un sostegno significativo dagli Emirati Arabi Uniti, che sono accusati di inviare armi e droni. Anche alcune imprese belliche turche sono state coinvolte nella fornitura di droni che finiscono per essere utilizzati da entrambe le parti. Il Washington Post ha riferito di come l’uso di droghe – in particolare Captagon, un’anfetamina sintetica – da parte dei combattenti della milizia “abbia introdotto una nuova pericolosa variabile in un campo di battaglia già senza legge”. Le pillole Captagon, che possono essere prodotte in centinaia di milioni, rendono i combattenti più inclini alla violenza e più propensi a commettere atrocità indicibili. Metà della popolazione sudanese ora dipende dagli aiuti umanitari per sopravvivere. Oltre 25 milioni di persone fanno affidamento sulle consegne di cibo solo per superare la giornata, in un paese in cui le bombe continuano a cadere e i villaggi vengono ridotti in cenere. Sia le RSF che le SAF stanno commettendo atrocità impunemente, con i civili intrappolati nel mezzo di questa guerra da incubo: omicidi etnici mirati, stupri di gruppo, attacchi aerei su ospedali e case, saccheggi di aiuti e blocchi che affamano intere città. Se una delle due parti spingerà per la vittoria totale, che a questo punto sembra quasi irraggiungibile, comporterà un’escalation del massacro a proporzioni veramente catastrofiche – poiché significherà che altri stati (Russia, Iran, Emirati Arabi Uniti, Libia, Ciad, Etiopia, Egitto, ecc.), che si sono schierati con una parte o l’altra, dovranno aumentare significativamente il loro sostegno agli aiuti militari e alla fornitura di armi più avanzate. Entrambe le parti rimangono completamente trincerate nella loro reciproca opposizione e gli Stati che le sostengono non sembrano disposti a prendere in considerazione l’applicazione di pressioni diplomatiche per cambiare lo status quo. Se il conflitto continuerà a imperversare per anni, distruggerà tutto ciò che resta del Sudan e non farà altro che aggravare la calamità che è stata inflitta a milioni di civili sudanesi. NON C’È TEMPO DA PERDERE La guerra civile in Sudan è un oltraggio morale e umanitario, una disputa di potere tra due leader militari spietati, nessuno dei quali ha a cuore i veri interessi del proprio paese, ma che sono avidi di potere e ricchezza mentre i civili stanno pagando un prezzo terribile in morte e distruzione. La comunità internazionale deve rinsavire e compiere uno sforzo diplomatico concertato per porre fine a questa carneficina insensata e a uccisioni, stupri e saccheggi indiscriminati. LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE DEVE AGIRE ORA Purtroppo, non c’è motivo di credere che Trump farà qualcosa per porre fine alla guerra. La sua complicità nel genocidio di Gaza la dice lunga sulla sua insensibilità. Porre fine alla guerra richiede una forte spinta diplomatica internazionale, in particolare da parte delle Nazioni Unite e dell’UE: 1. La comunità internazionale deve sostenere indagini credibili, imporre un embargo globale sulle armi a tutte le parti coinvolte in Sudan per interrompere il flusso di armi e porre fine al loro sostegno cinico e egoistico. 2. L’UE e l’ONU possono coordinare sanzioni mirate su individui ed entità che forniscono sostegno finanziario o militare ai combattenti e garantire protezione ai milioni ancora intrappolati in questa guerra. 3. L’UE e le Nazioni Unite devono spingere per una missione internazionale di mantenimento della pace per proteggere i civili e creare zone sicure per gli aiuti umanitari. 4. Sponsorizzare colloqui di pace inclusivi che coinvolgano non solo le parti in conflitto, ma anche i leader della società civile locale e le parti interessate regionali. 5. Aumentare i finanziamenti umanitari e il supporto logistico per garantire che cibo, assistenza medica e riparo raggiungano chi ne ha bisogno. 6. Istituire un’inchiesta o un tribunale internazionale per documentare i crimini di guerra e ritenere responsabili gli autori, creando pressioni affinché entrambe le parti negozino. 7. I negoziatori devono sfruttare la diplomazia regionale coinvolgendo i vicini paesi africani e mediorientali per sostenere uno sforzo di pace unificato. Questa è una guerra senza qualità redentrici: non ci sono alti ideali in gioco e nessuna delle due parti, se vittoriosa, è in grado di garantire al paese un futuro migliore o più luminoso. Ma porre fine alla guerra significherebbe fermare una crisi in continua crescita, che sta colpendo milioni di uomini, donne e bambini le cui vite sono afflitte dalla fame e dalla minaccia quotidiana di violenza sessuale, mutilazioni e morte. È tempo che le potenze occidentali agiscano. Altrimenti, la loro bancarotta morale sarà in piena mostra, poiché le condizioni continueranno a degenerare e alla fine si trasformeranno in un inimmaginabile inferno vivente per decine di milioni di innocenti sudanesi. -------------------------------------------------------------------------------- L’autore: Dr. Alon Ben-Meir è un professore in pensione di relazioni internazionali, che ha recentemente insegnato presso il Center for Global Affairs della New York University. Ha tenuto corsi di negoziazione internazionale e studi sul Medio Oriente. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dall’inglese di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid. Pressenza New York
Sudan. Il genocidio continua tra massacri, stupri, fame e pulizia etnica. Le complicità dell’Italia
La prevedibile caduta di Al Fasher, l’ultimo grande centro del Darfur non ancora sotto il controllo delle Rapid Support Forces di Mohamed Dagalo, una dei due capi delle forze armate che sino alla primavera del 2023 si erano spartiti il governo del Sudan, è l’ultimo tra i tanti orrori della guerra civile. Nel 2023 Abdel Fattah al-Burhan era il presidente del Consiglio sovrano e Mohamed Hamdan Dagalo il suo vice: i due, dopo aver sino all’ultimo appoggiato la dittatura di Omar Hassan al-Bashir, nel 2019 si erano alleati per spodestarlo per evitare di essere travolti dalla rivolta popolare che stava per travolgere il regime sudanese. Era un’alleanza di interessi destinata a non durare. Dallo scoppio della guerra civile, ampiamente sostenuta da varie potenze straniere, ci sono stati 400.000 mila morti 12milioni 500 mila tra sfollati e profughi, innescando la più grande crisi umanitaria del pianeta. Nel silenzio tombale della maggior parte dei movimenti. Enormi le responsabilità dirette dell’Italia, che ha finanziato, armato ed addestrato le RSF in funzione antimigranti. Per capirne di più ne abbiamo parlato con Massimo Alberizzi di Africa ExPress Ascolta la diretta:
“No Kings”: 2600 cortei in centinaia di città e Re Trump si arrabbia
Squadre paramilitari contro il ‘pericolo rosso’ La manifestazione è stata preceduta da un’escalation di operazioni Ice, polizia di immigrazione e dogana, particolarmente a Portland e Chicago dove le squadre paramilitari hanno intensificato raid e rastrellamenti provocando proteste e cercando di proposito colluttazioni con i manifestanti, denuncia Luca Celada. Mentre diversi […] L'articolo “No Kings”: 2600 cortei in centinaia di città e Re Trump si arrabbia su Contropiano.
Disarmo Hezbollah: la Francia sostiene il piano saudita, ma gli USA preparano una guerra civile?
Poco più di una ventina di giorni fa avevamo scritto che lo scontro in Libano continuava a covare, dopo la proposta di disarmo delle milizie non statali (diretta contro Hezbollah) elaborata dalle forze armate del paese e presentata al governo di Beirut il 5 settembre. Dopo quasi quattro settimane, la […] L'articolo Disarmo Hezbollah: la Francia sostiene il piano saudita, ma gli USA preparano una guerra civile? su Contropiano.
Guerra civile negli USA contro gli ‘Antifa’. Truppe a Portland e alle sedi ICE
La guerra civile strisciante che vivono gli Stati Uniti non è più tanto strisciante. Trump ha ordinato il dispiegamento di truppe a Portland, nello stato dell’Oregon, dove da alcune settimane avvengono proteste antigovernative e contro la violenza dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), e presso le sedi dell’agenzia federale che si […] L'articolo Guerra civile negli USA contro gli ‘Antifa’. Truppe a Portland e alle sedi ICE su Contropiano.
Sparatoria a una sede ICE negli USA, Trump fomenta la guerra civile non dichiarata
I fatti devono ancora essere chiariti in tutti i loro dettagli, ma l’ennesima sparatoria avvenuta negli Stati Uniti, svoltasi presso una sede della Immigration and Customs Enforcement (ICE), l’agenzia federale che si occupa delle frontiere e dell’immigrazione, si annuncia come un’occasione che diverrà il capro espiatorio di un inasprimento ulteriore […] L'articolo Sparatoria a una sede ICE negli USA, Trump fomenta la guerra civile non dichiarata su Contropiano.
SIRIA: NUOVA ESCALATION DI VIOLENZE SETTARIE NEL SUD. DAANES: “UNICA SOLUZIONE AUTONOMIA DEMOCRATICA E RISPETTO DEL PLURALISMO”
Sale a 135 morti il bilancio degli scontri settari nel sud-ovest della Siria. I combattimenti sono iniziati tra le milizie della comunità drusa e quelle beduine dopo il sequestro di un giovane druso da parte di una banda beduina di Dar’a. In seguito, è intervenuto l’esercito del cosiddetto governo di transizione dell’autoproclamato presidente siriano – il post-jihadista Al Shaara – in teoria per tentare di porre fine ai combattimenti. In realtà, diversi video mostrano miliziani jihadisti (alcuni con le patch di Daesh sulle divise) impegnati in violenze e torture nei confronti di combattenti e civili drusi. Ne ha “approfittato” di nuovo Israele, che occupa ancora un pezzo di Siria, fino alle porte di Damasco. Con la scusa di “difendere i drusi”, l’esercito israeliano ha bombardato le vicinanze di una colonna di carri armati di Hayat Tahrir al Sham che si apprestavano a entrare nella roccaforte drusa di Suwayda. “Un avvertimento al governo di Damasco”, affermano da Tel Aviv. L’esercito israeliano, che è impegnato in colloqui indiretti con il governo di transizione siriano per raggiungere una “normalizzazione” dei rapporti, non è andato oltre l’avvertimento, e i militari fedeli al governo siriano sono poi entrati a Suwayda, dove secondo quanto riportato dal ministero della Difesa di Damasco sarebbe entrato in vigore un cessate il fuoco. L’Amministrazione autonoma della Siria del nord e dell’est e le Forze siriane democratiche hanno invitato tutte le parti a cessare il fuoco immediatamente, ricordando in un comunicato “la necessità di rispettare il pluralismo nazionale siriano, riconoscendo i diritti di tutte le componenti senza discriminazioni ed evitando qualsiasi retorica o pratica che prenda di mira un gruppo specifico per motivi politici, religiosi o etnici”. “La Siria a cui aspiriamo – si legge nel comunicato sulle violenze settarie – dev’essere uno Stato per tutti, senza emarginazione o esclusione, costruito su basi democratiche che garantiscano l’effettiva partecipazione di tutta la popolazione alla gestione degli affari del Paese”. Le istituzioni confederali del Rojava hanno inoltre esortato tutte le parti “ad adottare approcci realistici che rispettino la natura della società siriana e a lavorare con serietà per costruire un modello politico moderno e democratico basato su giustizia, uguaglianza e diritti umani“. “La soluzione in un paese multietnico come la Siria – aggiunge in un comunicato il Kongra-Starr, Movimento delle donne della Siria del nord-est – è un’amministrazione decentralizzata, federale e democratica con al centro le donne”. “Il popolo – prosegue la nota – ha bisogno di pace e di una società democratica”. Di tutt’altro avviso sembrerebbe essere il governo di transizione di Al Shaara (Al Jolani), ma anche l’inviato speciale Usa per la Siria Tom Barrack. Venerdì scorso, dopo un importante incontro tra Damasco e l’Amministrazione autonoma del Rojava, il diplomatico statunitense ha dichiarato: “Una nazione, un popolo, un esercito, una Siria. Le Forze Siriane Democratiche sono lente nell’accettare, negoziare e procedere in questa direzione. C’è solo una strada e quella strada è Damasco”. I recenti incontri si inseriscono nel quadro del negoziato in corso dallo scorso mese di marzo 2025. L’Amministrazione autonoma democratica della Siria settentrionale e orientale ha rilasciato una dichiarazione: “La diversità in Siria non è una minaccia per la sua unità, ma piuttosto una fonte di forza che deve essere protetta e consolidata”, si legge nel comunicato. “Le richieste che avanziamo oggi per un sistema democratico pluralistico, per la giustizia sociale, per l’uguaglianza di genere e per una costituzione che garantisca i diritti di tutte le componenti non sono nuove; – ricordano le istituzioni confederali del nord-est – sono il cuore della lotta dei siriani dal 2011. Etichettarle come secessionismo è una distorsione della verità della lotta siriana contro la tirannia”. Per fare il punto della situazione nel sud-ovest siriano e sui colloqui tra Damasco e DAANES, su Radio Onda d’Urto è intervenuto Tiziano Saccucci, dell’Ufficio Informazione Kurdistan in Italia. Ascolta o scarica.
Trump minaccia di arrestare il candidato newyorkese Mamdani (e forse di revocargli la cittadinanza USA)
Il 1° luglio Zohran Mamdani ha ufficialmente vinto le primarie del Partito Democratico per correre alla carica di sindaco della Grande Mela. Il sistema di conteggio dei voti è piuttosto complesso e lungo, ma per chiunque era ormai scontato che il giovane, di origini ugandese e indiane, e di religione […] L'articolo Trump minaccia di arrestare il candidato newyorkese Mamdani (e forse di revocargli la cittadinanza USA) su Contropiano.