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I rider e il caporalato digitale
Secondo recenti stime, circa il 30% della popolazione mondiale è attualmente esposta a condizioni di caldo particolarmente critiche per la salute per almeno 20 giorni all’anno e tale percentuale è destinata ad aumentare nei prossimi anni anche se le emissioni di gas serra tenderanno a ridursi. I lavoratori, in particolare quelli che trascorrono la maggior parte delle loro attività all’aperto, settore agricolo e delle costruzioni in primis, sono tra i soggetti più esposti agli effetti del caldo e in generale a tutti i fenomeni atmosferici. Sono tante le Regioni (Lombardia, Abruzzo, Emilia-Romagna, Sardegna, Basilicata, Calabria, Campania, Lazio, Liguria, Puglia, Sicilia e Toscana) che anche per questa estate hanno vietato il lavoro all’aperto dalle 12,30 alle 16,30. Nelle strade, nei cantieri, nei vivai, nell’agricoltura come nelle cave durante le ore più calde della giornata ci si dovrà fermare (https://www.worklimate.it/). Di conseguenza, le imprese sono obbligate ad dottare misure organizzative, tecniche e procedurali utili per evitare l’esposizione dei lavoratori nelle fasce a rischio, attraverso, per esempio, l’anticipo dell’orario di inizio mattutino e suo prolungamento nelle ore serali, l’impiego dei lavoratori al coperto o all’ombra, anche per mezzo di tettoie fisse o mobili, la riprogrammazione delle attività, l’organizzazione di ripetute turnazioni dei lavoratori esposti e pause in zone ombreggiate, l’utilizzo di carrelli elevatori o macchine cabinate con aria condizionata e così via. Ovviamente l’efficacia dei provvedimenti regionali dipende in gran parte dalla capacità di controllo per far rispettare le limitazioni imposte. Controlli che purtroppo non sempre sono puntuali e continuativi. Ci sono però lavoratori, come i rider, per i quali non basta la “tutela meteo”. Come ha efficacemente illustrato Marco Omizzolo, sociologo, docente e ricercatore dell’Eurispes, su https://www.leurispes.it/, un algoritmo peggiora le condizioni lavorative dei rider. “Tra le modalità più ricorrenti e nel contempo persistenti che concorrono a determinare lo sfruttamento dei rider, sottolinea Omizzolo, da cui deriva il loro obbligo al lavoro secondo gli ordini impartiti dall’algoritmo, a prescindere, in genere, dalle condizioni meteo più o meno avverse, si possono citare l’iper-connessione e la sovra-reperibilità, favorite dall’utilizzo di devices che rappresentano una forma larvata, ma non per questo meno pervicace, di sfruttamento opaco, dal momento che non mette in luce la situazione di vulnerabilità che vive un lavoratore che non può esercitare il diritto umano alla disconnessione. È da qui che deriva l’obbligo del rider al lavoro anche con il caldo estremo, quale accezione più evoluta rispetto al solo problema delle temperature estive intese come dato naturale in sé non superabile. Si tratta di una vulnerabilità alimentata dall’organizzazione del lavoro del rider stesso, basata su algoritmi, sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati, che fomentano significativi squilibri di potere e opacità nel processo decisionale: la vigilanza e la misurazione della performance realizzate con la tecnologia potrebbero, difatti, aggravare pratiche discriminatorie e squilibri di genere e comportare rischi per la vita privata, la salute, la sicurezza dei lavoratori e, più in generale, per la dignità umana. I provvedimenti emanati dalle regioni, dunque, sebbene fondamentali ai fini della tutela della salute dei rider, bypassano le condizioni specifiche che fanno di questi lavoratori degli sfruttati della gig economy, che solo una riorganizzazione per via normativa e dunque politica della relativa filiera e settore potrebbe, probabilmente, arginare”. Insomma, per essere affidabili secondo l’algoritmo, il rider deve rispondere sempre positivamente alla sua chiamata, anche se le condizioni meteorologiche sono proibitive. Omizzolo parla di caporalato digitale come forma di sfruttamento realizzata attraverso la cessione delle credenziali di accesso alle piattaforme di food delivery, annotando che “risulta evidente che la variabile dipendente da cui derivano gli incidenti, in alcuni casi anche mortali, dei rider, non è riconducibile all’evento meteo come fatto naturale, ma alla sua combinazione con le forme organizzate dello sfruttamento a cui è costretto il rider. Intervenire solo sulla variabile meteo, sebbene utile ai fini della tutela dell’incolumità fisica del lavoratore, non ne supera la condizione originaria e tipica, che è data dalla reperibilità dello stesso ed esecuzione dell’ordine di consegna a qualunque costo e nel più breve tempo possibile”. E’ la digitalizzazione, in buona sostanza, che mina la salute e la sicurezza di questi lavoratori. “Lavorare in violazione della normativa sull’orario di lavoro e di riposo, sulla sicurezza e salute sul lavoro, in condizioni umilianti e degradanti, accettate a causa dello stato di particolare bisogno dei lavoratori, sotto il controllo di meccanismi automatizzati, conclude Omizzolo, integra il delitto rubricato “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, di cui all’art. 603 bis del c.p., e richiede un impegno complessivo del legislatore per evitare ripetute tragedie di lavoratori morti o gravemente infortunati al solo scopo di portare una pizza o un’insalata mista nelle case degli italiane. Concentrarsi solo sulla variabile meteo, isolandola dal contesto lavorativo dei rider e dalla sua organizzazione specifica, è un po’ come guardare il dito quando esso indica la luna”. Qui per approfondire: https://www.leurispes.it/rider-caporalato-digitale/.  Giovanni Caprio
Come contrastare il caporalato
Riceviamo e pubblichiamo dalla agenzia stampa Interris.it Offende “la dignità del lavoratore anche il lavoro in nero, quello gestito dal caporalato”, aveva detto papa Francesco in un videomessaggio rivolto alla Settimana sociale dei cattolici italiani nell’ottobre 2017. Il fenomeno del caporalato è ormai esteso in tutta Italia e ne cade vittima anche parte di quelle persone che, una volta scaduto il permesso di lavoro in Italia, non riescono a stabilizzare la propria posizione e si trovano in condizione di irregolarità. L’apporto al settore agroalimentare dei lavoratori di nazionalità straniera è però determinante, dato che sono circa uno su tre del totale degli occupati nell’agroindustria, come emerge dallo studio “Made in Immigritaly” realizzato da Fai Cisl (La Fai Cisl rappresenta oltre 220.000 lavoratori dell’agricoltura e attività connesse, dell’industria alimentare, delle foreste, della pesca e del tabacco) “Non regolarizzare quei lavoratori che, entrati regolarmente, oggi sono in una gabbia d’illegalità ma vorrebbero lavorare, ci costa”, dice a Interris.it il segretario generale di Fai Cisl Onofrio Rota nell’intervista che segue, ribadendo l’urgenza di contrastare lo sfruttamento nel lavoro agricolo e quali possono essere i modi per farlo. L’intervista Segretario, ci dà una definizione di caporalato? “Come sindacato lo definiamo l’attività illecita di gestione dell’intermediazione di manodopera, che comporta il reclutamento dei lavoratori attraverso i cosiddetti ‘caporali’ senza che vengano rispettati il contratto nazionale, le tutele previste dalle leggi sul lavoro e le norme di sicurezza”. Qual è l’entità del fenomeno? “In base ai dati del Rapporto immigrazione realizzato da Caritas italiana e Fondazione Migrantes, negli ultimi dieci anni sono entrati in Italia attraverso i flussi circa 250mila lavoratori. Di questi, quelli che non riuscivano a stabilizzare la propria posizione e non venivano rimpatriati oggi sono quegli irregolari che cadono vittime dello sfruttamento.” Quali sono gli strumenti a disposizione per il contrasto allo sfruttamento e al caporalato? “Il più importante è la legge 199/2016 sul contrasto allo sfruttamento del lavoro agricolo, che prevede un aumento delle sanzioni, delle forme di tutela nei confronti di chi denuncia e ha fatto diventare il caporalato, da reato di natura amministrativa, un reato penale. Sull’efficacia dell’applicazione è tutto da vedere, alla luce della diffusione del fenomeno nel nostro Paese. Le azioni di polizia sul territorio fanno emergere situazioni non trasparenti”. Ce ne sono altri? “Abbiamo anche visto che la sinergia tra sindacati, l’Inps, le forze di polizia e le Regioni e l’incrocio delle banche dati degli organismi responsabili dei controlli permettono di avere delle ‘sentinelle’ sul territorio. Inoltre, il lavoratore che denuncia la condizione di sfruttamento deve avere un permesso speciale e tutele come l’assegno di inclusione sociale, misura prevista dal governo e frutto di una nostra proposta – una cosa che si evidenzia poco”. Quali sono gli obiettivi del tavolo interministeriale anticaporalato? “La Rete del lavoro agricolo di qualità, che mette insieme gli interlocutori del territorio, e il contrasto alle aziende senza terra. Le azioni repressive, la vigilanza di Inps, Inail e delle asl, e le Regioni che insieme agli enti bilaterali agricoli prevedono delle premialità per le imprese che si iscrivono alla Rete per accedere ai finanziamenti pubblici attraverso i piani di sviluppo rurale, hanno portato a un aumento degli occupati e della regolarità. Un segnale tiepido, ma se vengono introdotte queste modalità si può diffondere una cultura della legalità”. Quanto “pesano” i lavoratori immigrati sul comparto? “Oggi sono circa un terzo degli occupati, 360-365mila su un milione, e danno un contributo regolare e attivo a valorizzare i nostri prodotti. Il nostro rapporto ‘Made in Immigritaly’ mostra il loro apporto determinante al prodotto interno lordo italiano. Ci costa non regolarizzare quei lavoratori che, entrati regolarmente, oggi sono in una gabbia d’illegalità ma vorrebbero lavorare. Anche le imprese lo sanno bene”. Come superare i “ghetti” in cui spesso leggiamo sono segregati tanti lavoratori agricoli? “Da anni giro tutta l’Italia e conosco gli insediamenti informali. I ‘ghetti’ sono una violazione dei diritti umani, luoghi di sfruttamento e oppressione dove avviene anche la tratta delle donne. C’è bisogno di una commissione di inchiesta. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza mette a disposizione duecento milioni per gli insediamenti abitativi, ma dobbiamo fare politiche di inclusione, integrazione e partecipazione alla vita sociale del Paese per i lavoratori stranieri che si spaccano la schiena sotto il sole e – ed è la cosa peggiore – chiedono scusa dicendo che non vogliono rubare il lavoro a nessuno ma solo lavorare e farsi una famiglia. Non possiamo limitarci a fare dei container nelle campagne, le associazioni agricole vogliono politiche di fiscalità di vantaggio per le abitazioni agricole messe a disposizione e questo potrebbe aiutare l’assegnazione per renderle agibili per i lavoratori. Ripensiamo alla legge Zanibelli sulle case per i braccianti”. A proposito di lavorare sotto il sole, date queste temperature ritiene adeguate le norme anticaldo ? “Noi le mettiamo in azione attraverso la contrattazione, che prevede che si può iniziare alle 5 di mattina per finire alle 11:30. Le ordinanze ministeriali però sono necessarie per far rispettare questi meccanismi. In merito alla sospensione del lavoro, per i braccianti agricoli ad oggi è prevista la sospensione a retribuzione zero, si sta pensando a una cassa integrazione in deroga per quelle ore. In questo modo si integra il reddito del lavoratore e si contribuisce a fargli raggiungere i requisiti per accedere alla disoccupazione agricola”. Redazione Italia