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Pomodori rosso sangue
Il paesaggio agricolo ragusano, che un tempo appariva come un mosaico di campi aperti, muretti a secco e coltivazioni tradizionali, oggi è segnato da un orizzonte diverso: distese di serre bianche, plastica che riflette il sole e ricopre ettari di territorio. Da lontano il paesaggio luccica, ma dietro quella luce si nasconde un’ombra scura: lo sfruttamento. Dagli anni Ottanta in poi, la corsa all’orticoltura intensiva — pomodori, zucchine, melanzane esportate in tutta Europa — ha trasformato le campagne di Vittoria e dintorni in una delle più grandi aree agricole industrializzate del Mediterraneo. Ma allo sviluppo economico non è corrisposta una crescita in giustizia sociale: il sistema delle serre si è retto sul lavoro sottopagato e spesso invisibile di migliaia di braccianti, italiani e soprattutto migranti. Il caporalato, cioè l’intermediazione illecita della manodopera, ha preso il posto delle vecchie forme di lavoro stagionale. Non più il contadino che lavora la propria terra, ma uomini e donne reclutati ogni giorno da caporali, condotti nei campi, pagati a cottimo, costretti a turni estenuanti e privi di diritti. A questo si aggiungono condizioni abitative precarie, baracche o case abbandonate, lontane dai centri abitati, dove i braccianti vivono in isolamento. Così il paesaggio ragusano, che un tempo era simbolo di identità e orgoglio contadino, è diventato un luogo ambivalente: da una parte l’immagine di un’agricoltura florida, dall’altra il teatro quotidiano di sfruttamento, violenze e ricatti, che spesso colpiscono le persone più vulnerabili — donne, migranti, lavoratori senza documenti. Secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, in Sicilia si stimano oltre 40 mila lavoratori agricoli a rischio sfruttamento, di cui circa la metà coinvolti direttamente in meccanismi di caporalato. Il ragusano, con le sue serre, è uno degli epicentri. Uomini e donne, in gran parte migranti, vengono reclutati ogni mattina dai caporali: paghe da 25-30 euro per giornate di 10-12 ore, zero contributi, condizioni abitative precarie in casolari fatiscenti o baracche isolate. Il paesaggio ragusano è dunque duplice: cartolina e ferita. Da lontano, abbaglia con le sue serre bianche, simbolo di modernità e di abbondanza. Da vicino, mostra crepe profonde: le mani che raccolgono i frutti della terra spesso non hanno diritti, né voce. Così, dietro ogni pomodoro lucido e perfetto, resta l’eco di una campagna trasformata — non più comunità, ma catena produttiva; non più campi aperti, ma capannoni di plastica; non più lavoro libero, ma caporalato. La giornalista Stefania Prandi, nel libro Oro rosso (Settenove, 2018), ha documentato le storie delle braccianti nelle campagne del Mediterraneo, tra cui quelle siciliane, raccontando molestie e ricatti legati al lavoro nei campi. Più di recente, Diletta Bellotti in Pomodori rosso sangue (Nottetempo, 2024) ha legato l’immagine del pomodoro, simbolo del made in Italy, al sangue versato da chi lo raccoglie senza diritti. I pomodori che da Vittoria arrivano sulle tavole d’Italia e d’Europa portano con sé questa contraddizione: dietro il colore rosso brillante c’è spesso il sangue invisibile del lavoro non riconosciuto. Il recente sequestro del ragazzo di Vittoria, figlio di di un noto commerciante di prodotti ortofrutticoli, irrompe in questo scenario come un campanello d’allarme. Non si tratta soltanto di un fatto di cronaca nera: è il sintomo di un territorio in cui le tensioni sociali, economiche e criminali si intrecciano. La filiera agricola, cuore pulsante dell’economia ragusana, non è mai stata un’isola felice: dietro i numeri record dell’export ci sono precarietà, sfruttamento, debiti, ricatti. Quando un giovane viene rapito in pieno centro e davanti agli occhi degli amici si tratta di un campanello di allarme ed è un episodio che dimostra come le tensioni sociali ed economiche che ruotano attorno alla filiera agricola non siano più confinate nei margini, ma arrivino a toccare il cuore della comunità. La procura di Ragusa non parla di estorsione, ma gli investigatori sottolineano che il fatto “non può essere separato dal contesto economico e sociale” in cui è maturato. Un contesto dove la criminalità organizzata trova sicuramente terreno fertile. Ignorare questo segnale significherebbe accettare che sotto la plastica delle serre non si coltivino solo pomodori e zucchine, ma anche ingiustizie, rabbia e paura. Sta alla politica, alle istituzioni e alla società civile decidere se lasciare che queste tensioni esplodano o se invece raccogliere l’allarme per restituire dignità e giustizia a un territorio che produce ricchezza, ma che non può più farlo al prezzo dell’invisibilità e della violenza.   Venera Leto
Quando le filiere diventano inclusive
LAVORO AGRICOLO MIGRANTE E FILIERE GIUSTE SONO AL CENTRO DEL DOSSIER DEL PROGETTO MIGRERETE, UNO STRUMENTO PENSATO PER CAMBIARE IL MODO DI PRODURRE E CONSUMARE. CITTADINI E MIGRANTI DIVENTANO PROTAGONISTI DI FILIERE ALIMENTARI SOLIDALI E SOSTENIBILI: UN’INIZIATIVA CHE DÀ VOCE ALLE ESPERIENZE DI PICCOLE AZIENDE AGROALIMENTARI FONDATE E/O GESTITE DA MIGRANTI. IL DOSSIER NASCE DA UNA RICOGNIZIONE TERRITORIALE DELLE REALTÀ CHE OPERANO NEL SOLCO DELL’AGROECOLOGIA, DELLA GIUSTIZIA SOCIALE E DELL’ECONOMIA SOLIDALE, CON L’OBIETTIVO DI METTERE IN RETE PRODUTTORI MIGRANTI E CITTADINI RESPONSABILI, IN PARTICOLARE QUELLI ORGANIZZATI IN GRUPPI DI ACQUISTO SOLIDALE (GAS), EMPORI SOLIDALI E DI COMUNITÀ, NONCHÉ PIATTAFORME ETICHE DI ACQUISTO. Cooperative e imprese sociali nate da migranti e braccianti che, grazie alla produzione di cibo biologica e agroecologica, e a condizioni di lavoro legali e dignitose, contribuiscono a economie locali più giuste e costruiscono intorno a se’ comunità più solidali e  più accoglienti. Non sono un’utopia ma concrete storie di successo al centro del dossier Cittadini Protagonisti di Filiere Agroalimentari Solidali e Sostenibili di MigreRETE, progetto promosso da ARCS – Arci Culture Solidali APS in collaborazione con ReOrient, FairWatch, Nonna Roma e Slow Food Roma, con il sostegno dell’8×1000 della Chiesa Valdese. Il dossier, curato da Giulio Iocco di ReOrient-Fair Watch con la collaborazione e supervisione scientifica di Riccardo Troisi(Università di Roma Tor Vergata), realizzato nell’ambito del progetto, raccoglie esperienze e buone pratiche da diverse regioni italiane: piccole cooperative, imprese sociali e reti locali che uniscono sostenibilità ambientale, diritti dei lavoratori e solidarietà. Realtà che dimostrano come sia possibile costruire economie più giuste e partecipative, in cui cittadini e produttori diventano protagonisti di un cambiamento culturale ed economico. Tra le esperienze raccontate nel dossier troviamo quella della cooperativa sociale Barikamà, nata a Roma nel 2014. La sua storia inizia qualche anno prima, dopo la rivolta di Rosarno del 2010, quando molti braccianti africani fuggirono dalla Calabria per cercare condizioni di vita migliori. Alcuni di loro arrivarono nella capitale senza un tetto né un lavoro, trovando però il sostegno di reti solidali e attivisti locali. Da quella esperienza di accoglienza nacque l’idea di un’attività autonoma: produrre yogurt artigianale da vendere nei mercati contadini. Un progetto semplice, ma capace di trasformare la fragilità in opportunità. Nel giro di poco tempo la produzione crebbe e il gruppo decise di fondare una cooperativa. Oggi Barikamà conta una decina di soci, tra cui giovani migranti provenienti da Mali, Senegal e Guinea, e due lavoratori italiani con sindrome di Asperger. Accanto allo yogurt, la cooperativa coltiva verdure e gestisce un chiosco-bar nel Parco Nemorense di Roma, diventando un punto di riferimento per chi sceglie il consumo critico e solidale. Barikamà non è soltanto un’impresa agricola: è un laboratorio sociale che unisce esperienze di migrazione, inclusione e resilienza. Dimostra come sia possibile costruire comunità partendo dal cibo, generando lavoro dignitoso e creando relazioni tra persone diverse. La sua forza sta proprio nell’essere una realtà ibrida: produttiva e sociale, locale e internazionale, capace di mettere insieme pratiche agricole sostenibili e percorsi di cittadinanza attiva. La cooperativa Dokulaa, invece, è nata poco dopo la pandemia. In quel periodo difficile Manuela, Saikou, Mamadou e Karuna, i quattro soci fondatori, si trovarono tutti a Catania senza lavoro. Decisero di cercare un nuovo impiego in campagna, ma tutto ciò che riuscivano a trovare era lavoro a cottimo, in condizioni di grande precarietà e con una paga bassissima. Così hanno unito risorse e competenze e hanno fondato la cooperativa che inizialmente si occupava principalmente della raccolta su terreni di proprietà altrui, spesso amici. Grazie anche a un servizio trasmesso dalla televisione regionale, la cooperativa ha iniziato a ricevere proposte per gestire terreni incolti in comodato d’uso. Nell’ultimo anno, la cooperativa ha investito nella creazione di orti con l’obiettivo di partecipare ai mercati locali e avviare un’attività di distribuzione settimanale di ceste di prodotti nella città di Catania. Le storie raccolte da MigreRETE – da Barikamà a Dokulaa – raccontano percorsi diversi ma accomunati dalla stessa visione: il cibo non come semplice merce, ma come strumento di relazione, dignità e comunità. Sono esperienze che mostrano un’Italia capace di reagire allo sfruttamento nei campi, scegliendo la strada di un’agricoltura giusta e inclusiva. Non mancano le sfide: trovare terreni propri, rafforzare la sostenibilità economica, ampliare le reti di consumo responsabile. Eppure, queste esperienze mostrano che una filiera agroalimentare inclusiva è non solo necessaria, ma già possibile. Per conoscere meglio queste realtà e scoprire tutte le storie raccolte, è disponibile il report completo di MigreRETE, uno strumento utile per chi vuole approfondire e magari contribuire in prima persona a costruire un’economia più solidale e sostenibile. > Filiere giuste e protagonismo migrante MigreRETE-Dossier-completoDownload L'articolo Quando le filiere diventano inclusive proviene da Comune-info.
Caporalato: irregolare un’azienda su due
Caporalato: irregolare 1 azienda su 2, mentre sono a rischio i 200 milioni del PNRR per superare i ghetti Una strutturata campagna di vigilanza dell’Arma dei Carabinieri su tutto il territorio nazionale, realizzata dal 31 luglio all’11 agosto, ha cercato di dare maggiore efficacia all’attività di contrasto delle diverse condotte illecite connesse al lavoro nel settore agricolo. Sono state controllate 888 aziende e ben 468 sono risultate irregolari (52,70%). Sono state verificare anche 3601 posizioni lavorative, di cui 729 sono risultate irregolari (20,24%); di queste, 196 sono riconducibili all’impiego di manodopera “in nero” (il 26,88% delle 729 posizioni lavorative irregolari). Tra le posizioni lavorative verificate, 1557 riguardano lavoratori extracomunitari, di cui 79 impiegati “in nero”. mentre 30 sono risultati clandestini e 19 sono stati i minori trovati sui luoghi di lavoro, di cui 9 impiegati “in nero”. Le ispezioni hanno portato ad elevare 113 provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale (il 12,72% delle 888 aziende ispezionate), di cui 51 per “lavoro nero”, 50 per gravi violazioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e, in 12 casi, per entrambe le ipotesi. Inoltre, sono stati irrogati 42 provvedimenti di diffida ed elevate 850 prescrizioni. Per quanto riguarda il contrasto delle condotte penalmente rilevanti, sono state deferite in stato di libertà all’Autorità Giudiziaria complessivamente 470 persone, resesi responsabili di violazioni del Testo Unico sull’immigrazione, della normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, c.d. “caporalato” e di altre fattispecie penali, tra le quali falso ideologico e somministrazione fraudolenta di manodopera. Infine, sono state elevate sanzioni e ammende per 4.230.241,84 euro e sequestrati un locale fatiscente a Perugia adibito a dormitorio dei lavoratori sfruttati (Perugia) nonché a Trieste alcuni attestati di formazione falsi. E proprio nei giorni scorsi la FLAI nazionale (Federazione Lavoratori Agro Industria), FLAI Puglia e FLAI Foggia hanno organizzato presso la baraccopoli di Borgo Mezzanone, la più grande d’Italia, una mobilitazione di due giorni per denunciare che i 200 milioni del PNRR destinati al superamento dei ghetti rischiano di andare persi per sempre. 200 milioni di euro stanziati nel Piano nazionale di ripresa e resilienza per migliorare le condizioni di vita di migliaia di lavoratori agricoli in condizioni inaccettabili, che con molta probabilità non verranno usati. Di questi 200milioni, ben 114 milioni sarebbero dovuti essere destinati a interventi nella Capitanata, nel Foggiano, ma per ora sono soltanto 6 i milioni di € che sono stati resi disponibili per migliorare la situazione alloggiativa dei lavoratori. E Borgo Mezzanone e Torretta Antonacci, ghetti tra i più grandi d’Italia e d’Europa, sembrano essere esclusi, denuncia la FLAI, dalla realizzazione di progetti con le risorse del PNRR. I tempi sono sempre più stretti e anche in caso di proroga a giugno o ad agosto 2026, si rischia di sprecare un’occasione unica. A Borgo Mezzanone erano destinati 54 milioni di euro e a Torretta Antonacci quasi 28 milioni, ma per ora soltanto 11 dei 37 progetti presentati dai Comuni coinvolti potrebbero partire. La Flai CGIL, pur riconoscendo lo sforzo che sta compiendo il Commissario Falco, lancia un allarme sul rischio di perdere quasi il 90 per cento dei finanziamenti europei per il superamento dei ghetti. Qui per approfondire le indagini di questi giorni dell’Arma dei Carabinieri: https://www.carabinieri.it/in-vostro-aiuto/informazioni/comunicati-stampa/campagna-nazionale-dell’arma-per-il-contrasto-al-caporalato-470-i-deferiti-all’AG. .   Giovanni Caprio
I rider e il caporalato digitale
Secondo recenti stime, circa il 30% della popolazione mondiale è attualmente esposta a condizioni di caldo particolarmente critiche per la salute per almeno 20 giorni all’anno e tale percentuale è destinata ad aumentare nei prossimi anni anche se le emissioni di gas serra tenderanno a ridursi. I lavoratori, in particolare quelli che trascorrono la maggior parte delle loro attività all’aperto, settore agricolo e delle costruzioni in primis, sono tra i soggetti più esposti agli effetti del caldo e in generale a tutti i fenomeni atmosferici. Sono tante le Regioni (Lombardia, Abruzzo, Emilia-Romagna, Sardegna, Basilicata, Calabria, Campania, Lazio, Liguria, Puglia, Sicilia e Toscana) che anche per questa estate hanno vietato il lavoro all’aperto dalle 12,30 alle 16,30. Nelle strade, nei cantieri, nei vivai, nell’agricoltura come nelle cave durante le ore più calde della giornata ci si dovrà fermare (https://www.worklimate.it/). Di conseguenza, le imprese sono obbligate ad dottare misure organizzative, tecniche e procedurali utili per evitare l’esposizione dei lavoratori nelle fasce a rischio, attraverso, per esempio, l’anticipo dell’orario di inizio mattutino e suo prolungamento nelle ore serali, l’impiego dei lavoratori al coperto o all’ombra, anche per mezzo di tettoie fisse o mobili, la riprogrammazione delle attività, l’organizzazione di ripetute turnazioni dei lavoratori esposti e pause in zone ombreggiate, l’utilizzo di carrelli elevatori o macchine cabinate con aria condizionata e così via. Ovviamente l’efficacia dei provvedimenti regionali dipende in gran parte dalla capacità di controllo per far rispettare le limitazioni imposte. Controlli che purtroppo non sempre sono puntuali e continuativi. Ci sono però lavoratori, come i rider, per i quali non basta la “tutela meteo”. Come ha efficacemente illustrato Marco Omizzolo, sociologo, docente e ricercatore dell’Eurispes, su https://www.leurispes.it/, un algoritmo peggiora le condizioni lavorative dei rider. “Tra le modalità più ricorrenti e nel contempo persistenti che concorrono a determinare lo sfruttamento dei rider, sottolinea Omizzolo, da cui deriva il loro obbligo al lavoro secondo gli ordini impartiti dall’algoritmo, a prescindere, in genere, dalle condizioni meteo più o meno avverse, si possono citare l’iper-connessione e la sovra-reperibilità, favorite dall’utilizzo di devices che rappresentano una forma larvata, ma non per questo meno pervicace, di sfruttamento opaco, dal momento che non mette in luce la situazione di vulnerabilità che vive un lavoratore che non può esercitare il diritto umano alla disconnessione. È da qui che deriva l’obbligo del rider al lavoro anche con il caldo estremo, quale accezione più evoluta rispetto al solo problema delle temperature estive intese come dato naturale in sé non superabile. Si tratta di una vulnerabilità alimentata dall’organizzazione del lavoro del rider stesso, basata su algoritmi, sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati, che fomentano significativi squilibri di potere e opacità nel processo decisionale: la vigilanza e la misurazione della performance realizzate con la tecnologia potrebbero, difatti, aggravare pratiche discriminatorie e squilibri di genere e comportare rischi per la vita privata, la salute, la sicurezza dei lavoratori e, più in generale, per la dignità umana. I provvedimenti emanati dalle regioni, dunque, sebbene fondamentali ai fini della tutela della salute dei rider, bypassano le condizioni specifiche che fanno di questi lavoratori degli sfruttati della gig economy, che solo una riorganizzazione per via normativa e dunque politica della relativa filiera e settore potrebbe, probabilmente, arginare”. Insomma, per essere affidabili secondo l’algoritmo, il rider deve rispondere sempre positivamente alla sua chiamata, anche se le condizioni meteorologiche sono proibitive. Omizzolo parla di caporalato digitale come forma di sfruttamento realizzata attraverso la cessione delle credenziali di accesso alle piattaforme di food delivery, annotando che “risulta evidente che la variabile dipendente da cui derivano gli incidenti, in alcuni casi anche mortali, dei rider, non è riconducibile all’evento meteo come fatto naturale, ma alla sua combinazione con le forme organizzate dello sfruttamento a cui è costretto il rider. Intervenire solo sulla variabile meteo, sebbene utile ai fini della tutela dell’incolumità fisica del lavoratore, non ne supera la condizione originaria e tipica, che è data dalla reperibilità dello stesso ed esecuzione dell’ordine di consegna a qualunque costo e nel più breve tempo possibile”. E’ la digitalizzazione, in buona sostanza, che mina la salute e la sicurezza di questi lavoratori. “Lavorare in violazione della normativa sull’orario di lavoro e di riposo, sulla sicurezza e salute sul lavoro, in condizioni umilianti e degradanti, accettate a causa dello stato di particolare bisogno dei lavoratori, sotto il controllo di meccanismi automatizzati, conclude Omizzolo, integra il delitto rubricato “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, di cui all’art. 603 bis del c.p., e richiede un impegno complessivo del legislatore per evitare ripetute tragedie di lavoratori morti o gravemente infortunati al solo scopo di portare una pizza o un’insalata mista nelle case degli italiane. Concentrarsi solo sulla variabile meteo, isolandola dal contesto lavorativo dei rider e dalla sua organizzazione specifica, è un po’ come guardare il dito quando esso indica la luna”. Qui per approfondire: https://www.leurispes.it/rider-caporalato-digitale/.  Giovanni Caprio
Come contrastare il caporalato
Riceviamo e pubblichiamo dalla agenzia stampa Interris.it Offende “la dignità del lavoratore anche il lavoro in nero, quello gestito dal caporalato”, aveva detto papa Francesco in un videomessaggio rivolto alla Settimana sociale dei cattolici italiani nell’ottobre 2017. Il fenomeno del caporalato è ormai esteso in tutta Italia e ne cade vittima anche parte di quelle persone che, una volta scaduto il permesso di lavoro in Italia, non riescono a stabilizzare la propria posizione e si trovano in condizione di irregolarità. L’apporto al settore agroalimentare dei lavoratori di nazionalità straniera è però determinante, dato che sono circa uno su tre del totale degli occupati nell’agroindustria, come emerge dallo studio “Made in Immigritaly” realizzato da Fai Cisl (La Fai Cisl rappresenta oltre 220.000 lavoratori dell’agricoltura e attività connesse, dell’industria alimentare, delle foreste, della pesca e del tabacco) “Non regolarizzare quei lavoratori che, entrati regolarmente, oggi sono in una gabbia d’illegalità ma vorrebbero lavorare, ci costa”, dice a Interris.it il segretario generale di Fai Cisl Onofrio Rota nell’intervista che segue, ribadendo l’urgenza di contrastare lo sfruttamento nel lavoro agricolo e quali possono essere i modi per farlo. L’intervista Segretario, ci dà una definizione di caporalato? “Come sindacato lo definiamo l’attività illecita di gestione dell’intermediazione di manodopera, che comporta il reclutamento dei lavoratori attraverso i cosiddetti ‘caporali’ senza che vengano rispettati il contratto nazionale, le tutele previste dalle leggi sul lavoro e le norme di sicurezza”. Qual è l’entità del fenomeno? “In base ai dati del Rapporto immigrazione realizzato da Caritas italiana e Fondazione Migrantes, negli ultimi dieci anni sono entrati in Italia attraverso i flussi circa 250mila lavoratori. Di questi, quelli che non riuscivano a stabilizzare la propria posizione e non venivano rimpatriati oggi sono quegli irregolari che cadono vittime dello sfruttamento.” Quali sono gli strumenti a disposizione per il contrasto allo sfruttamento e al caporalato? “Il più importante è la legge 199/2016 sul contrasto allo sfruttamento del lavoro agricolo, che prevede un aumento delle sanzioni, delle forme di tutela nei confronti di chi denuncia e ha fatto diventare il caporalato, da reato di natura amministrativa, un reato penale. Sull’efficacia dell’applicazione è tutto da vedere, alla luce della diffusione del fenomeno nel nostro Paese. Le azioni di polizia sul territorio fanno emergere situazioni non trasparenti”. Ce ne sono altri? “Abbiamo anche visto che la sinergia tra sindacati, l’Inps, le forze di polizia e le Regioni e l’incrocio delle banche dati degli organismi responsabili dei controlli permettono di avere delle ‘sentinelle’ sul territorio. Inoltre, il lavoratore che denuncia la condizione di sfruttamento deve avere un permesso speciale e tutele come l’assegno di inclusione sociale, misura prevista dal governo e frutto di una nostra proposta – una cosa che si evidenzia poco”. Quali sono gli obiettivi del tavolo interministeriale anticaporalato? “La Rete del lavoro agricolo di qualità, che mette insieme gli interlocutori del territorio, e il contrasto alle aziende senza terra. Le azioni repressive, la vigilanza di Inps, Inail e delle asl, e le Regioni che insieme agli enti bilaterali agricoli prevedono delle premialità per le imprese che si iscrivono alla Rete per accedere ai finanziamenti pubblici attraverso i piani di sviluppo rurale, hanno portato a un aumento degli occupati e della regolarità. Un segnale tiepido, ma se vengono introdotte queste modalità si può diffondere una cultura della legalità”. Quanto “pesano” i lavoratori immigrati sul comparto? “Oggi sono circa un terzo degli occupati, 360-365mila su un milione, e danno un contributo regolare e attivo a valorizzare i nostri prodotti. Il nostro rapporto ‘Made in Immigritaly’ mostra il loro apporto determinante al prodotto interno lordo italiano. Ci costa non regolarizzare quei lavoratori che, entrati regolarmente, oggi sono in una gabbia d’illegalità ma vorrebbero lavorare. Anche le imprese lo sanno bene”. Come superare i “ghetti” in cui spesso leggiamo sono segregati tanti lavoratori agricoli? “Da anni giro tutta l’Italia e conosco gli insediamenti informali. I ‘ghetti’ sono una violazione dei diritti umani, luoghi di sfruttamento e oppressione dove avviene anche la tratta delle donne. C’è bisogno di una commissione di inchiesta. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza mette a disposizione duecento milioni per gli insediamenti abitativi, ma dobbiamo fare politiche di inclusione, integrazione e partecipazione alla vita sociale del Paese per i lavoratori stranieri che si spaccano la schiena sotto il sole e – ed è la cosa peggiore – chiedono scusa dicendo che non vogliono rubare il lavoro a nessuno ma solo lavorare e farsi una famiglia. Non possiamo limitarci a fare dei container nelle campagne, le associazioni agricole vogliono politiche di fiscalità di vantaggio per le abitazioni agricole messe a disposizione e questo potrebbe aiutare l’assegnazione per renderle agibili per i lavoratori. Ripensiamo alla legge Zanibelli sulle case per i braccianti”. A proposito di lavorare sotto il sole, date queste temperature ritiene adeguate le norme anticaldo ? “Noi le mettiamo in azione attraverso la contrattazione, che prevede che si può iniziare alle 5 di mattina per finire alle 11:30. Le ordinanze ministeriali però sono necessarie per far rispettare questi meccanismi. In merito alla sospensione del lavoro, per i braccianti agricoli ad oggi è prevista la sospensione a retribuzione zero, si sta pensando a una cassa integrazione in deroga per quelle ore. In questo modo si integra il reddito del lavoratore e si contribuisce a fargli raggiungere i requisiti per accedere alla disoccupazione agricola”. Redazione Italia