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A Milano presentazione dell’albo illustrato “Strega!” per i bambini di Gaza
Sabato 13 dicembre 2025, ore 18:00 Associazione ChiAmaMilano, via Laghetto 2, Milano “Strega!” è una fiaba scritta da Mia Lecomte per i bambini di Gaza. Il libro è il risultato di un lavoro collettivo con gli illustratori Manuel Baglieri, Lenina Barducci, Federica Pagnucco e Andrea Rivola. Il progetto, volontario e gratuito, è stato curato da Emanuela Bussolati, Giulia Orecchia e Elena Spagnoli Fritze. Grazie alla traduzione araba di Farid Adly, la pubblicazione è bilingue. È edita dalla casa editrice Mesogea (Me). Il libro, oltre alla distribuzione italiana, servirà ad allietare le giornate dei bambini e bambine di Gaza che frequentano i corsi di istruzione e svago nei campi degli sfollati. Quando l’edizione digitale è arrivata nelle loro mani, le maestre di Gaza hanno esclamato: «Adesso possiamo coniugare istruzione a intrattenimento!» Il volume è stato pubblicato per sostenere “Ore Felici per i bambini di Gaza”, un programma di adozioni a distanza di orfani presi in custodia dall’associazione delle donne palestinesi Al-Najdah (Soccorso Sociale), che si batte per la parità di genere. Il progetto è curato dal circolo culturale siciliano dell’ARCI “ACM-Casa delle Culture” e da Anbamed, aps per la Multiculturalità. Tutto il ricavato sarà devoluto all’associazione Al-Najdah per finanziare la ricostruzione di uno dei Giardini d’infanzia (orfanotrofio) distrutti dai bombardamenti. Hanno collaborato: Mia Lecomte è una poetessa e scrittrice italo-francese. La sua produzione letteraria, tradotta in diverse lingue, è stata pubblicata in Italia e all’estero in raccolte personali e in numerose riviste e antologie. Traduttrice, è nota come critica e studiosa nel campo della letteratura transnazionale, in particolare della poesia. Fa parte del comitato di redazione di riviste e periodici italiani e internazionali ed è fondatrice e membro attivo del gruppo poetico-teatrale Compagnia delle poetesse. Coordina Linguafranca-sabir, blog collettivo di traduzione poetica per Il Fatto Quotidiano. https://www.mialecomte-ph.com/ Emanuela Bussolati progetta libri per la prima infanzia, li illustra e li scrive da 50 anni. Ha ricevuto il premio Andersen come autore completo e il premio alla carriera dell’associazione autori di immagini. Giulia Orecchia illustra e progetta libri per l’infanzia, giochi e laboratori. Tra gli altri, Premio Andersen come illustratrice, ospite d’onore a Sarmede, premio alla carriera Eleonora Nespolon. Elena Spagnoli Fritze si è occupata di marketing e pubblicità prima di dedicarsi alla traduzione, alla scrittura e alla consulenza editoriale, con particolare attenzione all’inclusione. È socia di uno studio di design e costellatrice. Il resto del tempo scorrazza su e giù per la montagna dove abita. Lenina Barducci, detta Nina, ha lavorato come restauratrice per anni, ma dopo aver frequentato la scuola di scrittura Bottega Finzioni e la scuola d’illustrazione Ars in Fabula, ha cominciato a scrivere racconti che dal 2020 hanno preso la forma di diversi albi illustrati. Nel 2025 ha ottenuto la menzione speciale opera prima BRAW 2025 alla Bologna Children’s book fair. Federica Pagnucco, illustratrice, vive in Friuli. Ama la carta e i pennelli. Le piacciono i viaggi, le lingue e la natura. Quando lava l’insalata dell’orto recupera l’acqua per bagnare i fiori. Odia le armi. Ha pubblicato diversi albi illustrati, è stata selezionata alla fiera di Bologna. Adora incontrare grandi e piccini, imbastire illustrazioni con chi non l’ha mai fatto e stupirsi delle idee. Manuel Baglieri, designer e arteterapeuta, disegna da solo quando illustra libri, in compagnia quando aiuta grandi e piccini a coltivare il proprio talento artistico. Collabora con enti pubblici e privati come libero professionista nell’ambito della grafica e dell’esperienza dell’Arte come strumento pedagogico e terapeutico. Andrea Rivola, laureato al Dams Arte di Bologna, vive a Riolo Terme (RA), immerso nei paesaggi campestri della Valle del Senio in compagnia di inseparabili e variegati personaggi creati dalle sue matite immaginifiche. Appassionato illustratore, ha pubblicato più di cinquanta libri in Italia e all’estero e collabora con il Corriere della Sera. Da vignaiolo tenace, impegna mani e creatività nella piccola cantina di famiglia, producendo vini che decantano la cultura leggendaria del territorio.   Farid Adly, giornalista libico di Bengasi, direttore editoriale della testata giornalistica online Anbamed. Collabora con il Corriere della Sera. Vive e lavora ad Acquedolci (Me). La presentazione presso la sede di ChiAmaMilano è promossa dall’Associazione Anbamed, aps per la Multiculturalità in collaborazione con l’Associazione ChiAmaMilano, Colibrì Caffè Letterario e l’Associazione Linguafranca-sabir.   Redazione Milano
Cosa resta della Misericordia? Alessandro Sipolo e Don Fabio Corazzina in un dialogo fra canzoni e parole
Sabato 29 novembre, ore 21:00 𝗖𝗼𝘀𝗮 𝗿𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗠𝗶𝘀𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗿𝗱𝗶𝗮? 𝗔𝗹𝗲𝘀𝘀𝗮𝗻𝗱𝗿𝗼 𝗦𝗶𝗽𝗼𝗹𝗼 e 𝗗𝗼𝗻 𝗙𝗮𝗯𝗶𝗼 𝗖𝗼𝗿𝗮𝘇𝘇𝗶𝗻𝗮 in un dialogo fra canzoni e parole Sala Sala Pesenti Marzanni (via Ss. Redentore) Ingresso gratuito (con possibilità di contributo libero) * 𝗔𝗟𝗘𝗦𝗦𝗔𝗡𝗗𝗥𝗢 𝗦𝗜𝗣𝗢𝗟𝗢 è cantautore, cooperante, ricercatore indipendente. Parallelamente all’attività musicale lavora, dal 2014, per il Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati e coordina, dal 2019, lo Sportello Rifugiati del Comune di Brescia. È inoltre fondatore e coordinatore della rassegna culturale Umanità Migrante e della Scuola Popolare Antimafia di Brescia, Bergamo e Monza. * 𝗗𝗢𝗡 𝗙𝗔𝗕𝗜𝗢 𝗖𝗢𝗥𝗔𝗭𝗭𝗜𝗡𝗔 è sacerdote da sempre impegnato nella difesa dei diritti degli ultimi, noto anche al pubblico televisivo per le sue posizioni pacifiste e progressiste. È stato coordinatore Nazionale di Pax Christi.   𝙊𝘽𝘽𝙇𝙄𝙂𝙊 𝘿𝙄 𝙋𝙍𝙀𝙉𝙊𝙏𝘼𝙕𝙄𝙊𝙉𝙀 𝘼: eventiparrocchiabagnatica@gmail.com 3496106668 Redazione Sebino Franciacorta
Napoli, 25 novembre: la violenza si combatte molto prima della violenza
Arte, scuola, istituzioni, cultura e testimonianze. Un’unica direzione: educare alla libertà. Le notizie arrivano così fitte che i volti delle donne sembrano quasi sovrapporsi, uno sull’altro, senza il tempo di essere riconosciuti. Quando pensiamo di aver trovato le parole giuste per l’ennesimo femminicidio, arriva sempre un nuovo giorno che ci costringe a riformularle. Riaffiorano allora immagini che l’Italia non riesce a dimenticare. La pancia di Giulia Tramontano, spezzata insieme al figlio che portava in grembo. Il volto giovane di Giulia Cecchettin. La vicenda di Tiziana Cantone, divorata dalla violenza digitale. La vita interrotta di Martina Carbonaro, a soli quattordici anni. La storia di Roua Nabi, uccisa nonostante il braccialetto elettronico al marito. Storie diverse, lontane tra loro, eppure accomunate dalla stessa radice: la cancellazione della libertà altrui. E ancora una volta, la cronaca recente ci obbliga a fermarci. A Qualiano, vicino Napoli, un uomo già denunciato, già sottoposto a codice rosso e ai domiciliari con braccialetto elettronico, ha manomesso il dispositivo, ha raggiunto l’ex compagna e l’ha colpita più volte con un coltello. È viva per miracolo, dicono i medici. Ma quante volte ancora dovremo affidarci alla parola miracolo dopo che tutto il resto non ha funzionato? Questo episodio, come altri, mostra che la repressione, pur necessaria, non basta. Spesso arriva dopo, quando è già tardi. La violenza sulle donne non si esaurisce nelle storie che finiscono in prima pagina, con un nome, una fotografia e una sentenza. Esiste un territorio sommerso, silenzioso e ostinato, fatto di manipolazione, controllo, dipendenza affettiva, svalutazione e isolamento. È una violenza che non lascia lividi sulla pelle, ma scava dentro, corrode lentamente la voce, l’autostima, la libertà interiore. È quella che ti convince che sei tu il problema, che stai esagerando, che forse te la sei cercata. È fatta di parole trattenute, telefoni controllati, amori che diventano confini, e di una casa che, invece di proteggere, diventa prigione emotiva. È una violenza domestica non perché avviene tra quattro mura, ma perché mette la paura dentro la vita. Ha un effetto farfalla. Genera altre fragilità, altre bambine cresciute nella sudditanza, altri bambini educati all’idea del possesso. Perché in un contesto dove non si è liberi non si può insegnare la libertà, e nessuno può trasmettere ciò che non ha il permesso di vivere. I dati ci obbligano a non voltare lo sguardo. In Europa una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale. In Italia il 31,5 per cento delle donne tra i sedici e i settant’anni ha subito violenza. Tra le ragazze più giovani quella psicologica raggiunge il 35 per cento. Nei primi sei mesi del 2024 sono stati denunciati 8.592 atti persecutori, e nel 74 per cento dei casi le vittime erano donne. Il 75 per cento delle italiane ritiene che la violenza psicologica non venga riconosciuta come tale. La prevenzione autentica comincia molto prima della violenza. Prima dei tribunali, delle misure cautelari e dei braccialetti elettronici. Comincia nell’infanzia, nelle famiglie e soprattutto nelle scuole. È un’educazione quotidiana quella che serve, fatta di rispetto, limite, empatia, consenso e libertà. In questa direzione si muovono anche alcuni provvedimenti oggi in discussione in Parlamento: il Disegno di Legge S 979, che propone di introdurre in modo strutturato l’educazione affettiva e sessuale nei programmi scolastici, e due proposte alla Camera, l’AC 2278, che riguarda l’educazione alle relazioni e al riconoscimento dell’identità di genere, e il C 2271, che disciplina le attività scolastiche sui temi dell’affettività e della sessualità prevedendo il consenso informato delle famiglie. È un segnale chiaro. Non è più possibile rimandare. Anche Napoli risponde, e lo fa attraverso linguaggi diversi: l’arte, la cultura, la memoria, l’esperienza, la cura. In Piazza Municipio, la ASL Napoli 1 Centro ha trasformato la riflessione in un’esperienza. All’interno di un grande cubo nero, simbolo del buio e dell’isolamento, si attraversa un labirinto sonoro fatto di voci, rumori, testimonianze e dati. Ogni passo è un frammento di paura, fragilità, controllo, ma anche resistenza. L’uscita è una Porta Rosa, luminosa, simbolo di rinascita. Fuori, operatori e volontari informano sui Percorsi Rosa attivi nei Pronto Soccorso cittadini, offrendo orientamento e protezione. La Direzione regionale Musei nazionali Campania ha diffuso il suo impegno lungo un’intera settimana, dal ventidue al ventinove novembre, trasformando musei e luoghi culturali in spazi di consapevolezza. A Montesarchio, la mostra fotografica Per Lei di Michele Stanzione racconta la presenza femminile attraverso luce, assenza e memoria. A Santa Maria Capua Vetere, l’Anfiteatro Campano si accende di arancione al crepuscolo, in un gesto collettivo che invita a dire insieme: accendiamo il rispetto. A Benevento, il Teatro Romano ospita studenti, psicologi e musicisti per riflettere sull’impatto invisibile della violenza. A Pontecagnano, una serata tra mito, danza e parola prova a immaginare relazioni libere da ruoli imposti. A Eboli, con Clitennestra o del crimine, il mito diventa voce contemporanea, che chiede ascolto e non solo giudizio. Anche il Teatro Trianon Viviani contribuisce a questo percorso. Il 25 novembre, dalle ore 10 alle 13, la Fondazione Campania dei Festival, insieme alla Regione Campania, promuove un incontro dedicato a studenti e famiglie, con interventi di istituzioni, associazioni e realtà impegnate nella tutela dei diritti e nella costruzione di una cultura del rispetto. È previsto anche un breve contributo artistico, con testimonianze e monologhi curati dall’Associazione Forti Guerriere, come forma di narrazione civile e restituzione della voce. Questi sono solo alcuni degli appuntamenti che Napoli e la Campania dedicano, lungo tutta la settimana, non a una celebrazione, ma a un impegno diffuso. Perché la consapevolezza non si costruisce in un giorno, e soprattutto non si costruisce da soli. Il venticinque novembre non è una data. È una domanda. A ciascuno di noi. E Napoli risponde mettendo al centro non solo la tragedia, ma la prevenzione. La cultura, l’ascolto, il linguaggio, la scuola, l’arte, la relazione. Perché la violenza si combatte molto prima della violenza. Nei gesti quotidiani. Nei bambini che imparano a rispettare. Nelle bambine che imparano a non abbassare gli occhi. Se vogliamo cambiare davvero questo tempo, dobbiamo ricominciare da lì. Dalle radici. Lucia Montanaro
“Anatomia di un fascismo” in scena a Roma dal 25 al 30 novembre, e poi in tour
“Che cos’è il fascismo? È un camuffamento, si nutre di paura, risponde alla paura con la violenza”: la voce e l’intensa interpretazione di Ottavia Piccolo ripercorre la vicenda esistenziale e politica di Giacomo Matteotti e l’ascesa di un fenomeno che non cessa di essere attuale. Quello di Ottavia Piccolo non è un monologo, ma un dialogo costante con I Solisti dell’Orchestra Multietnica di Arezzo, che intorno all’attrice si muovono, l’accompagnano, l’abbracciano. E ancora i video realizzati da Raffaella Rivi, che danno luce e consistenza alle frasi più significative. Un abile intreccio di musica (firmata da Enrico Fink) e parole, costruito e guidato dalla regia di Sandra Mangini, scritto da Stefano Massini, Matteotti – Anatomia di un fascismo è uno spettacolo che guarda al passato per meglio comprendere il presente, non solo attraverso le lenti della storia, ma con un appassionato ritratto di un uomo dal sangue caldo che qualcuno aveva soprannominato ‘Tempesta’. Ripercorre l’ascesa e l’affermazione di quel fenomeno eversivo che Matteotti seppe comprendere, fin dall’inizio, in tutta la sua estrema gravità, a differenza di molti che non videro o non vollero vedere. Il pericolo più grande, la malattia che fa morire un uomo è quella che non senti crescere. Matteotti li riconobbe: quelli che al caffè dietro il Duomo, a Ferrara, ordinavano il “celibano” perché non lo sapevano che “cherry-brandy” è inglese; quelli che dicevano di riportare ordine nel disordine, perché il fascismo ha assoluto bisogno di sentirsi in pericolo, di attaccare per non essere attaccato; quelli che, d’un tratto, sfilarono in migliaia dietro al Contessino Italo Balbo e si presero l’Italia intera. Giacomo Matteotti – l’oppositore, il pacifista, lo studioso, l’amministratore, il riformista, il visionario – prese la parola, pubblicamente e instancabilmente, nei suoi molti scritti e nei suoi moltissimi discorsi: una parola chiara, veritiera, fondata sui fatti, indiscutibile. Una parola che smaschera. Per questo fu ucciso all’età di 39 anni. La persistenza di questo stesso fenomeno, nel tempo e nello spazio, in forme vecchie e nuove, ci porta a considerare quanto sia indispensabile, oggi più che mai, occuparsi della cosa pubblica, del bene pubblico, guidati da un pensiero costruttivo, legalitario, partecipativo, paritario, realistico, competente, attraverso atti e parole chiare, come quelle di Giacomo Matteotti e di sua moglie Velia: sono le parole della regista Sandra Mangini. Lo spettacolo è prodotto da Argot Produzioni e Officine della Cultura in coproduzione con Fondazione Sipario Toscana Onlus – La città del Teatro, Teatro delle Briciole – Solares Fondazione delle Arti e Teatro Stabile dell’Umbria con il contributo del Ministero della Cultura e della Regione Toscana. Nasce da un testo di Stefano Massini, per la regia di Sandra Mangini, con i video di Raffaella Rivi e le musiche di Enrico Fink. I Solisti dell’Orchestra Multietnica di Arezzo sul palco sono: Massimiliano Dragoni (hammer dulcimer, percussioni), Luca Roccia Baldini (basso), Massimo Ferri (chitarra), Gianni Micheli (clarinetto e basso), Mariel Tahiraj (violino), Enrico Fink flauto (ewi). La scena è di Federico Pian, le luci di Paolo Pollo Rodighiero, i costumi sono a cura di Lauretta Salvagnin. Il vestito di Ottavia Piccolo è realizzato da La sartoria – Castelmonte onlus, il tecnico delle luci è Emilio Bucci. Il coordinamento tecnico è di Paolo Bracciali, l’organizzazione di Stefania Sandroni e in amministrazione c’è Rossana Zurli. Il fonico è Vanni Bartolini e il macchinista Lucia Baricci. Lo spettacolo debutta a Roma nel Teatro Vittoria, dove è in scena da martedì 25 a domenica 30 novembre (ogni sera alle ore 21 tranne mercoledì 26 novembre alle ore 17 e domenica 30 novembre alle ore 17,30 – biglietti). Un lungo tour attraversa le principali città italiane – tra cui Parma, Ivrea, Udine, Firenze – e prosegue fino ad aprile. La durata dello spettacolo è di 70 minuti.   MATTEOTTI – ANATOMIA DI UN FASCISMO A Roma – Teatro Vittoria: * Martedì 25 novembre: ore 21 * Mercoledì 26 novembre: ore 17 * Giovedì 27 novembre: ore 21 * Venerdì 28 novembre: ore 21 * Sabato 29 novembre: ore 21 * Domenica 30 novembre: ore 17,30 prossime date del TOUR 2025-2026 * 3 dicembre : Gallarate – Centro Culturale del Teatro delle Arti * 4 dicembre : Varzo – Teatro Alveare * 5 dicembre : Concordia – Teatro del Popolo * 6 dicembre : Modigliana – Teatro dei Sozofili * 8 dicembre : Parma – Teatro del Cerchio * 9 dicembre : Mondovì – Teatro Baretti * 10 dicembre : Ciriè – Teatro Magnetti * 13 gennaio  : Tortona – Teatro Civico * 14 gennaio : Omegna – Teatro Sociale * 15 gennaio : Ivrea – Teatro G. Giacosa * 16 gennaio : Savigliano – Teatro Milanollo * 27 gennaio : Ferrara – Teatro Comunale * 28 gennaio : Stradella – Teatro Sociale * 29 gennaio : Pinerolo – Teatro Sociale * 4 febbraio : Alghero – Teatro Civico * 5 febbraio : Tempio Pausania – Teatro del Carmine * 4 marzo Udine : Teatro Nuovo Giovanni da Udine * 5 marzo : Camponogara (Venezia) – Teatro Comunale Dario Fo * 6 marzo : Mercato Saraceno – Teatro Dolcini * 21 marzo : Polistena – Auditorium Comunale * 22 marzo : Filadelfia – Auditorium Comunale Filadelfia * 25 marzo : Livorno – Teatro Goldoni * dal 26 al 29 marzo : Ravenna – Teatro di Tradizione Dante Alighieri * 15 aprile : Rosignano – Teatro Solvay * dal 16 al 18 aprile : Firenze – Teatro della Pergola * 19 aprile : Narni – Teatro Comunale Giuseppe Manini * 23 aprile : San Stino di Livenza – Teatro R. Pascutto     Redazione Italia
Nella prospettiva di ‘Sostenere il futuro’… la realtà ha superato la fantasia
Il testo della (mia) lettera che sostituisce i previsti “interventi semi-seri e ludopatetici” in programma al vernissage della rassegna di opere e performance artistiche SOSTENERE IL FUTURO – SOSTENIBILITÀ DIGITALE: UNA SFIDA TRA OMBRE E POSSIBILITÀ . Quiz che l’IA… non capisce con Pressenza a ‘Sostenere il futuro’ Mi scuso con curatori e pubblico della mostra, ma per cause di forza maggiore non sono riuscita ad arrivare, perché nemmeno partire… e il titolo del (mio) intervento a distanza è modificato. Non più INTERVENTI… al plurale, perché interattivi e corali, bensì un breve MONOLOGO SEMISERIO e non LUDO-PATETICO ma DAVVERO PARADOSSALE, perché la mia assenza dimostra proprio che  – come proverbialmente la fantasia, o fantascienza – nel presente l’IA [ INTELLIGENZA ARTIFICIALE ] supera oltre che l’immaginazione anche la razionalità umana. Quando sono stata invitata al vernissage prima di confermare la presenza ho controllato  – ovviamente online, sul sito delle FFSS  – gli orari dei treni in andata e ritorno per e da Vigevano in data odierna e così, in base alle indicazioni, ero certa che oggi potessi aggregarmi agli artisti che espongono opere e presentano performance sul tema SOSTENERE IL FUTURO … UNA SFIDA… Se invece non sono qui adesso con voi è perché oggi la stazione di partenza oggi era chiusa (foto in alto) e invece che raggiungere la destinazione sono tornata a casa… con le proverbiali ‘pive nel sacco’. C’era uno sciopero indetto dal sindacato ORSA di cui condivido gli obiettivi: far sapere alla gente che Trenord non è collaborativa con i dipendenti per “affrontare e risolvere le criticità presenti in tutti i settori aziendali, sia sotto il profilo normativo che economico”. Non lo sapevo… e qualcuno mi dirà: “Ma dai, in che mondo vivi?”. Eh, vivo nel ‘mondo’ in cui chi, non avendo soldi per permettersi un’automobile o essendo – come me, non integerrima e integralista, però coerente – ambientalista non la possiede e dell’attivazione della linea ferroviaria nella città in cui abita ha appreso dalle notizie annunciate con tanta enfasi dai politici ‘di turno’, quando deve prendere un treno per andare al lavoro, a scuola, o all’ospedale oppure per diletto trova le informazioni online sul sito delle FFSS… … in cui di questo sciopero oggi non era riferito niente, ovviamente. Vivo in ‘questo mondo’ devastato da guerre che a parole nessuno vuole e invece vengono incessantemente combattute, un mondo i cui governanti sono tanto premurosi e lungimiranti che investono i soldi pubblici in armamenti, e così ne distolgono dal finanziamento delle aziende pubbliche – cioè da sanità, istruzione,… trasporti – e dove gli strateghi sono così intelligenti da mandare le truppe al macello e a fare strage di soldati e civili con armi ipertecnologiche,… … intanto cercando di convincerci che per avere la pace tutti noi si debba fare qualche ‘sacrificio’, ovvero rinunciare al condizionatore – un bene di lusso il cui uso fa aumentare i gradi del clima ambientale arroventato dal surriscaldamento globale… – ma ben sapendo che invece il prezzo delle guerre tanto profittevoli per i produttori di armi sono le carneficine, le devastazioni ambientali e gli aumenti del riscaldamento d’inverno, del pane quotidiano e del costo della vita, quindi l’incremento della povertà. Vivo in un mondo i cui cittadini non vengono ascoltati da una classe dirigente di leader e manager che parlano dei prodigi dell’Intelligenza Artificiale con tanto entusiasmo… … e avrei voluto venire a Vigevano e insieme a voi immaginare il futuro sostenibile riflettendo sulla realtà attuale in modo non polemico, affrontando difficoltà, problemi e sfide in modo ludico proprio perché sono convinta che l’umanità possa superare gli ancora laceranti drammi del passato e le angosciose tragedie del presente solo grazie alla propria capacità, umana e solo umana, di scherzare su paradossi e assurdità. Vi avrei fatto ascoltare come la IA ha risposto a tre mie domande ‘demenziali’: * un dilemma esistenziale, Dio esiste ? * un enigma proverbialmente insolubile, È nato prima l’uovo o la gallina ? * una questione apparentemente surreale, La gallina è un animale intelligente ? Cosa mi ha impedito di farlo dimostra proprio di quanto siano necessarie, oltre che l’intelligenza umana con cui, ai calcoli ‘astronomici’ che l’IA produce in un battibaleno, anteporre le persone e i loro bisogni, anche l’arte, la cultura, l’immaginazione e la fantasia con cui aver fiducia in noi stessi e confidare che sia possibile vivere in un futuro sostenibile, cioè in mondo migliore di quello attuale. Maddalena Pronta a partire, con il mio ombrello preferito e ‘agghindata’ per l’occasione… PS – oggi, contemporaneamente, a Torino, alla stazione di Porta Susa…         Maddalena Brunasti
Trame di memoria e forme di riconciliazione
Il progetto espositivo ICONE di Rita Giliberto in mostra a Palermo allo spazio XXS Aperto al contemporaneo (dal 14 al 22 novembre 2025) si configura come un’indagine sulla sopravvivenza delle immagini familiari e sul loro potenziale trasformativo nel presente. Il titolo evoca la forza di questi ricordi visivi, capaci di oltrepassare la sfera privata per diventare “icone laiche”: non figure sacre, ma fulcri di memoria dove passato e presente si sfiorano, risvegliandosi nel gesto creativo dell’artista.  Il punto di avvio — il ritrovamento di un nucleo di fotografie nella casa di famiglia — costituisce un archivio minimo ma denso, in cui si intrecciano memoria privata, stratificazioni storiche e risonanze sociali. La scelta dell’artista di assumere tali materiali come fondamento del processo creativo indica un orientamento specifico: non la ricostruzione filologica del passato, ma la sua riattivazione attraverso dispositivi visivi capaci di generare nuovi significati.   Rita Giliberto, Lutto data di scadenza, 2025   La pratica adottata è fortemente processuale. Tecniche miste, collage, velature, sovrapposizioni pittoriche sono impiegate come strumenti di interrogazione dell’immagine. Le fotografie subiscono un trattamento materico che ne altera la leggibilità, sottolineando la loro natura ambigua di documenti e, al tempo stesso, di superfici espressive. Questa modalità operativa, che integra anche inserzioni di materiali d’epoca, frammenti testuali e ritagli, mette in campo un dispositivo di stratificazione che richiama pratiche della memoria basate sulla sedimentazione, sulla cancellazione e sulla riemersione. L’immagine non è mai un dato, ma un campo di tensioni, la superficie si fa pelle della memoria, luogo di contatto tra il visibile e l’invisibile. L’artista esplora la genealogia recuperando volti e presenze che, pur appartenendo all’ambito familiare, si aprono a una dimensione più ampia. L’anonimato parziale, la sfocatura, la perdita di riferimenti contestuali trasformano questi soggetti in figure liminari: non ritratti, ma “presenze”; non rappresentazioni, ma soglie. Li attiva come icone laiche della memoria, custodi di una verità affettiva che supera il privato. In questo senso, l’avvicinamento a pratiche come quelle di Boltanski e Kiefer non è citazionistico, ma analitico: ciò che si condivide è la capacità di far diventare la materia un luogo di storia, ferita e possibilità. L’allestimento è pensato come un percorso non lineare, articolato secondo criteri di prossimità emotiva e visiva. Tuttavia, dietro questa apparente fluidità si riconosce una costruzione rigorosa dei rapporti formali: analogie di luce, continuità cromatiche, contrappunti gestuali e densità materiche organizzano un ambito espositivo che funziona come dispositivo di lettura. L’assenza di una cronologia esplicita sottolinea che il tempo evocato dalle opere non è storico, ma psichico: un tempo che ritorna, si modifica, si sovrappone. Chi visita l’esposizione è chiamato a muoversi in una topografia della memoria piuttosto che nella sequenza narrativa di un album.   Rita Giliberto, Casca il mondo (giro giro tondo)   A livello teorico, il progetto interroga la memoria come processo di cura. Non si tratta di un’elaborazione nostalgica, ma di un lavoro di riconciliazione che assume la fragilità dell’immagine come valore critico. Tale prospettiva si colloca nella tradizione di una cultura visuale delle donne intesa come pratica relazionale, capace di trasformare l’origine in un movimento continuo di ascolto e restituzione. In questo contesto, il riferimento al femminismo va oltre la dimensione critica — presente in opere come Lutto: data di scadenza o La scelta giusta, dove vengono messi in discussione modelli patriarcali di comportamento imposti alle donne — e si estende alla costruzione di un’etica della relazione che informa il metodo stesso: il lavoro sulla memoria come atto di responsabilità, di continuità e di rigenerazione simbolica. La collocazione del lavoro nell’orizzonte più ampio delle ricerche contemporanee sulla memoria permette, infine, di leggerlo come dispositivo di traduzione: tra personale e collettivo, tra documento e immaginazione, tra ferita e riparazione.  Il processo si manifesta come un movimento continuo, in cui la materia e il visibile diventano strumenti di ascolto e di apertura, creando connessioni tra passato e presente, tra memoria e immaginazione. E ogni opera diviene così un’unità concettuale autonoma e, al tempo stesso, parte di un sistema: un nodo della rete che ritessendo l’origine rinnova il rapporto tra soggetto, storia e mondo. Redazione Palermo
HOPE – La rinascita attraverso il dolore: quando il corpo diventa linguaggio
Il nuovo lavoro di Matteo Anatrella usa il corpo nudo come linguaggio essenziale, vulnerabile e potentissimo. La bellezza salverà il mondo? La domanda resta aperta, ma una cosa è certa: l’arte continua a mostrarci ciò che spesso non vogliamo vedere. È un linguaggio che non consola, ma rivela; che non nasconde, ma espone l’essenziale. E quando sceglie il corpo come strumento, lo fa nella sua forma più sincera, priva del superfluo. In questa nudità, vulnerabile e potentissima, nasce HOPE , il nuovo lavoro di Matteo Anatrella. Nel video HOPE , la figura femminile emerge dal simulacro della sofferenza per ritrovare sé stessa. Un percorso visivo e simbolico che trasforma il corpo in linguaggio universale di libertà. HOPE è un’opera intensa e viscerale del videoartista napoletano Matteo Anatrella, realizzata nell’ambito di Anema Project, una ricerca visiva che esplora i confini tra arte, corpo e spirito. Il video si apre con un’immagine quasi claustrofobica: una figura femminile, velata di bianco, chiusa in un involucro che ricorda un sudario insanguinato. È il simbolo di una prigionia interiore, della paura e del dolore che immobilizzano l’essere umano. Poco a poco, il corpo inizia a muoversi e a liberarsi. La pelle si ripulisce lentamente dal sangue, metafora di ferita ma anche di vita che pulsa, di rinascita che passa attraverso il dolore. Il movimento della modella, Giada Onofrio, è allo stesso tempo contorto e liberatorio: ogni gesto diventa un atto di resistenza e un grido di speranza. Nella sequenza finale, la figura alza le mani verso l’alto, i palmi aperti verso chi guarda. È un gesto che contiene insieme resa e rivelazione, vulnerabilità e potenza. L’essere umano, spogliato di ogni maschera, torna a respirare e ad affermare la propria esistenza. La forza dell’opera sta nel suo linguaggio visivo puro, privo di parole ma capace di evocare con immediatezza la condizione umana: la sofferenza, la trasformazione, la speranza. Il lavoro si inserisce nel percorso di Anema Project, che unisce arte visiva, performance e ricerca spirituale in una visione condivisa da Annarita Mattei, con la collaborazione di Aldo Romana come primo assistente, Giuseppe Maturo come fotografo di backstage e Luca Anatrella per l’editing. HOPE si lega idealmente a un altro progetto di Matteo Anatrella: In Memoriam – Manifesto Visivo , presentato ai Magazzini Fotografici di Napoli nel maggio 2025. In quell’occasione l’artista, insieme al team di Anema Project, trasformò lo spazio espositivo in un luogo di commemorazione e denuncia, invitando decine di donne a offrire il proprio corpo e il proprio volto contro il femminicidio. Il corpo vivo, guidato a terra e chiuso in un sacco scuro, diventava simbolo di assenza e resistenza. Un atto corale, politico e poetico, capace di rendere visibile il lutto e la memoria attraverso la partecipazione diretta. Con HOPE , questa ricerca prosegue in una dimensione più intima e individuale, ma non meno universale. Se In Memoriam rappresentava il lutto collettivo, HOPE incarna la rinascita. L’interesse di Anatrella per i temi sociali non si limita alla violenza di genere. La sua visione artistica, richiamata anche in contesti di cittadinanza attiva e di autodeterminazione femminile, unisce interiorità e collettività, spiritualità e responsabilità. Le sue opere ci ricordano che la libertà passa attraverso la consapevolezza e che ogni gesto artistico può essere un atto di liberazione. In chiusura dell’articolo sarà possibile trovare il link al video HOPE e alcune immagini tratte dal backstage. La visione diretta è essenziale: nessuna descrizione può sostituire la forza del corpo che prende forma nell’immagine, il gesto che si compie, la trasformazione che accade sotto lo sguardo. Crediti Videoartista: Matteo Anatrella Produttore: Annarita Mattei Modella: Giada Onofrio Primo assistente: Aldo Romana Fotografo di backstage: Giuseppe Maturo Montaggio: Luca Anatrella Progetto: Anema Project DAL SET DI HOPE: ALCUNI MOMENTI DIETRO LE QUINTE” Il video https://www.instagram.com/reel/DQKLF3dCZG4/?igsh=eXF4bzZzODkxc245 Articolo “In Memoriam: la fotografia contro il femminicidio” > In Memoriam: la fotografia contro il femminicidio Lucia Montanaro
HeART of GAZA: I cuori feriti dei bambini Gaza in mostra a Firenze
Da Martedì 4 Novembre a domenica 16 novembre 2025, in Piazza Madonna (ex Murate) della Neve a Firenze è possibile visitare gratuitamente, grazie alla collaborazione di assopacepalestina, la mostra “HeART o GAZA”, una mostra di disegni di bambini di Deir Al-Balah, al centro della Striscia di Gaza. Il progetto, nato dalla amicizia – collaborazione fra Mohammed Timraz e l’illustratrice irlandese Féile Butler, ha permesso di offrire un tempo, uno spazio di gioco e “normalità”, ai bambini di Gaza, che vivono dall’ottobre 2023 nel terrore dei bombardamenti, la distruzione delle case, delle scuole, degli ospedali, la mancanza di cibo, acqua, cure sanitarie. Questo progetto ha consentito di far uscire i disegni dei bambini fuori dai confini della striscia per raggiungere il mondo attraverso questa mostra itinerante, testimoniare la situazione di Gaza attraverso i loro disegni e sostenere il progetto “We are not alone“. Abbiamo intervistato Mohammed Timraz (@mohammed_timraz_10), ricercatore palestinese che ora vive a Parma e studia Art terapy presso l’università. Pressenza Moahamed, chi è stato in Palestina in Cisgiordania e in particolare a Gaza, anche se è palestinese, ha una grande ferita nel cuore in questo momento vedendo la situazione di distruzione e disastro umanitario ed è per questo che ogni giorno e molte notti cerchiamo di fare qualche piccola cosa, dare un piccolo contributo, per cambiare le cose. Mohammed Lo so, lo so. Le persone che hanno una humanità sentono questo. Avete visto la mostra a Firenze? Cosa ne pensate? Pressenza Le cose che abbiamo visto e che ci hanno colpito nel vedere qui disegni dei bambini è il tentativo di rendere belle e felici alcune situazioni drammatiche e come loro hanno descritto invece in modo molto crudo e vero il dolore, la distruzione e tutto quello che hanno subìto. Mohammed Ovviamente si può solo immaginare cosa un bambino può vedere attraverso i suoi occhi in questo tipo di situazione, ma i suoi sentimenti riguardano più il tentativo di sentire l’armonia in qualcosa che è catastrofico e terribile. In questo progetto abbiamo un obiettivo principale, che è cercare di rendere consapevoli i bambini e di renderli capaci di sentire le loro emozioni, il loro modo di vivere dentro questo genocidio, come stanno soffrendo e come stanno combattendo.  Sì, praticamente il progetto consta proprio di questo, cercare di far tirare fuori la voce dei bambini e di vedere in che modo hanno percepito il disastro, in che modo stanno soffrendo e cercare di tirar fuori i loro sentimenti. Pressenza Come è nato questo progetto? Mohammed Il progetto è nato a luglio 2024. Sai che il genocidio è iniziato il 7 ottobre 2023 ed io, conoscendo l’inglese, ho iniziato a pubblicare informazioni sulla situazione in Gaza sui miei social media. Ho un’amica irlandese che si chiama Féile Butler e con lei è partito il progetto.  Tutti i giorni parlavamo di come la situazione in Gaza fosse molto difficile, specialmente per il genocidio in atto. Ogni giorno, ogni mattina, mi mandava un messaggio: “come stai, sei ancora vivo?” – ” Alhamd lilhi! Grazie a Dio, sì!”  Sai che nessuno può rimanere in sicurezza in Gaza, è un genocidio, chiunque può essere il prossimo. Quindi ci sentivano e ci mandavamo aggiornamenti. Ogni giorno la nostra amicizia è diventata sempre più stretta e una volta in un messaggio mi ha mandato un disegno di sua figlia e io gli ho mandato alcuni disegni dei miei nipoti, Nour, Shahed e Sobhi, di 9, 7 e 5 anni. In uno di questi disegni, quello di Shahed era disegnato un bambino senza testa.  E quando abbiamo visto questo disegno abbiamo detto che non è normale che un bambino di 7 anni disegnasse una cosa così! Questo non poteva essere accettabile! E questo in effetti è uno dei disegni che c’è nella mostra. Da quel momento ho deciso di fare qualcosa per questo bambino che aveva 7 anni e gli altri coetanei. Quindi ho predisposto una tenda per fare dei laboratori per i miei nipoti e altri bambini, circa 20 in tutto. Giorno dopo giorno ho iniziato a fare alcuni laboratori per tutto il gruppo di bambini, cercando di farli lavorare su qualcosa che non riguardasse il genocidio, la sofferenza, ma ad esempio disegni sull’inverno, sul mare, sui fiori, le torte di compleanno. Farli uscire dalle loro paure, dal dolore, dai bombardamenti, era molto difficile, era un sogno! Perché loro, avevano vissuto e stavano vivendo il genocidio ma piano piano hanno iniziato ad uscire dalle sofferenze ed hanno cominciato a disegnare cose positive. In questo modo abbiamo cercato di raccontare e mostrare alle persone fuori da Gaza, cosa i bambini stessero affrontando e quanto soffrivano: far vedere come è la vita e lo stile di vita per i bambini che vivevano all’interno di un genocidio. Da quando mi è stato reso impossibile continuare la mia attività (Grey Cafè) mi sono occupato di questo progetto acquistando il materiale per disegnare, pagando l’affitto delle tende, gli psicologi, i fotografi e i volontari. Pressenza Dove operavate con questi laboratori? In quale parte di Gaza?  Mohammed Ho iniziato nella mia città, in Deir el-Balah, nel centro di Gaza, aiutato dalle due ragazze più grandi, Qamar e Misk. Ora da 20 bambini siamo arrivati a 2.000, in 17 tende e altri spazi: a Khan Yunis, al Mawasi, Deir al Balah, Nuseirat e Gaza City. Pressenza Mohamed ci puoi raccontare una storia particolare che hai vissuto, in negativo o in positivo, attraverso i disegni di questi bambini e il rapporto con loro? Un aneddoto, un’esperienza che ti ha colpito. Mohammed Ho già accennato alcune storie come quello del bambino senza testa. Ogni disegno in realtà aveva una storia terribile dietro. Una storia particolare è quella di un bambino di 7 anni, Hihsan, che disegnava sempre pesci e il mare, in tutti i laboratori. Anche se il tema del giorno era l’inverno lui disegnava i pesci e il mare. Capendo che questo nascondeva psicologicamente qualcosa gli chiesi del perché di questo ripetere sempre e disegnare sempre i pesci e il mare. Così è emerso che lui aveva perso suo padre durante questo genocidio e che prima lo portava sempre al mare, cosa che lo rendeva felice. Ogni volta che disegnava il mare, o un pesce, lui ricordava suo padre e si sentiva felice e questo era un modo per curare il suo cuore. Pressenza Quando sei venuto in Italia? Mohammed Sono qui in Italia da un mese, dal primo ottobre di quest’anno. Sono restato a Gaza per due anni, ho vissuto il genocidio per due anni. Pressenza Un’ultima domanda: che evoluzione vorresti che avesse questo progetto? Sia per aiutare i bambini gazawi a tirare fuori i loro “cattivi” pensieri, le loro sofferenze, i loro sogni, ma anche per aiutare l’opinione pubblica, il resto del mondo a conoscere la situazione in modo più profondo, attraverso gli occhi, le emozioni e le sofferenze dei bambini. Mohammed Per ora continueremo con questo progetto, perché i bambini lo meritano ed è importante mantenere questo percorso e farlo crescere via via. Perché come sapete tutte le scuole sono state distrutte e per gli alunni non c’è nessun luogo dove andare a studiare: con questo progetto, intanto, gli abbiamo dato un luogo dove lavorare, studiare e fare queste attività.  Abbiamo anche altri progetti per il futuro. Stiamo lavorando per creare un sito web per il progetto e per cercare di raggiungere più bambini possibile.  Abbiamo già fatto un libro e quindi stiamo cercando, giorno dopo giorno e mese dopo mese, con i miei meravigliosi collaboratori, di portare avanti nuove idee. Vorrei dire qualcosa di più: non sono solo un ricercatore, sono qui a studiare e sto mandando un messaggio per la mia società, per la mia famiglia, per le persone qui, per conoscere la realtà, per conoscere la verità. E questa è l’unica arma che abbiamo in un contesto dove c’è comunque una contropropaganda, per non fare emergere la verità: hanno ucciso più di 300 giornalisti in Gaza, per impedirgli di vedere e raccontare la realtà. E si sta continuando ad uccidere anche durante la tregua, compreso un giornalista, Saleh: non vogliono testimoni a raccontare quello che sta succedendo. Uno dei miei sogni per il futuro è, se le cose andranno bene, tornare a Gaza per creare un’associazione, un edificio per i bambini di Gaza, per il cuore di Gaza. Vediamo… Io sono sempre lì, sento che sono come un corpo senza cuore, sento che il mio cuore rimane lì, per esempio, dormo solo al massimo 4 ore al giorno: è davvero difficile, sai. Iin sha’ allah!. Thank you! La mostra è gratuita, ma soggetta a copyright. Per informazioni consultare i canali social di HeArt of Gaza.   HeART of GAZA a Firenze Mohammed Timraz e disegni di bambini di Deir Al-Balah Mohammed Timraz e disegni di bambini di Deir Al-Balah Mohammed Timraz e disegni di bambini di Deir Al-Balah disegni di bambini di Deir Al-Balah Mi porta con sé senza più la testa, la sua tragedia e la sua tristezza sanguinano in lacrime blu, un incendio e molte vite spezzate, tra cui la mia. Il mio compleanno a casa della nonna, dopo che siamo stati sfollati da casa nostra, a Khan Younis. La nonna ha fatto [la torta] con l'ananas, e io ho compiuto otto anni. Hihsan, che disegnava sempre pesci e il mare Un messaggio di Shahed alla mamma: "Dalle nuvole piovono colori come cuori variopinti per rendere i bambini felici, proprio come me" Quando scompaiono le case significa che in un battito d'occhio scompaiono i ricordi, i parenti ei vicini. A loro si sostituiscono i frammenti che riempiono e ricoprono tutto, e gli incendi non si placano Sabrin, bambina martire. Un giorno correva sulla battigia; il giorno dopo la sua famiglia fuggiva, con lei awolta nel sudario   Paolo Mazzinghi
Il potere estetico come forma di governo
Un tempo relegata ai margini del sapere, l’estetica è oggi al centro delle tecnologie del potere. Estetiche investigative svela come immagini, emozioni e… L'articolo Il potere estetico come forma di governo sembra essere il primo su L'INDISCRETO.
La via del Poeta Pierpaolo Pasolini, cinquant’anni dopo
A cinquant’anni dal suo assassinio, ho riletto le principali raccolte poetiche di Pier Paolo Pasolini: Le ceneri di Gramsci (1957), La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di Rosa (1964), Trasumanar e organizzar (1971). Rileggendo il Poeta, mi sono chiesto di poesia in poesia quale fosse quella a me più cara o almeno quella a noi più contemporanea. Non è stato facile decidersi per l’una o per l’altra poesia, ma alla fine la scelta è caduta su Profezia, dedicata “A Jean Paul Sartre, che mi ha raccontato la storia di Alì dagli Occhi Azzurri” scritta nel 1962 e poi pubblicata in Poesia in forma di Rosa. La profezia di Pasolini si riassume in questi versi apocalittici, eppure aperti alla speranza, in cui già alla metà degli anni Sessanta immaginificamente si descrive la migrazione dei tanti “Alì dagli Occhi Azzurri” che sarebbero sbarcati sulle nostre coste: Alì dagli Occhi Azzurri uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi. Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sè i bambini, e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua. Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali. Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camice americane. Subito i Calabresi diranno, come malandrini a malandrini : “Ecco i vecchi fratelli, coi figli e il pane e formaggio!”   Solo un profeta poteva intravedere così lucidamente il futuro. Se dovessi indicare un chierico del Novecento per rappresentare la resistenza e l’impegno degli intellettuali oggi, non avrei dubbi a fare il nome di Pasolini, un intellettuale debole e antimilitarista, critico inesorabile del tecno-fascismo, antropologicamente comunista eppure “reazionario” perché nostalgico del mondo contadino, trasparente nella sua sfida omosessuale quando il prezzo da pagare era molto alto, irregolare, incollocabile, irriducibile a ogni appartenenza finanche a quella dell’anticonformismo militante, paradossalmente liberale nell’estrema difesa della sua individualità, rappresentante ostinato della singolarità, dell’alterità e dell’antinomia. Come più volte è emerso nelle conversazioni sul “nostro” Poeta che ho avuto con l’amico Marco Scarnera, l’idea che la nonviolenza sia la R/resistenza di oggi traspare dalla vita e dall’opera di Pasolini, testimone disperato di “una resistenza al fascismo, inteso non tanto come fenomeno storico circostanziato, quanto specialmente come minaccia autoritaria strutturale, sempre incombente e (contro)operante, nelle democrazie (post)moderne”. A un capo dell’opposizione c’è in senso lato il fascismo all’altro capo in senso specifico la democrazia nella forma della nonviolenza. Il Pasolini a cui si fa riferimento, insieme al Poeta, è in particolar modo l’autore degli Scritti corsari[1]composti negli ultimi anni della sua vita e compresi nel volume omonimo, uscito il 6 novembre di quell’anno, pochi giorni dopo il suo assassinio, che qui si propone di rileggere nella prospettiva di una resistenza nonviolenta. Una prospettiva per la quale il Poeta mostra un interesse se non una adesione: “In tutta la mia vita – scrive in un Frammento inedito raccolto nel volume – non ho mai esercitato un atto di violenza né fisica né morale. Non perché io sia un fanatico della non-violenza. La quale, se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anch’essa violenza. Non ho mai esercitato nella mia vita alcuna violenza né fisica né morale semplicemente perché mi sono affidato alla mia natura cioè alla mia cultura.”[2] Nell’ultima intervista da lui rilasciata il 1° novembre 1975 e pubblicata postuma il 3 novembre in “Stampa Sera”, con il titolo “Oggi sono in molti a credere che c’è bisogno di uccidere”, quasi presagendo la violenza che sta per abbattersi su di lui, il Poeta scaglia la sua denuncia-testamento: siamo tutti potenziali “nuovi assassini”. Dopo essere sceso all’inferno, torna avendo visto “altre cose, più cose”, non porta una buona novella ma una verità terribile: “Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale.”[3] Alla domanda di Furio Colombo: “Che cos’è il potere, dov’è, dove sta, come lo stani?”, Pasolini risponde: “Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogatori e soggiogati. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano allo stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso la spranga faccio la mia violenza per ottenere quello che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e buono.”[4]  La tragedia è che “non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra.”[5] Siamo immersi in “una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe.”[6] La divisione classica tra deboli e potenti, vittime e colpevoli, buoni e cattivi si è fatta più sfumata, meno chiara e netta, perché, “in un certo senso, tutti sono i deboli perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere”. Agli oppressi che volevano “abbattere quel padrone turpe senza diventare quel padrone”, si sono sostituiti “altrettanti predoni che vogliono tutto a qualunque costo”.[7] Pare che siamo nelle mani di un “macchinista impazzito o di un “criminale isolato” oppure alla mercé di un complotto: “Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità.”[8] Che cosa fare? Pasolini “rimpiange”, ma non crede più alla “rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa”.[9] La risposta del Poeta è quella di uno “strano profeta, agile, in guardia, proprio perché disarmato e separato da ogni forma di protezione e alleanze” (Furio Colombo): “Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che viene con maschere e bandiere diverse. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato la ‘vita violenta’. Non vi illudete.”[10] L’esempio ci viene dalla storia: “Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto, per funzionare, deve essere grande, non piccolo, totale, non questo o quel punto, ‘assurdo’, non di buon senso.”[11]  Il rifiuto a cui siamo chiamati consiste nel dire No alla violenza che “non lascia più vedere di che segno sei”.[12] La via è quella indicata dal Poeta: contrastare l’educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti ad avere, possedere, distruggere con una educazione personale, libera, giusta che ci insegna a dare, liberare, costruire.   [1] P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975. [2] Ivi, p. 296. [3] P.P. Pasolini, Interviste corsare. Sulla politica e la vita 1955-1975, a cura di Michele Gulinucci, liberal – Atlantide Editoriale, Roma 1995, pp. 292 e 295. [4] P.P. Pasolini, Interviste corsare. Sulla politica e la vita 1955-1975, cit., p. 295. [5] Ivi, p. 294. [6] Ivi, p. 295. [7] Ivi, p. 296. [8] Ivi, p. 294. [9] Ivi, p. 297. [10] Ivi, pp. 292 e 295. [11] Ivi, p. 292. [12] Ivi, p. 296. Pietro Polito