#nowar - Da 28 a 19 punti, chi pagherà davvero il prezzo?
LEVANTE 24.11.2025 - Casa del Sole Tv
Gli Stati Uniti e l'#Ucraina hanno trovato un'intesa su un nuovo accordo di pace
in 19 punti, lasciando però al presidente americano Donald Trump e al suo
omologo ucraino Volodymyr Zelensky le decisioni sui punti più sensibili dal
punto di vista politico. https://www.youtube.com/watch?v=_YR_pigkYa4&t=2s
Tag - ucraina
Cronistoria dei piani per la pace
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Marcia Perugia-Assisi, 12 ottobre 2025. Foto di Riccardo Troisi per Comune
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È stato presentato ufficialmente l’ennesimo “piano per la pace”, in tal caso
redatto dal governo di Trump in consultazione con Putin e i suoi sodali. In
altre parole, un soggetto terzo o presunto tale, il quale si arroga la
responsabilità di fare da mediatore tra due contendenti in conflitto, annuncia
di avere una proposta per terminare quest’ultimo realizzata in collaborazione
con quello che tra essi ha la grave colpa di averlo iniziato… Lo so, è talmente
ridicolo da risultare complicato anche da scrivere. Ciò mi ha spinto a stilare
una sintetica cronistoria dei principali “piani di pace” del passato, dalle due
guerre mondiali a oggi. Ok, cominciamo.
Nell’autunno del 1917 l’esercito tedesco era sull’orlo del collasso e la
Germania stessa era in subbuglio dal punto di vista politico. Rendendosi conto
che la guerra era persa, i tedeschi contattarono il presidente degli Stati Uniti
Woodrow Wilson e gli chiesero di mediare tra le parti in conflitto per arrivare
a un cessate il fuoco con le potenze alleate. Il piano di pace di Wilson,
suddiviso in quattordici punti, fu proposto per la prima volta nel gennaio 1918
e avrebbe dovuto costituire la base per i negoziati. Nondimeno, sappiamo tutti
che tale cosiddetta pace fu soltanto una parentesi tra ben due guerre mondiali.
Difatti, i successivi accordi di mediazione non furono esenti da obiezioni. Le
critiche principali evidenziarono i fallimenti delle varie politiche di
pacificazione, come l’Accordo di Monaco, che fu visto come un incoraggiamento
per Hitler, e le carenze del Trattato di Versailles, reo di creare risentimento
e instabilità. Gli appunti dei detrattori si concentrano sul fallimento di
questi piani nel raggiungere una pace duratura e sulle loro conseguenze negative
per specifici gruppi o regioni.
Per quanto riguarda la Seconda Guerra mondiale, i principali piani di pace
furono l’Accordo di Potsdam (luglio 1945), incentrato sulla smilitarizzazione e
la divisione della Germania, e i Trattati di pace di Parigi (febbraio 1947), che
posero formalmente fine alla guerra con Italia, Romania, Ungheria, Bulgaria e
Finlandia. L’Accordo di Potsdam concordò la divisione della Germania in quattro
zone di occupazione, la sua smilitarizzazione e il suo disarmo, mentre i
Trattati di pace di Parigi stabilirono aggiustamenti territoriali, riparazioni
di guerra e il ritorno delle nazioni sconfitte negli affari internazionali, con
la risoluzione definitiva della questione tedesca che avvenne in seguito
attraverso accordi separati. Anche in tal caso, emersero numerose criticità.
Riguardo al trattato di Potsdam, furono identificate significative controversie
nella divisione postbellica di Germania e Polonia, la mancanza di accordi chiari
sulle riparazioni e il deterioramento delle relazioni tra l’Unione Sovietica e
gli alleati occidentali, che molti sostengono abbiano contribuito all’inizio
della Guerra Fredda. I critici sottolineano inoltre che l’Unione Sovietica abbia
approfittato delle incongruenze per rafforzare la propria posizione nell’Europa
orientale ed espandere il proprio territorio, spesso a discapito degli accordi
concordati.
Per quanto concerne invece gli accordi di pace di Parigi, tra gli errori
individuati vi sono la migrazione forzata e lo sfollamento di milioni di
persone, l’aggravarsi dei problemi economici nelle nazioni vinte e l’incapacità
di affrontare questioni di fondo come il nazionalismo, che ha portato a una
continua instabilità. Inoltre, gli aggiustamenti territoriali previsti dai
suddetti trattati e le riparazioni imposte risultarono in seguito molto discussi
e causarono risentimenti e difficoltà a lungo termine. Che peraltro si fanno
sentire ancora oggi a distanza di quasi un secolo.
La Guerra di Corea (1950-’53) non si concluse con un vero e proprio trattato di
pace, ma con un armistizio. Si istituì il cessate il fuoco e fu stabilita la
Zona Demilitarizzata come area cuscinetto tra la Corea del Nord e quella del
Sud. L’assenza di un trattato di pace formale è difatti indicata tra le cause
per cui le due Coree tecnicamente restarono in guerra e ancora oggi hanno
relazioni tese e fragili.
Il trattato di pace per la Guerra del Vietnam (1950-’75) fu l’Accordo di Pace di
Parigi, firmato il 27 gennaio 1973 dagli Stati Uniti, dal Vietnam del Nord, dal
Vietnam del Sud e dal Governo Rivoluzionario Provvisorio. L’accordo mirava a
porre fine al conflitto prevedendo un cessate il fuoco, il ritiro delle truppe
statunitensi, il ritorno dei prigionieri e l’eventuale riunificazione del
Vietnam attraverso mezzi politici. Tuttavia, ennesimo fallimento, gli accordi
non riuscirono a portare una pace duratura poiché i combattimenti continuarono e
il Vietnam del Nord alla fine invase quello del Sud nel 1975.
Anche il conflitto tra Iran e Iraq (1980-’88) non fu degno di un vero e proprio
piano di pace. La guerra fu interrotta con un cessate il fuoco mediato dalle
Nazioni Unite, seguito da un accordo formale il 16 agosto 1990, che normalizzò
le relazioni e pose fine del tutto al conflitto. Le critiche in questo caso si
concentrarono sulla sua tempistica, sul costo in vite umane e sulla mancanza di
una vittoria decisiva percepita da entrambe le parti, con alcuni che criticarono
l’Iran per aver prolungato inutilmente la guerra dopo che una potenziale pace
era stata possibile nel 1982. I detrattori sostengono anche che il conflitto si
sia concluso senza significativi guadagni territoriali o riparazioni per
entrambe le nazioni, nonostante otto anni di guerra devastante, che hanno
portato a un immenso numero di vittime e difficoltà economiche sia per l’Iran
che per l’Iraq.
Nessun trattato di pace neppure per la prima Guerra del Golfo (1990-’91). La
fine del conflitto fu segnata da diverse risoluzioni ONU e da un armistizio. Il
processo iniziò con l’accettazione da parte dell’Iraq delle decisioni del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tra cui il cessate il fuoco il 28
febbraio 1991, e culminò con la firma di un armistizio l’11 aprile del 1991. Tra
i termini chiave figuravano il riconoscimento da parte dell’Iraq della sovranità
del Kuwait, l’impegno a distruggere le sue presunte “armi di distruzione di
massa” e il pagamento delle riparazioni di guerra. Gli aspetti controversi in
tal caso furono moltissimi, oltre a quelli relativi alle motivazioni della
guerra in sé. Le critiche principali furono rivolte alle risoluzioni delle
Nazioni Unite, le quali determinarono la delega del potere militare alla
coalizione guidata dagli Stati Uniti, che alcuni sostengono abbia violato i
principi della Carta delle Nazioni Unite, minando l’autorità del Consiglio di
Sicurezza e creando un precedente discutibile. Altre critiche sottolinearono
l’eccessiva aggressività delle risoluzioni, l’insufficiente ricerca di soluzioni
pacifiche e le conseguenti sanzioni, che hanno causato gravi danni umanitari
alla popolazione irachena.
Tra i vari conflitti che hanno dilaniato l’ormai ex Jugoslavia, mi limito a
citare il trattato con cui fu sancita la fine della Guerra del Kosovo, ovvero
l’Accordo di Kumanovo firmato il 9 giugno 1999, che imponeva il ritiro delle
forze jugoslave dal territorio conteso, e dalla Risoluzione 1244 del Consiglio
di Sicurezza delle Nazioni Unite, che istituiva un Kosovo amministrato dalle
Nazioni Unite con sostanziale autonomia pur rimanendo all’interno della
Jugoslavia. Ci furono forti critiche anche al suddetto accordo. I rilievi furono
fatti in relazione alla sua mancata piena attuazione, in particolare per quanto
riguarda la protezione delle minoranze, il disarmo dell’UCK (Esercito di
Liberazione del Kosovo) e il ritorno degli sfollati. I critici sostengono che si
sia trattato di una tregua tecnica che ha posto fine alla guerra, ma non ha
stabilito una pace duratura, priva di disposizioni per la stabilità a lungo
termine, la riconciliazione e lo status politico definitivo del Kosovo. Alcuni
inoltre ritengono che l’accordo sia stato il risultato di pressioni e di
un’applicazione selettiva dei suoi termini, piuttosto che di una risoluzione di
principio. Di recente, l’Accordo di Ohrid del 2023 è stato siglato con lo scopo
di normalizzare le relazioni tra Kosovo e Serbia, prevedendo il riconoscimento
reciproco dell’indipendenza e dei simboli, sebbene quest’ultimo sia ancora
oggetto di contesa.
Riguardo al millennio in corso, quale corollario al tale lista aggiungo il modo
a dir poco discutibile con cui si è conclusa la cosiddetta seconda Guerra del
Golfo, la Guerra d’Iraq (2003-’11). Non esiste alcun “trattato di pace” che
abbia posto fine al conflitto, mentre il ritiro delle forze statunitensi – gli
invasori, ricordiamolo, è stato regolato dall’Accordo sullo Status delle Forze
del 2008, che ha fissato il 31 dicembre 2011 come data entro la quale tutte le
truppe combattenti statunitensi avrebbero dovuto lasciare l’Iraq. In precedenza,
gli Stati Uniti avevano anche firmato l’Accordo Quadro Strategico e l’Accordo di
Sicurezza con l’Iraq nel dicembre 2008, che formalizzavano la futura
cooperazione ma non ponevano fine al conflitto.
Come si evince da questo elenco, la nefasta pratica che prevede
l’interpretazione del ruolo di mediatore (ovvero per definizione super partes)
da parte del responsabile principale dell’inizio del conflitto e, soprattutto,
del soggetto che ha proprio per questa ragione intenzione di giovare dei frutti
della sua azione criminale, viene da molto lontano. E non ho neppure menzionato
il famigerato piano di pace per Gaza…
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L'articolo Cronistoria dei piani per la pace proviene da Comune-info.
#nowar Nuove armi italiane all'#Ucraina via #Sardegna e #Polonia
Il sito specializzato ItaMilRadar ha tracciato lunedì 26 ottobre 2025 il volo di
un grande aereo cargo KC-767A in dotazione al 14° Stormo dell'Aeronautica
Militare di Pratica di Mare (Roma) che dalla base aerea NATO di Decimomannu in
Sardegna ha raggiunto lo scalo polacco di Rzeszów, il maggiore hub della NATO
per i rifornimenti di armi, munizioni e mezzi di guerra alle forze armate
ucraine in guerra contro la Russia.
Comico e straziante
VEDERE UNA RAGAZZA CHE PIANGE PER LA MORTE DEL SUO COMPAGNO, UN GIOVANE SOLDATO
UCRAINO, È STRAZIANTE. COMICO INVECE, SCRIVE BIFO, È STATO IL SUMMIT DI
WASHINGTON, DOVE TRUMP HA RICEVUTO GLI SCONFITTI CON UN SORRISETTO SARDONICO.
COMICO È ZELENSKYY CHE PER L’OCCASIONE HA COMPRATO UN COMPLETO SCURO
ABBANDONANDO LA SUA MAGLIETTA GRIGIO VERDE DA FINTO COMBATTENTE. PER GLI USA LA
GUERRA RUSSIA-UCRAINA SERVIVA A DISTRUGGERE L’EUROPA E A INDEBOLIRE LA RUSSIA:
IL PRIMO OBIETTIVO È STATO RAGGIUNTO, IL SECONDO NO. ALMENO MEZZO MILIONE DI
UCRAINI SONO MORTI PER DIFENDERE LE SACRE FRONTIERE DELLA PATRIA E FARSI FREGARE
DAL NAZIONALISMO DEI PAGLIACCI
pixabay.com
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CNN mostra le immagini del funerale di un giovane soldato ucraino. La sua
compagna piange davanti alla bara e depone dei fiori. Bandiere rosso-nere, una
grande A cerchiata in primo piano. Ricordo che fin dai primi giorni di questa
guerra Vasyl, un amico ucraino che si definisce anarco-socialista mi scrisse: Se
vince Putin il fascismo vince in tutto il mondo. Aveva ragione e oggi lo
vediamo.
Il problema è che il fascismo avrebbe vinto in tutto il mondo anche se la guerra
l’avesse vinta Zelenskyy. Ma vedere le immagini di un ragazzo anarchico che
avrebbe potuto essere un mio studente se avessi insegnato a Kiev, è straziante,
vedere il pianto di quella ragazza che era la sua compagna è straziante.
Comico invece è il summit di Washington, dove Trump ha ricevuto gli sconfitti
con un sorrisetto sardonico sulle labbra. Comico è Zelenskyy che per l’occasione
ha comprato un completo scuro abbandonando la sua maglietta grigio verde da
finto combattente. Seduto sulla stessa poltrona su cui sedeva a febbraio quando
Vance lo insultò e Trump lo umiliò davanti a un miliardo di spettatori, il
perdente ringrazia ringrazia e ringrazia. Per cosa ringrazia non s’è capito.
Il Mammasantissima ringraziatissimo è appena tornato da un incontro con il
criminale ricercato Putin, in Alaska dove si sono accordati su questioni
relative alla spartizione dell’Artico, e anche, marginalmente, sulla resa
incondizionata dell’Ucraina. Perché di questo si tratta, anche se i comici
d’Europa (zio Macron, zia Meloni, nonna Ursula e gli altri parenti dell’ucraino
bastonato) fingono di parlare delle garanzie da fornire al nipotino. Nessuno
cita la parola: “Donbas”, né la parola “Crimea”: sarebbe di cattivo gusto.
Quella che passerà alla storia (se ci saranno storici nel futuro, cosa di cui
dubito) come la guerra “ucraina” cominciò come un colpo di genio
dell’amministrazione Biden. Provocare una carneficina alla frontiera orientale
d’Europa serviva contemporaneamente a distruggere l’Europa e a indebolire la
Russia.
Il primo obiettivo è stato centrato perfettamente. Per capire quanto oggi conti
l’Europa basta osservare Macron seduto accanto a Trump, che lo ha recentemente
trattato pubblicamente come un idiota che parla di cose di cui non sa niente, e
farebbe meglio a stare zitto. Eppure Macron fa finta di niente, e con
un’espressione piuttosto tirata dice qualcosa di irrilevante mentre il
Mammasantissima assente con uno sprezzante sorrisino. Il primo obiettivo è stato
perfettamente centrato: sono state rotte le relazioni economiche tra Russia e
Germania, interrotto il North Stream 2. L’Unione declassata da Vance: prima
eravate sudditi, ora siete nemici – disse a Monaco il numero 2. Mazziati con i
dazi che presto affonderanno l’economia europea, i sudditi diventati nemici
devono ora investire i loro capitali nel paese che li umilia e acquistare armi
da chi li ha traditi per rifornire l’Ucraina dimezzata. La guerra inter-bianca
si avvia verso una (provvisoria) conclusione col seguente risultato: la civiltà
bianca è dominata dalle potenze nucleari artiche (Usa e Russia), l’Unione
Europea è un morto che cammina, l’Ucraina è un paese distrutto, impoverito,
spopolato, costretto a consegnare le sue risorse a chi l’ha prima spinta in
guerra, poi ingannata infine tradita.
Quanto al secondo obiettivo, indebolire la Russia, non è stato centrato per
niente, perché gli statunitensi, si sa, sono volubili. Iniziano guerre in luoghi
lontani come l’Afghanistan per poi dimenticare per quale ragione l’hanno fatto,
e lasciano i loro protetti (e soprattutto le loro protette) in mano ai
tagliagole. Ecco allora che al posto di Biden, nemico dei russi, è arrivato
l’amico del cuore di Vladimir Putin, e mezzo milione di ucraini (di più? Di
meno? Non lo sapremo mai) sono morti per niente. Ossia per difendere le sacre
frontiere della patria e farsi fregare dal nazionalismo dei pagliacci.
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LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI:
> La guerra organizza l’accumulazione del capitale
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L'articolo Comico e straziante proviene da Comune-info.
Per l’Ue ogni passo verso la pace minaccia l’industria bellica
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Foto di Donne in nero Bologna
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L’incontro tra Trump e Putin in Alaska ha coinciso con il quarto anniversario
della precipitosa fuga dell’esercito Usa da Kabul dopo vent’anni di occupazione:
un quarto di secolo di guerre, iniziato nell’ottobre del 2001, come vendetta e
punizione collettiva – modello futuro per Netanyahu – per l’attacco terroristico
subìto l’11 settembre.
L’invasione dell’Ucraina ne è stata anche l’estremo effetto, un effetto farfalla
nel tempo e nello spazio secondo l’intuizione di Edward Lorenz, che impregna di
sé anche le complesse relazioni internazionali: il battito d’ali di una farfalla
in una parte del mondo genera un uragano dall’altra. Ossia il diritto
internazionale vale per tutti ovunque – dall’Afghanistan all’Iraq, dall’Ucraina
alla Palestina – oppure è impossibile farlo valere solo per qualcuno.
L’Europa si è stracciata le vesti per la sua esclusione dall’incontro di
Anchorage, insieme a quella di Zelensky, ma la sua assenza – recuperata solo
quattro giorni dopo con l’anticamera dei “volenterosi” alla Casa Bianca,
nell’incontro tra Trump e il presidente ucraino – è frutto della rinuncia
sdegnosa ad essere, fin dall’inizio, terzo rispetto alla guerra russo-ucraina.
L’Ue, scegliendo la cobelligeranza con una parte “fino alla vittoria”,
attraverso la reiterata fornitura di armi all’Ucraina “per tutto il tempo che
sarà necessario”, e imponendo 18 ondate di sanzioni economiche all’altra (ma
zero ad Israele), anziché essere attivamente neutrale come chiedevano i
movimenti pacifisti, è esattamente il Terzo assente secondo la formula usata da
Norberto Bobbio nel 1989: il terzo mancante nel conflitto. Un Terzo imparziale e
credibile per entrambe le parti, capace di svolgere, se presente, il ruolo di
mediatore. Ruolo che, in assenza dell’Europa, aveva provato ad assumersi, già
nell’aprile 2022, la Turchia di Erdogan in una mediazione sabotata dagli Usa di
Biden e dalla Gran Bretagna di Johnson. E che oggi si assume Donald Trump.
Oltre tre anni di guerra dopo, un milione e quattrocentomila vittime dopo tra i
soldati russi e ucraini (stime del Center for Strategic and International
Studies di Washington), in una condizione sul terreno molto peggiorata per
l’Ucraina, gli ucraini sono ormai stremati da questa strage infinita. Lo
certifica la società di analisi Gallup: nell’ultimo sondaggio in Ucraina il 69%
si dichiara favorevole a una fine negoziata della guerra il prima possibile,
rispetto al 24% che sostiene di continuare a combattere ancora. “Un’inversione
di tendenza quasi totale rispetto all’opinione pubblica del 2022 – scrive Gallup
– quando il 73% era favorevole a che l’Ucraina combattesse fino alla vittoria e
il 22% preferiva che l’Ucraina cercasse una conclusione negoziata il prima
possibile”. Un crollo del consenso bellico al governo, dimostrato anche dai
disertori sempre più numerosi e perseguitati, come monitora la Campagna di
Obiezione alla guerra del Movimento Nonviolento.
Ma la guerra russo-ucraina rappresenta la gallina dalle uova d’oro per
l’industria bellica europea, che sta ampliando enormemente le proprie aziende:
“Le fabbriche di armi europee si stanno espandendo a un ritmo tre volte
superiore a quello dei tempi di pace”, rivela il Financial Time (12 agosto), per
prepararsi alla guerra duratura. “Un circolo vizioso che si autoalimenta –
commenta Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Italiana Pace e Disarmo (il
manifesto, 14 agosto) – le tensioni geopolitiche spingono i governi ad aumentare
le spese militari, questi flussi di denaro rafforzano i bilanci delle industrie
belliche aumentandone il valore azionario, per cui ogni passo verso la pace
viene vissuto come una minaccia economica”. Infatti, la sola ipotesi di una
prospettiva di pace ha messo “sotto pressione il comparto della difesa europeo”,
scrive il Sole 24 Ore (11 agosto), con caduta dei titoli in borsa: “Un
rallentamento del flusso di ordini, nel pieno del boom del comparto della
difesa, che molti analisti sottolineano potrebbe essere aggravato dall’impatto
di una possibile tregua in Ucraina…”.
“Poiché per fare la guerra ci vuole un nemico con cui guerreggiare – spiegava
Umberto Eco – la ineluttabilità della guerra corrisponde alla ineluttabilità
dell’individuazione e della costruzione del nemico” (Costruire il nemico, 2011).
Se l’incontro tra Trump e Putin e il successivo con Zelensky saranno preludio
allo “scoppio della pace” in Ucraina e ciò facesse venire meno il nemico
assoluto per l’Europa, contro il quale è stato costruito l’obbligo del riarmo, i
governi come convinceranno le rispettive opinioni pubbliche che bisogna ancora
trasferire enormi risorse dagli investimenti per la salute, l’istruzione, la
sicurezza sociale alle casse delle industrie belliche?
Finché c’è guerra c’è speranza s’intitolava un celebre film di Alberto Sordi del
1974, nel quale interpretava il ruolo di un mercante di armi: ma se essa
finisse, come si alimenterebbe la loro speranza? Niente paura, ci sarà da
costruire il “porcospino d’acciaio”, secondo la metafora utilizzata da Ursula
Von der Leyen, come “garanzia di sicurezza” iper-armata dell’Ucraina, per
significare i rapporti futuri tra Ucraina, Europa, Nato e la Russia. Invece, la
presidente della Commissione europea dovrebbe ripassare la metafora dei
porcospini di Arthur Schopenhauer.
“Una compagnia di porcospini – scriveva il filosofo nei Parerga e Paralipomena –
in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini per proteggersi, col
calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine
reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro.
Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si
ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro
fra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che
rappresentava per loro la migliore posizione”.
La metafora di Von der Leyen riafferma il riarmo, acuisce le tensioni e prepara
la prossima guerra. Quella di Schopenhauer evoca la rimozione delle cause del
conflitto, promuove il disarmo e la costruzione di soluzioni nonviolente. Due
modi opposti per lavorare ad una pace “giusta e duratura” in Europa, ma solo uno
coerente con il fine.
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Pubblicato anche su un blog del fattoquotidiano.it e qui con l’autorizzazione
dell’autore
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L'articolo Per l’Ue ogni passo verso la pace minaccia l’industria bellica
proviene da Comune-info.
Trump e noi. Resistere ad autoritarismo e regime di guerra
di SANDRO MEZZADRA.
Muoversi all’interno delle rovine di un sistema non è agevole. Il fatto è che
oggi in rovina non è soltanto il sistema internazionale, l’ordine che si
presentava come “basato sulle regole”. Al contrario, si può assumere quella
rovina come vertice prospettico per analizzare il disfacimento di una
molteplicità di sistemi, che certo non dovevano essere particolarmente in
salute. All’ombra del genocidio di Gaza, una regione cruciale per gli equilibri
mondiali, il Medio Oriente, sembra aver perso ogni principio di ordine. Staccata
dagli Stati Uniti, se non per la camicia di forza della NATO, l’Europa appare
consegnata all’irrilevanza sotto il profilo della politica mondiale, irrigidita
al suo interno dalla paura del declino e della stagnazione economica e amputata
del suo “modello sociale”. L’ambizione europea a essere “forza di pace” si
sgretola di fronte all’opzione per il riarmo e per la militarizzazione
dell’economia, della politica e della società. Nel tempo di Trump, poi, la
stessa democrazia liberale – ancora contrapposta all’“autocrazia” all’indomani
dell’invasione russa dell’Ucraina – impallidisce e si svuota di determinazioni
materiali. Lo spettacolo della forza sembra essere dominante – si tratti di
dazi, sottomarini nucleari, o rambo mascherati a caccia di migranti per le
strade di Los Angeles. Anche dall’Alaska, poi, la logica che viene proiettata
sul mondo è quella imperiale della politica di potenza come criterio dominante
nelle relazioni internazionali.
Proprio i dazi, del resto, ci mostrano che la situazione è ben lungi dall’essere
stabile – che al contrario l’uso ricattatorio di questo strumento ha l’obiettivo
di produrre una serie di shock successivi che puntano a ridefinire le geografie
e il regime di accumulazione del capitalismo statunitense e globale. Basti
pensare all’“accordo” con l’Unione europea, che ha come corollario l’impegno a
investimenti europei, in particolare in campo energetico, che, come ha
dimostrato ad esempio Paul Krugman, sono da diversi punti di vista non solo
irrealistici, ma impossibili. Quando una clausola di questo genere viene
inserita in un “accordo”, è evidente che si prepara il terreno per ulteriori
forzature e ricatti. Instabili e provvisori appaiono molti degli accordi sui
dazi siglati nelle ultime settimane, senza contare che è continuamente
necessario adeguarli al fatto che le importazioni non riguardano solo beni di
consumo ma anche le catene di fornitura di componentistica vitale per il residuo
settore manifatturiero negli Stati Uniti.
È bene resistere alla tentazione di leggere nei dazi e nelle guerre commerciali
l’ennesima fine della “globalizzazione” e guardare piuttosto a questa
costitutiva instabilità delle politiche dell’amministrazione Trump come allo
strumento attraverso cui si mira a scuotere i rapporti commerciali all’interno
del mercato mondiale per ritagliare condizioni più favorevoli per il capitale
statunitense. È comunque una trasformazione radicale rispetto agli ultimi
decenni, in primo luogo perché le politiche di Trump – puntando a drenare
risorse da tutto il mondo per affrontare l’insostenibile debito degli Stati
Uniti e dunque rallentarne la crisi egemonica – determinano una accentuata
nazionalizzazione del capitale statunitense, che corre parallela ai processi di
concentrazione accelerati negli anni della pandemia da Covid-19. E se queste
stesse politiche determinano un indebolimento del dollaro, minacciando quello
che è stato in questi anni il principale strumento di gestione del debito, il
Genius Act (la legge sulle criptovalute e sulle stablecoin) ha esattamente la
funzione di controbilanciare quell’indebolimento.
La politica dei dazi di Trump si innesta all’interno di un quadro mondiale da
tempo percorso da tendenze protezionistiche e da accentuata competizione in
particolare nel settore delle tecnologie digitali e dei minerali più o meno
“critici” necessari per il loro sviluppo. E tuttavia, all’interno di questo
quadro quella politica introduce un tasso di nazionalismo “economico” senza
precedenti negli ultimi anni, secondo una logica che non può che essere al tempo
stesso di nazionalismo politico. Oggettivamente, la combinazione di
concentrazione di capitali e territorializzazione (per quanto ovviamente in
parte solo retorica, ma questo significa “nazionalizzazione” del capitale
statunitense) ripropone un elemento centrale analizzato dai teorici
dell’imperialismo all’inizio del Novecento. E mentre il nazionalismo si diffonde
ulteriormente, ben al di là degli Stati Uniti, la congiuntura che stiamo vivendo
appare destinata a facilitare un’ulteriore proliferazione di guerre e regimi di
guerra. La “militarizzazione di Silicon Valley” di cui ha parlato il New York
Times qualche giorno fa (4 agosto), ovvero la torsione in chiave bellica dello
sviluppo di tecnologie digitali, piattaforme e Intelligenza artificiale, è al
tempo stesso un sintomo e un acceleratore di questa tendenza.
Si tratta di un primo tentativo di analisi, necessariamente provvisorio e
consapevole del fatto che la situazione è in costante mutamento. Quello che
molti cominciano a chiamare il Trump shock, in analogia con il Volcker shock del
1979 (il violento rialzo dei tassi di interesse da parte del Presidente della
Federal Reserve che per molti versi diede avvio all’epoca neoliberale), è in
ogni caso destinato a ridisegnare violentemente le geografie e le logiche del
capitalismo mondiale, e in particolare i rapporti tra capitale e lavoro. Mi
sembra quindi necessario, sulla base di questi primi elementi di analisi,
insistere su alcuni dei limiti fondamentali che la politica di Trump incontra e
indicare alcune delle sfide politiche più rilevanti di fronte a cui ci troviamo
nella nuova congiuntura. Sotto il profilo dei rapporti globali, è evidente che
il limite fondamentale è rappresentato dalla Cina, non solo per la forza
economica (e in prospettiva politica) di quest’ultima ma anche per la
persistente interdipendenza tra l’economia statunitense e quella cinese. Se si
prendono i due Paesi che Trump ha sanzionato con dazi “politici” – il Brasile
(per l’incriminazione di Bolsonaro) e l’India (per l’acquisto di petrolio russo)
– si può immaginare un asse con la Cina (certo più facile con il Brasile che con
l’India) nella cornice dei BRICS e di una organizzazione internazionale come la
SCO (“Shanghai Cooperation Organization”). Non si tratta qui di riproporre
un’immagine edulcorata del “Sud globale” come “polo” o “blocco” alternativo
all’Occidente, ma piuttosto di richiamare un quadro realistico dei cambiamenti
profondi che si sono ormai determinati nella distribuzione della ricchezza e del
potere a livello mondiale. E da questo punto di vista, per riprendere un punto
menzionato in precedenza, i processi e i progetti di de-dollarizzazione sono
senz’altro cruciali.
Anche all’interno degli Stati Uniti, del resto, la politica di Trump sta già
incontrando dei limiti. Come sul piano internazionale lo spettacolo dei dazi (si
pensi al “Liberation day”) ha contribuito a ingigantire l’impressione della
forza statunitense, anche sul piano interno lo spettacolo della forza (le
deportazioni, l’ICE, Alligator Alcatraz, la guardia nazionale a Los Angeles e
Washington) ha prodotto un analogo effetto. Ma la resistenza è cresciuta in
queste settimane, e resta da capire come saprà collegarsi ai processi di
impoverimento di massa annunciati dalla “Big Beautiful Bill” in materia fiscale
e di spesa. Difficilmente la re-industrializzazione del Paese, che Trump
immagina comunque collegata a un attacco radicale alle pratiche di libertà
innervate all’interno dei territori metropolitani, potrà offrire la prospettiva
di un futuro per cui valga la pena vivere e lottare. È anzi la rappresentazione
più evidente della miseria che caratterizza oggi l’“orizzonte di aspettativa” di
nazionalismo e autoritarismo – non certo solo nella terra di Trump.
Non è forse così importante, almeno qui, definire la peculiarità di questa forma
di nazionalismo e di autoritarismo, intervenendo nel vivace dibattito
internazionale attorno a categorie come fascismo e neoliberalismo. Certo,
l’orizzonte “promissorio” di quest’ultimo appare definitivamente esaurito (con
poche eccezioni, come ad esempio l’Argentina di Milei). Dinamiche di
“fascistizzazione” sono comunque in atto in molte parti del mondo, e si
combinano in vari modi (da analizzare nei diversi contesti) con la persistenza
di politiche neoliberali. I processi di concentrazione del capitale su base
nazionale che si sono descritti a proposito degli Stati Uniti – e che si
irradiano secondo una geometria variabile – costituiscono la base materiale di
queste forme di ibridazione. E diffondono nel pianeta una “violenza
atmosferica”, per riprendere un’immagine di Fanon, presaga di guerra.
Lottare contro autoritarismo e nazionalismo non può che essere oggi anche per
noi una priorità. E questa lotta non può che essere contro la guerra, contro la
proliferazione di regimi di guerra che dell’autoritarismo e del nazionalismo
costituiscono la cifra d’insieme. Trump mostra bene come il regime di guerra si
indirizzi contro i movimenti femministi, nella prospettiva di un violento
riallineamento patriarcale dei rapporti tra i generi; contro i movimenti
ecologisti, considerato che le energie fossili sono al centro della macchina
militare statunitense che i Paesi europei sono chiamati ad alimentare; contro i
migranti, sfruttati o deportati nei modi più violenti; contro i poveri, espulsi
dai centri urbani. Si potrebbe continuare: ed è evidente come tutto questo abbia
precise corrispondenze in Italia, in un Paese governato da un Trump in
sedicesimo. Qui, come negli Stati Uniti, su ciascuno di questi terreni (e su
molti altri), ci sono resistenze e lotte di fondamentale importanza. Ma la
mobilitazione contro la guerra – e per fermare il genocidio a Gaza – può e deve
essere un’occasione di convergenza, per moltiplicare la forza di queste
resistenze e di queste lotte e per intervenire su una congiuntura mondiale che è
già asfissiante per tutte e tutti noi. Si tratta di organizzare questa
mobilitazione, con il necessario senso di urgenza.
L'articolo Trump e noi. Resistere ad autoritarismo e regime di guerra proviene
da EuroNomade.
La guerra cercata
Nel momento in cui l’Unione Europea annuncia ai quattro venti un piano di riarmo
epocale e la NATO incassa la promessa di un aumento delle spese militari al 5%
del PIL per gli stati membri, sta mostrando l’arma ai suoi avversari ma
soprattutto al suo pubblico, quello che la dovrà pagare. Il copione prevede che
queste armi dovranno essere usate, se non altro a scopo deterrente, in futuri
conflitti con nemici sempre più potenti. L’antagonista è fondamentale nello
sviluppo di una narrazione, non se ne può fare a meno. L’antagonista è
essenziale anche nella costruzione dell’identità, le guerre rinsaldano la
comunità nazionale attorno ai leader, anche ai peggiori. Continua a leggere→
Chi controlla le terre rare controlla il mondo
Immagine in evidenza da Unsplash
Quando a fine anni ’80 Deng Xiaoping affermò che “il Medio Oriente ha il
petrolio, la Cina le terre rare”, in pochi diedero il giusto peso alla
dichiarazione dell’allora leader della Repubblica Popolare cinese.
Come invece sempre più spesso accade, il Dragone asiatico dimostrò di avere la
capacità di immaginare e mettere in atto strategie di lungo termine: le terre
rare, infatti, rappresentano oggi uno dei maggiori motivi di frizione
geopolitica nel mondo, a causa dell’elevata richiesta e del loro complesso
approvvigionamento, di cui la Cina detiene il monopolio.
Praticamente nessun settore industriale ad alta tecnologia può farne a meno, da
quello militare – per missili guidati, droni, radar e sottomarini – a quello
medico, in cui sono impiegate per risonanze magnetiche, laser chirurgici,
protesi intelligenti e molto altro ancora.
Non fa eccezione il settore tecnologico e in particolare quello legato allo
sviluppo e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Come spiega Marta Abbà,
fisica e giornalista esperta di temi ambientali, le terre rare possiedono
qualità magnetiche uniche e sono eccellenti nel condurre elettricità e resistere
al calore, e anche per questo risultano essenziali per la fabbricazione di
semiconduttori, che forniscono la potenza computazionale che alimenta l’AI, per
le unità di elaborazione grafica (GPU), per i circuiti integrati specifici per
applicazioni (ASIC) e per i dispositivi logici programmabili (FPGA, un
particolare tipo di chip che può essere programmato dopo la produzione per
svolgere funzioni diverse).
Sono inoltre cruciali per la produzione di energia sostenibile: disprosio,
neodimio, praseodimio e terbio, per esempio, sono essenziali per la produzione
dei magneti utilizzati nelle turbine eoliche.
Senza terre rare, quindi, si bloccherebbe non solo lo sviluppo dell’intelligenza
artificiale, ma anche quella transizione energetica che, almeno in teoria,
dovrebbe accompagnarne la diffusione rendendola più sostenibile. Insomma, tutte
le grandi potenze vogliono le terre rare e tutte ne hanno bisogno, ma pochi le
posseggono.
TERRE RARE, MINERALI CRITICI E AI
Le terre rare (REE) sono un gruppo di 17 elementi chimici con proprietà simili e
spesso presenti insieme nei minerali: lantanio, cerio, praseodimio, neodimio,
promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio,
itterbio, lutezio, ittrio e scandio.
Le materie prime critiche, di cui possono far parte anche alcune terre rare,
sono invece quei materiali identificati dai vari governi come economicamente e
strategicamente essenziali, ma che presentano un alto rischio di
approvvigionamento a causa della concentrazione delle fonti e della mancanza di
sostituti validi e a prezzi accessibili.
Nel 2024 il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato il Regolamento europeo
sulle materie prime critiche, elencandone 34, di cui 17 definite “strategiche”,
il cui controllo o accesso influisce direttamente su obiettivi di sicurezza,
sviluppo tecnologico e autonomia industriale.
Le terre rare, in realtà, spiega ancora Marta Abbà, non sono rare, ma la loro
presenza nel mondo non è omogenea e l’estrazione e la lavorazione risultano
molto costose e inquinanti.
Le maggiori riserve sono possedute dalla Cina, in cui ammontano, secondo le
stime, a 44 milioni di tonnellate, con una capacità estrattiva che nel 2024 ha
toccato la cifra di 270mila tonnellate all’anno. Altri stati che possiedono
significative riserve sono il Brasile (21 milioni di tonnellate, attualmente
ancora pochissimo sfruttate), l’Australia (5,7 milioni di tonnellate), l’India
(6,9 milioni di tonnellate), la Russia (3,8 milioni di tonnellate) e il Vietnam
(3,5 milioni di tonnellate).
A questo gruppo di paesi si è aggiunta di recente la Groenlandia, salita alla
ribalta delle cronache per i suoi enormi giacimenti di materie prime critiche e
per il conseguente interesse mostrato da Stati Uniti, Unione Europea e Cina. Il
sito più rilevante, Kvanefjeld, nel sud dell’isola, è considerato uno dei più
promettenti a livello globale e, secondo le stime della società che ne detiene
la licenza estrattiva, potrebbe contenere fino al 15% delle riserve mondiali
conosciute di terre rare.
A far gola alle grandi potenze tecnologiche sono in particolare l’alluminio,
derivato della bauxite, e il silicio, necessari per la produzione dei wafer (la
base di silicio su cui vengono costruiti i microchip) e per l’isolamento dei
chip, il niobio, utilizzato nei cavi superconduttori, il germanio, necessario
per i cavi in fibra ottica utilizzati per la trasmissione di dati ad alta
velocità, cruciale per l’AI, e ancora gallio, tungsteno, neodimio, ittrio, tutti
componenti essenziali per l’industria dei microchip.
Per via delle loro applicazioni nell’industria high tech, molti di questi
materiali ed elementi sono stati identificati come strategici sia dall’Unione
Europea che dagli Stati Uniti e sono per questo oggetto di accordi e trattati
bilaterali con i paesi produttori.
Nonostante la presenza di alcune riserve di terre rare in entrambe le regioni,
il fabbisogno risulta infatti di gran lunga superiore alla capacità produttiva
domestica, obbligando di fatto sia Washington che Bruxelles a importare le
materie dall’estero, prima di tutto dalla Cina e in secondo luogo, per quanto
riguarda l’Unione Europea, dalla Russia.
Per questo motivo, Dewardric L. McNeal, direttore e analista politico della
società di consulenza Longview Global, ha affermato alla CNBC che “gli Stati
Uniti devono ora trattare le materie prime critiche non come semplici merci, ma
come strumenti di potere geopolitico. Come la Cina già fa”.
IL POTERE DEL DRAGONE ASIATICO E LE RISPOSTE USA
Dopo settimane di tensioni e accuse reciproche per i dazi imposti
dall’amministrazione Trump, il governo di Pechino ha deciso di rallentare
l’export di terre rare tra aprile e maggio, come già fatto in precedenza sia nel
2023 che nel 2024, quando alla scrivania dello studio ovale sedeva ancora Joe
Biden e il tema caldo di discussione era l’isola di Taiwan.
Per farsi un’idea della portata di questa mossa, basti pensare che, come stimato
dal Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS), se la Cina imponesse un divieto
totale sulle esportazioni dei soli gallio e germanio, minerali utilizzati in
alcuni semiconduttori e in altre produzioni high tech, il PIL statunitense
potrebbe diminuire di 3,4 miliardi di dollari.
Anche per questo, il tono di Washington da inizio giugno è diventato più
conciliante e il rapporto tra le due potenze si è andato normalizzando, fino ad
arrivare il 28 giugno al raggiungimento di un accordo tra i due paesi.
Nonostante i dettagli siano ancora scarsi, il segretario al Tesoro degli Stati
Uniti, Scott Bessent, ha dichiarato che la Cina ha accettato di facilitare
l’acquisizione da parte delle aziende americane di magneti, terre rare cinesi e
altri materiali fondamentali per l’industria tecnologica.
Quella che Trump ha festeggiato come una sua grande vittoria diplomatica, ha
però reso ancor più evidente come le catene di approvvigionamento dei minerali
critici siano molto concentrate, fragili e soprattutto troppo esposte
all’influenza e al controllo di Pechino.
Come abbiamo visto, la Cina è il paese in cui si trovano le maggiori riserve
mondiali di terre rare, ma non è solo questo elemento a spostare l’ago della
bilancia geopolitica a favore del dragone asiatico.
L’influenza della Cina abbraccia infatti anche i paesi “amici”, come la Mongolia
e il Myanmar, secondo produttore mondiale di terre rare pesanti (più scarse e
più difficili da separare), le cui principali operazioni minerarie sono
significativamente partecipate da Pechino, estendendo ulteriormente il controllo
effettivo della potenza asiatica.
La posizione dominante della Cina è determinata anche dal fatto di possedere il
monopolio di fatto della raffinazione, cioè la complessa operazione metallurgica
per trasformare la materia prima grezza in materiali utilizzabili.
Un processo non solo complesso, ma altamente inquinante e di conseguenza quasi
impossibile da eseguire in Europa o negli Stati Uniti, a causa dei più elevati
standard di compliance ambientale che ne farebbero schizzare il costo alle
stelle.
Il processo di raffinazione richiede infatti un uso estensivo di sostanze
chimiche, in particolare acidi forti (come l’acido solforico, nitrico o
cloridrico) per separare le terre rare dai minerali a cui sono legate, creando
delle scorie tossiche molto difficili da smaltire, se si seguono, appunto,
standard elevati di tutela ambientale.
Un esempio del devastante impatto ambientale di questo processo è
particolarmente visibile nella città di Baotou, nella vasta area industriale
della regione cinese della Mongolia Interna, dove il panorama è dominato da un
lago artificiale del diametro di circa 9 chilometri, composto interamente da
fanghi neri e sostanze chimiche tossiche, risultato degli sversamenti di rifiuti
di scarto derivanti dall’estrazione e raffinazione delle terre rare.
L’Occidente, in pratica, ha scelto di esternalizzare le negatività ambientali
derivanti dall’estrazione di terre rare in Cina e questa, da parte sua, ha
accettato di buon grado, dando priorità al potere economico e geopolitico che ne
deriva rispetto alla salute dei suoi cittadini e alla tutela del proprio
ambiente naturale.
La dipendenza delle catene di approvvigionamento occidentali diventa ancor più
evidente se si prende come esempio la miniera di Mountain Pass in California,
una delle maggiori operazioni statunitensi nel settore delle terre rare.
Nonostante produca circa il 15% degli ossidi di terre rare a livello globale, si
trova a dover inviare l’intera produzione in Cina per le fasi di separazione e
raffinazione.
Per questo motivo, il Pentagono nel 2020 ha assegnato 9,6 milioni di dollari
alla società MP Materials per la realizzazione di un impianto di separazione di
terre rare leggere a Mountain Pass. Nel 2022, sono stati investiti ulteriori 35
milioni di dollari per un impianto di trattamento di terre rare pesanti.
Questi impianti, spiega il Center for Strategic and International Studies,
sarebbero i primi del loro genere negli Stati Uniti, integrando completamente la
catena di approvvigionamento delle terre rare, dall’estrazione, separazione e
lisciviazione (un processo chimico che serve a sciogliere selettivamente i
metalli desiderati dal minerale) a Mountain Pass, fino alla raffinazione e
produzione di magneti a Fort Worth, in Texas.
Tuttavia, anche quando saranno pienamente operativi, questi impianti saranno in
grado di produrre solo mille tonnellate di magneti al neodimio-ferro-boro entro
la fine del 2025 — meno dell’1% delle 138mila tonnellate prodotte dalla Cina nel
2018. Non sorprende, dunque, che gli Stati Uniti, come vedremo, stiano cercando
strade alternative in grado di diversificare maggiormente la propria catena di
approvvigionamento di questi materiali.
Ne è un esempio l’accordo fortemente voluto dall’amministrazione USA con
l’Ucraina che, dopo un tira e molla di diverse settimane, culminato con la
furiosa lite di fine febbraio nello studio ovale tra Donald Trump e JD Vance da
una parte e Volodymyr Zelensky dall’altra, ha infine visto la luce a inizio
maggio.
L’accordo, in estrema sintesi, stabilisce che l’assistenza militare americana
sarà considerata parte di un fondo di investimento congiunto dei due paesi per
l’estrazione di risorse naturali in Ucraina. Gli Stati Uniti si assicurano
inoltre il diritto di prelazione sull’estrazione mineraria pur lasciando a Kiev
l’ultima parola sulle materie da estrarre e l’identificazione dei siti minerari.
L’accordo stabilisce infine che la proprietà del sottosuolo rimarrà all’Ucraina,
cosa non scontata date le precedenti richieste da parte di Washington in tal
senso.
Quello con l’Ucraina è solo uno dei tanti tavoli di trattativa aperti dalle
diverse amministrazioni statunitensi con paesi ricchi di materie critiche:
dall’Australia al vicino Canada, passando per il Cile, ricchissimo di litio, e
poi ancora il Brasile, dove si estrae il 90% del niobio utilizzato per la
produzione di condensatori, superconduttori e altri componenti ad alta
tecnologia, e il Vietnam, con cui l’allora presidente Joe Biden ha siglato un
accordo di collaborazione nel settembre 2023.
È evidente come gli Stati Uniti, da diversi anni, stiano mettendo in campo tutte
le risorse economiche e diplomatiche a disposizione per potersi assicurare il
necessario approvvigionamento di materie critiche e terre rare, senza le quali
la Silicon Valley chiuderebbe i battenti in pochi giorni.
LA GLOBAL GATEWAY EUROPEA
In Europa la situazione è anche peggiore rispetto agli Stati Uniti. Non solo
l’Unione Europea importa oltre il 98% delle terre rare raffinate, con la Cina
ovviamente nel ruolo di principale fornitore, ma è anche sprovvista di
giacimenti importanti.
Uno dei pochi siti promettenti è stato individuato nel 2023 a Kiruna, nella
Lapponia svedese, e secondo l’azienda mineraria di stato svedese LKAB potrebbe
arrivare a soddisfare, una volta a pieno regime, fino al 18% del fabbisogno
europeo di terre rare.
C’è però un enorme problema, oltre a quello già descritto dell’impatto
ambientale: è difficile pensare che possa entrare in produzione prima di almeno
una decina di anni. Troppi, considerato che le battaglie per la supremazia
tecnologica e per la transizione energetica si stanno combattendo ora.
Un discorso a parte merita la Groenlandia, territorio autonomo posto sotto la
Corona danese, ricchissima di materie prime critiche, terre rare e anche uranio,
ma dove le leggi attuali sono molto restrittive in termini di estrazione e che,
per di più, è entrata nel mirino dell’amministrazione Trump, diventando oggetto
di forti frizioni politiche.
L’interesse dell’Unione Europea nei confronti della grande isola artica è
sancito dall’accordo firmato nel novembre del 2023 tra le due parti, che dà il
via a un nuovo partenariato strategico tra i due soggetti, il cui cuore pulsante
è rappresentato dallo sfruttamento congiunto delle materie prime.
Anche in questo caso, però, come per il giacimento di Kiruna, si tratta di un
progetto a lungo termine che difficilmente potrà vedere la luce e dare risultati
concreti in tempi brevi. L’Unione Europea ha quindi deciso di muoversi sulla
scia degli Stati Uniti e della “Nuova Via della Seta” cinese, cercando di
chiudere accordi bilaterali di investimento e scambio commerciale con diversi
paesi ricchi di materie prime critiche.
La strategia “Global Gateway” lanciata nel 2021 rappresenta uno dei più grandi
piani geopolitici e di investimento dell’Unione, che ha messo sul tavolo oltre
300 miliardi di euro fino al 2027, con l’obiettivo dichiarato, tra gli altri, di
diversificare le fonti di approvvigionamento delle materie critiche.
La Global Gateway, a cui si è aggiunto nel 2023 il Critical Raw Material Act,
che pone obiettivi specifici di approvvigionamento al 2030, ha portato a diversi
accordi fondamentali per la sopravvivenza dei piani di transizione digitale ed
energetica del continente: Argentina, Cile e Brasile in America Latina;
Kazakistan, Indonesia e Mongolia in Asia; Namibia, Zambia, Uganda e Rwanda in
Africa sono alcuni dei paesi con cui la Commissione Europea ha già siglato delle
partnership strategiche o ha intavolato delle discussioni di alto livello per
agevolare degli investimenti comuni nell’estrazione di terre rare, proprio come
fatto dagli Stati Uniti con l’Ucraina.
Considerata la volontà dell’Unione Europea di competere nel settore
dell’intelligenza artificiale, quantomeno per ciò che riguarda l’espansione dei
data center sul territorio, una robusta e diversificata rete di
approvvigionamento delle materie prime critiche è fondamentale.
Come si legge infatti sul sito della Commissione Europea, “nel corso del 2025,
la Commissione proporrà il Cloud and AI Development Act, con l’obiettivo almeno
di triplicare la capacità dei data center europei nei prossimi 5-7 anni e di
soddisfare appieno il fabbisogno delle imprese e delle pubbliche amministrazioni
europee entro il 2035. La legge semplificherà l’implementazione dei data center,
individuando siti idonei e snellendo le procedure autorizzative per i progetti
che rispettano criteri di sostenibilità e innovazione. Allo stesso tempo,
affronterà la crescente domanda energetica promuovendo l’efficienza energetica,
l’adozione di tecnologie innovative per il raffreddamento e la gestione
dell’energia, e l’integrazione dei data center all’interno del sistema
energetico più ampio”.
Il piano non solo è ambizioso in termini di obiettivi, ma tiene strettamente
legate le due facce della strategia generale europea, ovvero lo sviluppo
tecnologico e la transizione verde entro il quale deve essere inquadrato.
Impossibile pensare di fare l’uno o l’altra, tantomeno entrambi, senza le
materie prime necessarie.
AFRICA, VECCHIA E NUOVA TERRA DI CONQUISTA
In questo quadro geopolitico già di per sé complesso, un discorso a parte
meritano i paesi del Sud Globale e in particolare quelli africani, che come si è
visto sono quelli in cui si trovano le maggiori riserve di materie prime
critiche e terre rare.
Il timore, come già raccontato nel reportage dall’AI Summit di Parigi, è che
ancora una volta si vada a configurare un modello di estrattivismo colonialista,
in cui i paesi più ricchi, dove avviene la produzione di tecnologia, si
arricchiranno ancor di più, mentre i paesi più poveri, da dove vengono prelevate
le materie prime, subiranno i devastanti impatti sociali e ambientali di queste
politiche.
Il rapporto “Rare Earth Elements in Africa: Implications for U.S. National and
Economic Security”, pubblicato nel 2022 dal Institute for Defense Analyses, una
società senza scopo di lucro statunitense, è molto esplicito nel prevedere un
aumento dell’influenza del continente africano nel settore e le problematiche
che ciò può comportare.
“Man mano che le potenze globali si rivolgono ai mercati africani per rafforzare
la propria influenza”, si legge nell’executive summary del rapporto, “è
probabile che l’estrazione delle terre rare nel continente aumenti. In Africa si
contano quasi 100 giacimenti di terre rare, distribuiti in circa la metà dei
paesi del continente. Cinque paesi — Mozambico, Angola, Sudafrica, Namibia e
Malawi — ospitano da soli la metà di tutti i siti di giacimento di terre rare in
Africa. Attualmente, otto paesi africani registrano attività estrattiva di REE,
ma a gennaio 2022 solo il Burundi disponeva di una miniera operativa in grado di
produrre a livello commerciale. Tuttavia, altri paesi potrebbero raggiungere
presto capacità produttive simili”.
La parte che più interessa in questo frangente è però il punto in cui i
ricercatori sottolineano come “la gestione delle risorse naturali in Africa e
gli indicatori di buona governance devono migliorare, se si vuole garantire che
i minerali di valore non portino benefici solo alle imprese americane, ma anche
ai cittadini africani”.
Considerando che la “Academy of international humanitarian law and human rights”
dell’Università di Ginevra ha mappato 35 conflitti armati attualmente in corso
nell’Africa subsahariana, di cui molti hanno proprio come causa il possesso
delle risorse minerarie, sembra difficile prevedere che questa volta la storia
prenda una strada diversa da quella già percorsa in passato.
ROTTE ALTERNATIVE
In virtù delle complessità descritte per l’approvvigionamento delle terre rare
e, più in generale, delle materie prime critiche, alcune società stanno
sperimentando delle vie alternative per produrle o sostituirle.
La società britannica Materials Nexus, per esempio, ha dichiarato a inizio
giugno di essere riuscita a sviluppare, grazie alla propria piattaforma di AI,
una formula per produrre magneti permanenti senza l’utilizzo di terre rare.
La notizia, ripresa dalle maggiori testate online dedicate agli investimenti nel
settore minerario, ha subito destato grande interesse, non solo perché aprirebbe
una strada completamente nuova per i settori tecnologico ed energetico, ma
perché sarebbe uno dei primi casi in cui è l’intelligenza artificiale stessa a
trovare una soluzione alternativa per il suo stesso sviluppo.
Secondo Marta Abbà, se anche la notizia data da Material Nexus dovesse essere
confermata, ci vorrebbero comunque anni prima di arrivare alla messa in pratica
di questa formula alternativa. Sempre che – cosa per nulla scontata – la
soluzione non solo funzioni davvero, ma si dimostri anche sostenibile a livello
economico e a livello ambientale.
È più realistico immaginare lo sviluppo di un’industria tecnologicamente
avanzata in grado di riciclare dai rifiuti sia le terre rare che gli altri
materiali critici, sostiene Abbà. Prodotti e dispositivi dismessi a elevato
contenuto tecnologico possono in tal senso diventare delle vere risorse, tanto
che l’Unione Europea ha finanziato 47 progetti sperimentali in questa direzione.
Tra questi, c’è anche un promettente progetto italiano: Inspiree, presso il sito
industriale di Itelyum Regeneration a Ceccano, in provincia di Frosinone. È il
primo impianto in Europa per la produzione di ossidi e carbonati di terre rare
(neodimio, praseodimio e disprosio) da riciclo chimico di magneti permanenti
esausti.
L’impianto di smontaggio, si legge nel comunicato di lancio del progetto, potrà
trattare mille tonnellate all’anno di rotori elettrici, mentre l’impianto
idrometallurgico a regime potrà trattare duemila tonnellate all’anno di magneti
permanenti ottenuti da diverse fonti, tra cui anche hard disk e motori
elettrici, con il conseguente recupero di circa cinquecento tonnellate all’anno
di ossalati di terre rare, una quantità sufficiente al funzionamento di un
milione di hard disk e laptop, e di dieci milioni di magneti permanenti per
applicazioni varie nell’automotive elettrico.
Nonostante questi progetti, l’obiettivo europeo di coprire entro il 2030 il 25%
della domanda di materie prime critiche, tra cui le terre rare, grazie al
riciclo, appare ancora molto distante, considerando che a oggi siamo appena
all’1%.
La strada dell’economia circolare è sicuramente incerta, lunga e tortuosa, ma
allo stesso tempo più sostenibile di quella estrattivista e in grado di
garantire una strategia di lungo periodo per il continente europeo.
L'articolo Chi controlla le terre rare controlla il mondo proviene da Guerre di
Rete.
Fine dell’Ucraina
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Foto di Donne in nero – Bologna
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La guerra in Ucraina si sta avvicinando alla sua conclusione che, comunque si
configuri, non potrà che coincidere con lo sfacelo dell’“ex Repubblica
socialista sovietica dell’Ucraina” (prima delle quale uno stato ucraino non era
mai esistito ed è bene ricordare che la Crimea che Volodymyr Zelens’kyj non fa
che rivendicare fu unita alla Repubblica sovietica ucraina soltanto nel 1954 da
Nikita Sergeevič Chruščëv e, secondo il censimento di quell’anno, era popolata
dal 72 per cento di russi).
Come la classe dirigente europea non ha fatto che ripetere: saremo con l’Ucraina
fino alla fine. Ma questa fine non potrà che implicare anche le sorti
dell’Europa.
Che cosa farà e che cosa dirà l’Europa quando la fine dell’Ucraina, che essa ha
contribuito a rendere catastrofica, sarà un fatto compiuto? Secondo la
previsione degli osservatori politici più accorti, è probabile che anche
l’identità dell’attuale comunità europea, che non ha altra realtà giuridica che
quella di un accordo internazionale fra stati, sarà revocata in questione. E
questa è l’unica conseguenza positiva che possiamo aspettarci dalla guerra in
Ucraina, altrimenti, come tutte le guerre, sciagurata.
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Pubblicato su Quodlibet (qui con l’autorizzazione della casa editrice). Tra gli
ultimi libri di Giorgio Agamben: Quaderni. Volume I (2024), Horkos. Il
sacramento del linguaggio (2023), Categorie italiane (2021).
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LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MASSIMO DE ANGELIS:
> Commercio della sicurezza e nuovo ordine mondiale
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> Se vuoi la pace…
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L'articolo Fine dell’Ucraina proviene da Comune-info.