Create due, tre, molte arche
NELLE GUERRE DEL CAPITALISMO, LA QUESTIONE CENTRALE SONO I BENI MATERIALI, NON
LE PERSONE. GOVERNI E MEDIA DESCRIVONO DETTAGLIATAMENTE LA DISTRUZIONE DI
EDIFICI, INSTALLAZIONI MILITARI E CENTRALI NUCLEARI, IL SUCCESSO O IL FALLIMENTO
DI RAID AEREI, MA IGNORANO LA SOFFERENZA DEGLI ESSERI UMANI. DEL RESTO QUELLI
CHE SONO IN ALTO SI PREOCCUPANO SEMPRE MENO, NON SOLO DURANTE LE GUERRE, DELLA
GENTE COMUNE. “SE NON LO FACCIAMO NOI DI SOTTO, SE NON CI PRENDIAMO CURA
COLLETTIVAMENTE, SAREMO NUDI DAVANTI AGLI OPPRESSORI”, SCRIVE RAÚL ZIBECHI.
INSOMMA, PER QUANTO SIA DIFFICILE DA ACCETTARE È CERTO CHE NON POSSIAMO PIÙ
ASPETTARCI NULLA DA NESSUN GOVERNO. SI TRATTA ALLORA DI COSTRUIRE ARCHE, MOLTE
ARCHE, CHE UNISCANO RESISTENZA, PROTEZIONE COLLETTIVA DALLA TORMENTA IN CORSO E
CREAZIONE DI UN MONDO NON CAPITALISTA. “NON È UNA RICETTA, NÉ UNA LINEA DA
SEGUIRE. È SEMPLICEMENTE UNA VERIFICA DI CIÒ CHE LA GENTE STA GIÀ FACENDO… IL
MONDO CHE CONOSCEVAMO STA GIUNGENDO AL TERMINE. PRIMA CHE UN ALTRO MONDO POSSA
NASCERE, VIVREMO UN CAOS SISTEMICO CHE DURERÀ DECENNI. SOLO L’ORGANIZZAZIONE
COLLETTIVA PUÒ ILLUMINARE QUEL FUTURO…”
A proposito di “quelli di sotto” e di organizzazione collettiva: Quarticciolo,
Roma, come tutte le periferie del mondo ha mille problemi, ma anche infinite e
spesso poco riconosciute capacità di autogestirsi per costruire qui e ora
qualcosa di diverso, come dimostrano l’ostinazione e la creatività della
Palestra popolare, del Doposcuola, del Polo civico, dell’ambulatorio popolare e
del gruppo di donne che ha fatto nascere perfino un piccolo quanto straordinario
Laboratorio di ristorazione (foto di Riccardo Troisi)
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Nelle guerre del capitalismo, la questione centrale sono i beni materiali, non
le persone. Governi e media descrivono dettagliatamente, con abbondante
materiale grafico e audiovisivo, la distruzione di edifici, installazioni
militari e centrali nucleari, il successo o il fallimento di raid aerei e lanci
di missili, ma ignorano la sofferenza degli esseri umani, che non considerano
più nemmeno “danni collaterali”.
Nella guerra tra Stati Uniti e Israele contro l’Iran, le persone non esistono.
Questo rivela il vero volto del sistema, interessato solo ai beni di valore
creati dal capitale, che serve sia materialmente che simbolicamente. Gli
analisti geopolitici sono più preoccupati dalla possibile chiusura dello Stretto
di Hormuz, dal prezzo del petrolio e dal flusso globale di merci, che
dall’impatto ambientale di queste guerre ipertecnologiche e dalle conseguenze
che hanno sulle nostre vite.
Si possono consultare decine di siti web e tutti i dati si concentrano sulle
ripercussioni delle guerre sull’economia e sui mercati azionari. Assistiamo,
infatti, alla sistematica esaltazione della morte rispetto alla vita, che sembra
non avere posto nel mondo del capitale. Inoltre, i trucchi della guerra,
l’inganno, la perfidia e la manipolazione mediatica della popolazione vengono
presentati come manovre brillanti, sebbene il loro obiettivo sia la distruzione
e la morte.
Donald Trump, per fare solo un esempio, ha detto che ci fossero due settimane di
tempo per negoziare la pace prima di attaccare l’Iran. Ma il giorno dopo ha
lanciato un’operazione pianificata da tempo. Ha poi affermato che la guerra era
finita, il che porta a credere che stesse pianificando di continuarla con
ulteriori bombardamenti. Con questa descrizione, non intendo criticare la
malvagità dei leader del sistema; sarebbe una perdita di tempo. Chiunque non
abbia le idee chiare non sarà convinto dalle nostre argomentazioni. Al
contrario, voglio riflettere sui nostri passi come individui e movimenti
anticapitalisti alla luce di ciò che le guerre attuali ci insegnano.
La prima lezione è non crederci, perché ogni parola, ogni immagine, ogni
discorso è una menzogna pensata per paralizzarci come individui e come persone.
La cosa peggiore è crederci quando si comportano in modo gentile e comprensivo,
quando parlano di pace e lotta alla povertà, per esempio. Le parole di Trump, di
chi è al potere, in generale, valgono “molto meno dell’urina di cane”, come ha
detto León Felipe, riferendosi alla giustizia del sistema.
La seconda è che la tormenta non fa che aumentare con queste guerre; la crisi
climatica è alimentata dall’inquinamento derivante dalla distruzione di Gaza e
da ogni bomba che esplode in qualsiasi parte del mondo, dove ci sono già undici
guerre, secondo il rapporto del Conflict Data Program dell’Università di
Uppsala. I territori bombardati in Ucraina, Gaza, Yemen, Israele, Libano e Iran,
tra gli altri, saranno inabitabili in futuro.
La terza è che non si preoccupano mai della gente comune. Quindi, se non lo
facciamo noi di sotto, se non ci prendiamo cura collettivamente, saremo nudi
davanti agli oppressori. È vero che alcuni governanti parlano bene, dicono
proprio quello che i governati vogliono sentire perché si sono specializzati in
quella scelta che chiamano sinistra o progressista. Ma non fanno niente contro
il sistema, contro la violenza narco-statale, contro le sparizioni e i crimini
che colpiscono popoli e persone di sotto. Per questo ci tocca proteggerci come
possiamo, sulla base delle nostre risorse, prima di tutto attraverso i lavori
collettivi, la minga, il tequio, che permettono allo stesso tempo di creare
nuove realtà e difenderle.
Ma la cosa più importante è la certezza che non ci si può aspettare nulla da
governi o stati. Seguendo il consiglio di Che Guevara quando il popolo
vietnamita resistette all’invasione e alla guerra degli Stati Uniti (“create
due, tre, molti Vietnam”), credo che si tratti di costruire arche, molte arche,
che uniscano resistenza, protezione collettiva dalla tormenta e creazione di un
mondo non capitalista. Non è una ricetta, né una linea da seguire. È
semplicemente una verifica di ciò che la gente sta facendo.
La più nota e più estesa, sia per estensione che per profondità, si trova nello
stato del Chiapas, guidata dall’EZLN. Ne conosco altre, come i consigli e le
riserve di Nasa e Misak a Cauca, in Colombia; le comunità Guaraní Mbya in
Brasile e le comunità Garifuna in Honduras; i quilombos e gli spazi di Teia dos
Povos e del popolo Mapuche, e molte altre su cui riceviamo commenti e
informazioni. Le guerre e le distruzioni in corso sono già parte del
collasso/tormenta.
Il mondo che conoscevamo sta giungendo al termine. Prima che un altro mondo
possa nascere, vivremo un caos sistemico che durerà decenni. Solo
l’organizzazione collettiva può illuminare quel futuro.
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Pubblicato anche su La Jornada (qui con l’autorizzazione dell’autore, che da
oltre dieci anni di prende cura anche di Comune).
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