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Verso un’Italia che consuma meno e in modo più consapevole
Tra gli obiettivi che gli italiani ritengono prioritari da perseguire, ritornano istanze di pace e diritti civili (per il 64%), una maggiore attenzione e cura delle persone attraverso il contrasto alla fame e alla povertà e alle differenze e violenze di genere (lo chiede il 55%) e la garanzia per tutti di un lavoro dignitoso e della riduzione delle disuguaglianze economiche (62%). Sono alcuni dei dati dell’anteprima digitale del “Rapporto Coop 2025 – Consumi e stili di vita degli italiani di oggi e di domani”, redatto dall’Ufficio Studi di Ancc-Coop (Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori-Coop) con la collaborazione scientifica di Nomisma, il supporto d’analisi di NielsenIQ e i contributi originali di Circana, GS1-Osservatorio Immagino, CSO Servizi, GfK, Mediobanca Ufficio Studi. Cambia anche il rapporto degli italiani con il consumo e a essere messa in discussione è l’essenza stessa della società dei consumi. Al posto del piacere del possesso, l’Italia di oggi scopre il vero valore nelle esperienze di vita e gli italiani acquistano solo le cose indispensabili, amano il second hand e riparano gli oggetti piuttosto che sostituirli. E anche quando si torna a spendere in acquisti tecnologici (16,5 miliardi di euro negli ultimi 12 mesi, +1,2% su base annua) lo si fa privilegiando l’utilità alla gratificazione e meno elettronica di consumo (gli acquisti annui di smartphone si riducono di 2 milioni di unità rispetto al 2022). A mutare è anche il rapporto degli italiani con il cibo, che resta comunque privilegiato. I consumi (e le preparazioni) alimentari tornano innanzitutto nella sfera domestica. Nei primi sei mesi del 2025 la spesa per la ristorazione fuori casa cala di un -2,2% rispetto al 2024 e un italiano su 3 vi rinuncerà ulteriormente nei mesi a venire. Contestualmente si registra una ripresa importante nei carrelli della spesa, con le vendite nella grande distribuzione che, nei primi sei mesi del 2025, fanno registrare una crescita su base annua, rispettivamente, del +3,8% a valore e del +2% a volume. A fare da traino frutta e verdura e altri comparti del fresco. Mentre negli ultimi 12 mesi i sostituti vegetali delle proteine animali sono cresciuti 10 volte di più delle carni. Perfetto contraltare di questi comportamenti è il fatto che il cibo ha acquisito nella percezione corrente e maggioritaria una funzione di alleato della salute; la longevità si conquista a tavola, ma non si disdegna nemmeno l’utilizzo di farmaci ad hoc. Ogni grammo conta e il controllo peso che quasi 1 italiano su 4 fa almeno una volta a settimana può spiegare il vero e proprio boom di vendite delle bilance sia per la persona che per gli alimenti. Gli italiani devono comunque fare i conti con le persistenti difficoltà reddituali che fanno sì che resti alta anche a tavola la ricerca del risparmio e di soluzioni di maggiore convenienza. Questa ricerca sembra rivolgersi però in minor misura all’utilizzo del discount che nel primo semestre registra una crescita a volume del +1,8%, ma piuttosto agli scaffali dei supermercati che mettono a segno un +2,7% dove gli italiani prediligono i prodotti in promozione e quelli a marchio del distributore. “Mentre l’Italia, si legge nell’anteprima del Rapporto, a dispetto di una stabilità politica e sociale che oggi la caratterizza positivamente nel confronto europeo, purtroppo dal punto di vista economico sembra aver definitivamente esaurito l’abbrivio della crescita record del periodo post pandemico. Così, le stime dei previsori macroeconomici individuano per il biennio 2025-2026 una crescita su base annua del Pil di mezzo punto percentuale, mentre le previsioni degli opinion leaders intervistati sono ancora più pessimistiche (+0,1% nel 2026). L’economia italiana torna al male antico di una produttività declinante. A fronte di un’occupazione in crescita (sono 840.000 i nuovi occupati), fa difetto all’Italia la produttività per ora lavorata che è prevista in decrescita fino al -1,4% in maniera opposta rispetto al resto d’Europa. Segno evidente dell’assenza nell’economia nazionale dei settori ad alto valore aggiunto e di conseguenza di un lavoro poco qualificato e meno pagato. Nei settori di impiego dei nuovi lavoratori troviamo infatti in maggioranza costruzioni, commercio, alberghi e ristoranti e fa impressione per converso il dato del titolo di studio; il numero di occupati con licenza media è sceso di oltre 647mila unità, a fronte di un aumento di 687mila diplomati e 800mila laureati. È proprio la mancata crescita della produttività a non far ripartire l’ascensore sociale, oramai fermo da anni. Basti pensare che il 10% della popolazione italiana detiene il 58% della ricchezza del Paese (peggio di noi solo i tedeschi) e a fruttare sono più le rendite (da finanza e da immobili) che il lavoro, soprattutto se è lavoro autonomo. Il sistema Italia recupera il livello complessivo dei redditi delle famiglie solo in virtù del forte aumento del totale delle ore lavorate (2,3 miliardi in più di ore lavorate nel corso degli ultimi 5 anni)”. Qui per approfondire: https://italiani.coop/rapporto-coop-2025-anteprima-digitale/.   Giovanni Caprio
La pesante eredità: Ricchezza e (im)mobilità sociale tra le generazioni in Italia
La distribuzione della ricchezza in Italia è fortemente sbilanciata: il 10% più ricco possiede addirittura il 60% della ricchezza nazionale, mentre la metà più povera della popolazione detiene appena il 7,4%. Negli ultimi dieci anni questa disparità si è accentuata ulteriormente, con la quota del 10% più benestante cresciuta di 7 punti percentuali, una velocità doppia rispetto alla media europea. E l’Italia è anche il Paese che presenta una delle mobilità sociali più basse tra quelli dell’area OCSE, con una forte influenza del contesto familiare sul futuro economico degli individui. Infatti, il livello di elasticità intergenerazionale del reddito è pari a 0,5, segno evidente che nascere in una famiglia benestante o in una con meno risorse determina significativamente le opportunità economiche future. Un altro fattore preoccupante riguarda le differenze tra generazioni: quelle più giovani, Millennials e Generazione Z, possiedono livelli di patrimonio significativamente più bassi rispetto alle generazioni precedenti, Generazione X e Baby Boomers, alla stessa età. Sono i dati di un recente Report “La pesante eredità, Ricchezza e (im)mobilità sociale tra le generazioni in Italia” di Tortuga, un think-tank indipendente, nato dall’iniziativa volontaria di giovani ricercatori e ricercatrici, studentesse e studenti di economia e scienze sociali, con l’obiettivo di contribuire a un’Italia più equa, inclusiva e innovativa.  “Numerose ricerche, si legge nel Report, suggeriscono che livelli elevati di disuguaglianza economica siano correlati a una minore mobilità sociale e a una crescita economica più lenta. La mobilità sociale può essere analizzata da due diverse prospettive: intragenerazionale, che riguarda i cambiamenti nello status socioeconomico di un singolo individuo; e intergenerazionale, che esamina la relazione tra la condizione economica dei genitori e quella dei figli una volta adulti. La letteratura economica ha evidenziato una forte correlazione tra disuguaglianza e “rigidità” intergenerazionale. Secondo un fenomeno noto come Curva del Grande Gatsby, nei Paesi con maggiore disuguaglianza di reddito, misurata dal coefficiente di Gini, la mobilità sociale è più bassa”. In altre parole, nei contesti caratterizzati da profonde disuguaglianze non solo la distanza tra ricchi e poveri è maggiore, ma è anche più difficile per un individuo migliorare la propria condizione economica rispetto a quella della famiglia d’origine. Un fenomeno, noto anche come “rottura dell’ascensore sociale”, particolarmente marcato in paesi come Stati Uniti, Regno Unito e Italia. Al contrario, i paesi nordici si distinguono per livelli più elevati di equità e mobilità sociale. La diseguale distribuzione della ricchezza e delle opportunità, radicata in meccanismi ereditari ed economici, rende il tema della mobilità sociale una priorità di politica economica. L’Italia si distingue – insomma – non solo per un tasso di crescita tra i più bassi d’Europa, ma anche per una crescita sbilanciata, in cui le fasce più ricche vedono aumentare il proprio patrimonio molto più rapidamente rispetto al resto della popolazione. Questo processo contribuisce ad amplificare le disuguaglianze. Entro il 2045 avverrà un enorme trasferimento intergenerazionale di ricchezza stimato in circa 6.486 miliardi di euro. Dal punto di vista fiscale applicando la legislazione vigente, si prevede un gettito fiscale complessivo di circa 50 miliardi di euro entro il 2045, con una media di 2,4 miliardi l’anno. Applicando invece uno schema di tassazione come quello attualmente adottato in Francia, Germania o Regno Unito il gettito potrebbe salire di almeno 17 miliardi. Queste risorse potrebbero essere strategicamente reinvestite per ridurre le disuguaglianze, migliorando l’accesso a istruzione di qualità, assistenza sanitaria e opportunità lavorative. Per questo le ricercatrici e i ricercatori di Tortuga propongono di aumentare leggermente l’imposta di successione per i grandi patrimoni, portandola agli standard europei. Questa misura non impatterebbe negativamente sulle famiglie con questi ingenti patrimoni, ma contribuirebbe a promuovere l’equità sociale. Chiaramente queste misure servirebbero alla riduzione della tassazione sui redditi oppure porterebbero capitale da investire in settori come la sanità, l’istruzione e anche la sicurezza portando benefici concreti e duraturi all’intera società. Qui il Report: https://www.tortuga-econ.it/wp-content/uploads/2025/07/La-pesante-eredita.pdf.  E di passaggi generazionali in Italia si occupa anche una ricerca del Censis, che cerca di esplorare il passaggio generazionale non solo come successione lineare o trasferimento dell’eredità materiale, ma come coesistenza intergenerazionale di valori, attitudini e capacità che si rinnovano nella pratica quotidiana del fare. Un approccio oggi necessario a costruire un futuro in cui le nuove generazioni possano avere lo spazio e la legittimità per sperimentare modi innovativi di fare impresa. Tra le evidenze di questa ricerca colpisce soprattutto che per molte donne l’impresa di famiglia resta un’eredità da custodire, più che uno spazio di azione e decisione: solo il 24,7% delle giovani donne ha un ruolo proprietario nell’impresa familiare (contro il 37,4% degli uomini); il 16,1% delle donne collabora occasionalmente, in ruoli non strutturati ma significativi (contro il 9,3% degli uomini); il 13,3% delle donne, pur non coinvolte oggi, desidera esserlo in futuro (contro il 4,1% degli uomini); il 10,3% gestisce il patrimonio familiare senza lavorare nell’impresa (contro il 4,7% degli uomini). Qui la ricerca del Censis “I passaggi generazionali in Italia: coesistenze, giovani eredi e DNA imprenditoriali”: https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/Passaggi%20generazionali%20Censis.pdf.    Giovanni Caprio
Ricchezza privata e debito pubblico
Ormai siamo abituati ad attenderci che ogni anno il debito pubblico dello stato italiano cresca in valore assoluto. Infatti, ecco i dati – forniti da Banca d’Italia – degli ultimi anni: 2.410 miliardi di euro nel 2019, 2.573 miliardi nel 2020, 2.678 miliardi nel 2021, 2.758 miliardi nel 2022, 2870 miliardi nel 2023 e 2967 miliardi di euro nel 2024. In 5 anni il debito è aumentato di 557 miliardi di euro (+ 23,1%). Nell’ultimo anno è cresciuto di 97 miliardi (+ 3,4%). Quello che raramente viene evidenziato è l’andamento della ricchezza finanziaria degli italiani. Ecco i dati, forniti dalla Federazione Autonoma Bancari Italiani (FABI): 4.664 miliardi di euro nel 2019, 4.800 miliardi nel 2020, 4.999 miliardi nel 2021, 5.138 miliardi nel 2022, 5.781 miliardi nel 2023 e 6.031 miliardi di euro nel 2024. La ricchezza finanziaria dei cittadini italiani negli ultimi 5 anni è aumentata di 1.367 miliardi (+ 29,3%). Nell’ultimo anno è cresciuta di 250 miliardi (+ 4,3%). Il debito pubblico continua ad aumentare perché lo stato italiano ogni anno chiude il bilancio in passivo nel confronto tra entrate (soprattutto imposte) e uscite (compresi gli interessi sul debito). Al contrario, gli italiani – considerati complessivamente – ogni anno si ritrovano con un bilancio positivo tra entrate (inclusi gli interessi sui titoli di stato) e uscite (tasse comprese). L’aumento della ricchezza privata non riguarda tutti i cittadini, ma soltanto i più abbienti, perché le statistiche mostrano come negli ultimi anni in Italia siano aumentate le povertà e le disuguaglianze. Analizzando in dettaglio i dati forniti dalla FABI, i maggiori aumenti di ricchezza in percentuale negli ultimi 5 anni si rilevano nei derivati e nelle stock option (+ 1.277%), nei titoli di stato (+ 84%) e nelle azioni (+ 73%). È evidente che è soprattutto chi dispone di capitali da investire che si è arricchito, confermando il detto che i soldi producono soldi. Questi dati implicitamente mostrano che l’attuale sistema fiscale è iniquo, poiché le imposte sui redditi da capitali sono inadeguate. Negli ultimi decenni il legislatore italiano ha introdotto sempre di più forme di tassazione separata, con imposte fisse e con ricavi non cumulabili. In questo modo è stata sottratta al fisco una parte significativa del gettito, creando forti disparità tra cittadini a parità di reddito. Questa riduzione delle entrate fiscali ha contribuito all’aumento del debito pubblico e anche alla crescita della ricchezza privata soltanto di alcuni. È noto ad esempio che l’aumento del debito statale implica una crescita della spesa per interessi da versare a chi acquista i titoli di stato. Questo meccanismo sottrae risorse alla spesa pubblica (per la sanità, per la scuola, ecc.), incrementando la ricchezza di chi detiene i titoli pubblici. In sintesi, lo stato si impoverisce e alcuni cittadini si arricchiscono. Un osservatore esterno e neutrale a rigor di logica potrebbe ipotizzare che per evitare la crescita del debito pubblico si dovrebbero limitare gli aumenti di ricchezza degli italiani più abbienti. Matematicamente si può facilmente calcolare che, se negli ultimi 5 anni la ricchezza degli italiani fosse aumentata “soltanto” di 810 miliardi di euro, destinando 557 miliardi di euro allo stato, il debito pubblico non avrebbe subito aumenti. Evidentemente, a fornire queste risorse dovrebbero essere proprio quelli che hanno beneficiato degli aumenti. Tutto questo sarebbe sensato se il debito pubblico venisse percepito come debito di tutti, anzi come un’eredità negativa che non si dovrebbe lasciare alle prossime generazioni. Invece, si ragiona in altro modo: la ricchezza è privata mentre il debito è pubblico, quindi quest’ultimo è un problema dello stato e non del contribuente. Resta il fatto che la ricchezza finanziaria privata degli italiani è più del doppio del debito pubblico dell’Italia. Di fronte a questi dati una riforma fiscale si dimostra sempre più necessaria. In realtà molti politici fanno a gara nel proporre tagli alle tasse, evitando di considerare il problema del debito pubblico. Perché i cittadini che pagano le imposte (e anche gli evasori) votano, mentre le future generazioni non possono recarsi alle urne. Pertanto, si persiste nel circolo vizioso di ridurre le imposte private, aumentando di fatto il debito pubblico. La Costituzione italiana prescrive la solidarietà come dovere inderogabile. Ne consegue che chi ha di più potrebbe e dovrebbe dare più risorse alla collettività, anche per sostenere chi ha di meno. Nel frattempo, sarebbe opportuno che chi ha di meno smettesse di votare per chi ha di più. La democrazia senza equità rischia di essere un regime ingiusto. Rocco Artifoni