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ATTACCO USA AI SITI NUCLEARI IN IRAN. ANALISI E COMMENTI SU RADIO ONDA D’URTO
Il mondo resta in attesa di capire cosa accadrà dopo che tra sabato 21 e domenica 22 giugno gli Stati Uniti sono entrati in guerra a fianco di Israele contro l’Iran bombardando i 3 sisi nucleari iraniani di Fordow, Isfahan e Natanz. Il presidente Usa Trump ha parlato di un “grande successo” degli attacchi che – dice – avrebbero annientato “tutti i siti nucleari”, notizia che però non trova conferme. Al contrario, il regime di Teheran, avvertito dagli Usa dei raid imminenti, prima degli attacchi avrebbe trasferito in località segrete le materie prime e i macchinari per mettere in sicurezza il programma nucleare. Il tycoon – smentendo ancora una volta se stesso, il suo staff e gli altri esponenti del suo governo – è anche tornato a fare riferimento all’opzione del cosiddetto “regime change” nonostante lui stesso avesse più volte affermato che questo non rientra negli obiettivi Usa: “Se l’attuale regime iraniano non è in grado di rendere l’Iran di nuovo grande, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime?”, ha scritto provocatoriamente sul suo social network lanciando il surreale acronimo “MIGA, Make Iran Great Again”. Il Parlamento iraniano, intanto, discuterà un disegno di legge sulla sospensione della cooperazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Non solo, dopo gli attacchi delle scorse ore l’Iran ha minacciato di “serie conseguenze” gli Stati Uniti, facendo riferimento a un “ampliamento” della guerra. Intanto oggi, lunedì 23 giugno, il ministro degli esteri iraniano Araghchi incontra il presidente russo Putin per chiedere maggiore sostegno alla Federazione russa. Un cambio di regime non può avvenire per decisione di “paesi terzi”, ha detto il portavoce del Cremlino Peskov. Allineato, su questo, il ministro degli esteri francese Barrot, mentre la Repubblica popolare cinese ha chiesto di nuovo che i lavori per una de-escalation. Le attenzioni degli stati, degli attori economici internazionali, ma anche di lavoratori e lavoratrici di tutto il mondo, alle prese con il carovita e condizioni sempre più dure anche a causa di guerre e riarmo, si concentra anche sulle conseguenze economiche dell’ulteriore escalation in Medio oriente segnata dai raid Usa in Iran. Il prezzo del petrolio, infatti, è già salito di oltre il 4 per cento, quello del gas è aumentato di due punti percentuali. Se Teheran dovesse decidere di chiudere lo stretto di Hormuz, dal quale transita il 30% per cento del petrolio mondiale e un quinto del gas naturale liquefatto, le conseguenze sull’economia globale, in particolare sul costo dell’energia, sarebbero pesanti. La decisione finale sulla chiusura spetta al Consiglio supremo di sicurezza nazionale iraniano. A pagare il prezzo maggiore sarebbe l’Europa. In caso di chiusura di Hormuz, infatti, Bruxelles non avrebbe altra scelta che comprare tutto il petrolio e il gas di cui necessita dagli Stati Uniti, gli unici a guadagnarci, vista anche l’impossibilità di acquistare dalla Russia per via delle sanzioni relative alla guerra in Ucraina. Continuano intanto gli attacchi incrociati tra Israele e Iran. Nelle ultime ore si segnalano bombardamenti intorno alla capitale iraniana Teheran e sui siti nucleari iraniani. I caccia di Tel Aviv hanno colpito di nuovo anche la sede della tv pubblica, mentre l’Iran continua a lanciare batterie di missili balistici dirette verso lo stato israeliano. Nel sud di Israele è stata colpita un’importante infrastruttura elettrica e l’energia risulta interrotta. A partire dalla mattinata di lunedì 23 giugno 2025, la redazione di Radio Onda d’Urto raccoglie analisi e commenti sulla situazione: * Rafat Ahmad, giornalista iraniano. Ascolta o scarica. * Martino Mazzonis, giornalista, americanista e nostro collaboratore. Ascolta o scarica. * Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea e Storia della globalizzazione presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa. Ascolta o scarica. * Michele Giorgio, corrispondente da Gerusalemme de Il Manifesto, direttore di Pagine Esteri e nostro collaboratore. Ascolta o scarica.
La battaglia di Los Angeles e le manifestazioni “No Kings” negli Usa
L’INIZIO DELLE MANIFESTAZIONI A LOS ANGELES Dal 6 giugno la popolazione della città californiana è insorta contro le deportazioni operate dalla Immigration and Customs Enforcement (ICE), il distaccamento della polizia statunitense incaricato di catturare, spesso illegalmente e senza mandato, le persone considerate come irregolari, per poi imprigionarle e cacciarle dal Paese senza la garanzia del rispetto dei loro diritti fondamentali. L’ICE è ribattezzata la “migra”, abbreviazione di migración, un termine in lingua spagnola per riferirsi all’ente statale deputato al controllo dei movimenti degli esseri umani attraverso le frontiere. “Chinga la migra”, dove chinga significa “fotti”, è la parola d’ordine delle proteste. Le prime proteste sono cresciute, e nei giorni che sono seguiti la mobilitazione ha preso forme moltitudinarie, con decine di migliaia di manifestanti che hanno sfilato nella città e in tutto il Paese. In risposta, l’esecutivo ha mobilitato la Guardia nazionale, accentuando la tensione e i conflitti nella città. Il video-racconto di Luca Celada per DINAMOpress. LA RIVOLTA SI ESTENDE IN TUTTO IL PAESE Sabato 14 giugno in decine di migliaia hanno sfilato nelle città statunitensi per manifestare contro la repressione e il governo autoritario di Donald Trump. Le mobilitazioni hanno toccato decine di città, tra cui Los Angeles, l’epicentro della rivolta. Le e i manifestanti hanno intonato cori contro il presidente e hanno ribadito che non c’è pace senza giustizia e che nessuna persona può essere considerata illegale su una terra rubata, sottolineando la matrice colonialista dello Stato. Il video-racconto di Luca Celada per DINAMOpress Immagine di copertina di Luca Celada SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo La battaglia di Los Angeles e le manifestazioni “No Kings” negli Usa proviene da DINAMOpress.
Tra bombe, sanzioni e retoriche di potere: resistere in Iran
Cronache e prime riflessioni mentre cadono le bombe su Teheran. L’IRRUZIONE DELLA GUERRA NEL CUORE DELLA NOTTE Erano le due del mattino. Una videochiamata con un’amica a Teheran si è trasformata all’improvviso nella visione in diretta di un incubo: la prima ondata dell’attacco israeliano contro l’Iran. Le case tremavano, il cielo era attraversato dai rumori dei missili e dei bombardamenti e le strade erano sommerse dal fumo, dalle urla e dall’abbandono. Lo Stato era assente: nessun rifugio, nessun piano, nemmeno un avvertimento. Ancora una volta, un popolo dimenticato veniva sacrificato sull’altare di un progetto geopolitico mortale. Per comprendere questa situazione, è necessario andare oltre la tradizionale cornice dello Stato-nazione e della politica di potenza. Ciò che accade oggi può essere interpretato come la continuazione di un “regime di guerra” nel cuore stesso del capitalismo globale – un regime che non si fonda solo sull’occupazione militare, ma sulla riproduzione della paura, sull’eliminazione dei soggetti politici e sull’organizzazione sistematica della morte. Come affermano Sandro Mezzadra e Michael Hardt, i regimi bellici contemporanei non si definiscono più tramite occupazioni tradizionali, ma attraverso un insieme composito di tecnologie del controllo, gestione dei confini, operazioni psicologiche e distruzione delle condizioni di vita civili. Il regime di guerra è oggi parte integrante dello Stato-capitale globalizzato: una rete multilivello di governi, eserciti, appaltatori della sicurezza e media che portano avanti la guerra come meccanismo di produzione di potere, legittimità e accumulazione. > In Iran, una struttura politico-economica già gravemente colpita da > inflazione, povertà, corruzione sistemica e repressione, si rivela ora del > tutto incapace di proteggere i propri cittadini di fronte agli attacchi > esterni. Da città come Teheran, Karaj, Esfahan, Shiraz e Mashhad arrivano testimonianze che confermano l’assenza anche delle infrastrutture minime di allerta o rifugio. Le persone vengono a conoscenza degli attacchi solo dal rumore delle esplosioni. Madri e padri che cercano di salvare le proprie figlie i propri figli a mani nude; ospedali che, pur non essendo obiettivi militari dichiarati, si ritrovano paralizzati da interruzioni elettriche, sovraffollamento e in alcuni casi colpiti direttamente. Testimoni oculari a Teheran raccontano che, dalla mezzanotte fino all’alba, raffiche e esplosioni hanno squarciato il silenzio, facendo tremare più volte gli edifici. La gente ha cercato rifugio per strada, non solo per paura degli attacchi, ma anche per timore del crollo delle proprie case. «Il silenzio dopo l’esplosione», dice un residente, «è più spaventoso dell’esplosione stessa». In un altro resoconto locale, una donna del quartiere Niru-ye Havaei racconta di aver passato tutta la notte sulle scale con i suoi figli, convinta che fosse più sicuro lì che dietro le pareti di vetro dell’appartamento. A Esfahan, un’infermiera riferisce che il pronto soccorso del suo ospedale è stato gestito al lume di candela, senza elettricità né ossigeno. A Mashhad, un ragazzo scrive che sua madre ha avuto una crisi di panico, confondendo il rumore dei droni in cielo con quelli usati per la repressione durante le proteste del 2022. > Questo regime, attraverso una distribuzione asimmetrica della violenza, prende > di mira le strutture della vita stessa: elettricità, acqua, ospedali, scuole e > media. La distruzione delle infrastrutture civili non è più un effetto collaterale, ma parte integrante della logica bellica. Non è una guerra contro lo Stato, ma contro la capacità stessa delle persone di vivere. In questo senso, la politica di guerra è una politica contro la vita. L’ILLUSIONE LIBERATRICE All’inizio, Donald Trump, con un linguaggio coloniale e sprezzante, dichiarò che «per preservare il grande impero persiano, è meglio che l’Iran accetti un accordo con noi» — come se la storia dell’Iran non fosse altro che un’appendice da piegare ai sogni imperiali americani. Poco dopo, ha avuto inizio l’attacco israeliano. In una dichiarazione teatrale, Netanyahu si è rivolto al popolo iraniano affermando: «Non siete voi il bersaglio dei nostri attacchi, ma il regime e alcuni individui specifici». Questa distinzione fittizia, tuttavia, non è segno di etica, bensì parte integrante di un discorso bellico delle potenze globali, in cui la linea tra popolo e governo viene deliberatamente cancellata per rendere la morte legittima. Allo stesso tempo, le immagini della famiglia Pahlavi nei loro incontri con esponenti israeliani rappresentano un altro tassello dello stesso progetto politico-mediatico, che trasforma la catastrofe in opportunità. > I monarchici, allineandosi con le politiche guerrafondaie, si presentano come > portavoce del popolo, come se quel popolo che ha affrontato i proiettili a > mani nude nella rivolta “Donna, Vita, Libertà” non fosse mai esistito. Questo sguardo dall’alto, strumentale e intriso di disprezzo, rappresenta le iraniane e gli iraniani non come soggetti politici, ma come pedine mute sulla scacchiera della geopolitica globale. Il giorno seguente, una nuova messinscena: «Bisogna preparare l’Iran alla rivoluzione». Poi: «L’obiettivo è il cambiamento di regime». E infine: «Abbiamo preparato l’Iran per proteste e sollevazioni popolari. Popolo, insorgi!» Ma questo “invito alla rivolta” proviene dalle stesse potenze che da anni costringono la popolazione iraniana a sopravvivere sotto il peso di sanzioni, minacce e una guerra che ha reso la vita stessa insostenibile. La rivolta a cui si fa appello non mira alla liberazione, bensì a una redistribuzione strategica della morte secondo la mappa degli interessi globali. Come possono insorgere coloro che, in quello stesso momento, hanno perso i propri cari sotto le macerie? Come potrebbero rivoltarsi quelle e quelli che sono fuggite dalle loro case e città solo per restare in vita? Nella logica del capitale e della guerra, le cittadine e i cittadini comuni non sono solo vittime, ma anche responsabili di pagare il prezzo dei missili che li colpiscono. In quest’ordine, la morte è uno strumento della politica e la distruzione diventa il linguaggio della legittimità. VIVERE COME RESISTENZA In questo regime, il confine tra “nemico militare” e “popolazione civile” viene deliberatamente cancellato. La frase minacciosa «quello che abbiamo fatto a Gaza, lo faremo anche in Iran» non è semplicemente una tattica: è l’espressione di una politica che merita di essere chiamata per nome — politica della morte, o necropolitica. In tale cornice, gli Stati non si limitano a decidere chi vive, ma pianificano la morte: attraverso l’assedio, l’interruzione dell’accesso alle risorse vitali e infine il bombardamento. Questa politica della morte è accompagnata da interventi psicologici e mediatici. Agenzie di stampa e analisti legati ai blocchi di potere giustificano la guerra con il linguaggio dell’“aiuto umanitario”. In queste narrazioni, i bombardamenti vengono rappresentati come un preludio alla libertà. Questo processo svuota la violenza del suo significatoe trasforma la morte in soluzione. In questa logica, anche la protesta diventa qualcosa di predefinito e controllabile. Le stesse potenze che hanno imposto sanzioni e insicurezza invitano ora il popolo iraniano alla rivolta – non per la libertà, ma per ricostruire un ordine più adatto ai loro interessi. Questa politica dell’insurrezione “guidata” è parte della macchina bellica stessa: una macchina che desidera la rivolta, ma ne pretende anche il controllo. La rivolta, così concepita, non è un atto di liberazione, ma una strategia per ribilanciare i poteri. Da questa prospettiva, ciò che diventa urgente è la ricostruzione di un orizzonte di resistenza, non basato sulla salvezza esterna o su interventi umanitari, ma fondato sulle azioni autonome del popolo, in solidarietà con altri soggetti espulsi dal sistema globale. > La vera resistenza non si costruisce in alleanza con poteri militari, ma nel > riappropriarsi del potere dentro la vita quotidiana. In questo contesto, narrazioni, memorie e testimonianze popolari diventano atti politici. Chi scrive sotto i bombardamenti, chi ascolta in silenzio il ronzio dei droni nella notte, chi stringe la propria bambina o il proprio bambino in un rifugio immaginario: tutte e tutti sono portatrici e portatori di una forma di resistenza. Una resistenza che non risiede nelle armi, ma nel sopravvivere, nel raccontare, nell’insistere a esistere contro ogni tentativo di cancellazione. In un mondo dove la morte è diventata uno strumento di legittimazione, forse l’unica forma di resistenza possibile è restare in vita come atto politico: resistere non per gli Stati, né per opposizioni che rappresentano l’altro volto dello stesso ordine, ma per la vita, per la giustizia, per la fine di una politica che trasforma l’essere umano in obiettivo militare. Ciò che accade oggi in Iran è parte di un quadro più ampio: l’ordine globale del capitalismo bellico. Un ordine che, sotto la maschera della democrazia e della sicurezza, rende le popolazioni obiettivi legittimi da colpire. In quest’ordine, la morte non è un errore, ma una necessità funzionale. Resistere a questa realtà è possibile solo se si trasformano le narrazioni, si ricostruiscono i confini etici e si riportano i soggetti popolari dal margine al centro dell’azione politica. Solo allora potremo tornare a parlare della vita come atto politico, e non più della morte. Immagine di copertina di Mohammadjavad Alikhani (wikimediacommons) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Tra bombe, sanzioni e retoriche di potere: resistere in Iran proviene da DINAMOpress.