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La battaglia di Los Angeles
Un primo schizzo di queste giornate di lotta. CARTOLINA DAL PRECIPIZIO La violenta aggressione del senatore Alex Padilla è stata certamente fra gli eventi più clamorosi della guerra mossa da Donald Trump alla California. L’episodio è avvenuto durante la conferenza stampa in cui la ministra della sicurezza Kristi Noem ha dichiarato che le sue milizie sarebbero rimaste a Los Angeles fino alla «liberazione della città dall’oppressivo socialismo della sindaca Karen Bass e del governatore Gavin Newsom», la prima formulazione esplicita di un auspicato regime change in uno Stato dell’Unione. Dopo aver sdoganato per anni la dialettica del sopruso, dell’insulto e dell’ingiuria, il regime che si è impadronito del governo più potente del mondo ha adottato senza più mezzi termini la prepotenza come prassi politica e fatto di Los Angeles il banco di prova per un salto di qualità verso «l’autoritarismo competitivo”, il termine coniato da Steven Levitski per i regimi come la Turchia o l’Ungheria di Orbán, in cui permangono gli orpelli superficiali della democrazia (elezioni, cariche e istituzioni dello stato) ma di fatto c’è poco che contrasti davvero il potere quasi assoluto di un tiranno autocratico.  * * di Luca Celada Nel caso americano, l’uomo che vuole farsi Re riunisce disturbi della personalità narcisista, smisurata ambizione e interessi personali, oltre a possibili sintomi di incipiente demenza senile. La conferma elettorale e l’immunità preventiva ottenuta dalla Corte suprema, lo rendono più potente e pericoloso di ognuno di suoi 45 predecessori, in una carica che l’ordinamento statunitense investe già comunque di enorme potere esecutivo.  L’attacco al senatore di Los Angeles ne è stata la rappresentazione plastica. Le immagini di Padilla, spintonato fuori dalla sala stampa mentre tenta di obiettare, buttato a terra e ammanettato dietro la schiena per aver posto una domanda, hanno restituito in un piano sequenza, tutta la violenza iniettata nel discorso pubblico in un decennio di trumpismo e dato all’America un’idea abbastanza chiara di cosa si ottiene quando a un decennio se ne aggiunge un altro.  L’attacco al senatore di Los Angeles ne è stata la rappresentazione plastica. Le immagini di Padilla, spintonato fuori dalla sala stampa mentre tenta di obiettare, buttato a terra e ammanettato dietro la schiena per aver posto una domanda, hanno restituito in un piano sequenza, tutta la violenza iniettata nel discorso pubblico in un decennio di trumpismo e dato all’America un’idea abbastanza chiara di cosa si ottiene quando a un decennio se ne aggiunge un altro.  * * di Luca Celada A Los Angeles, il presidentissimo ha deciso di imporre la presidenza reinventata come carica imperiale. Mobilitando l’esercito e schierandolo sulle strade con mezzi corazzati e armi da guerra in «supporto alle operazioni di rimozione» degli immigrati, Trump ha sfondato la linea rossa della proibizione costituzionale contro l’impiego delle forze armate per il controllo dell’ordine pubblico. L’obbiettivo, ovviamente, non è la semplice imposizione dell’ordine o anche il completamento della «maggiore deportazione di sempre». L’esercito del presidente, schierato in una città americana contro la volontà delle autorità locali, rappresenta un oltraggio senza precedenti all’ordinamento federalista, mirato a consolidare il potere e servire da monito ad altre amministrazioni «inadempienti», in particolare le grandi città “santuario” dove per ordine presidenziale, attraverso il social Truth, verranno presto dislocate altre forze di «liberazione involontaria». * * di Luca Celada Con l’operazione California il trumpismo ha superato a destra gli epigoni dei sovranismi europei. Il governo che si appresta a istituire un «ministero per la remigrazione» si pone ora a paradigma di ogni delirio eugenetico, pur accarezzato dalle ultradestre occidentali, ma che nessuno aveva per ora avuto l’ardire di mettere in pratica in questi termini. Mentre ci si stracciavano le vesti per la caduta di Francia, Germania o Inghilterra in mano alle destre identitarie, è stato l’occidentale “faro di democrazia” a capitolare per primo. In sei mesi gli Stati Uniti hanno subito un’accelerazione vertiginosa verso un regime post-democratico che vediamo ora prendere forma. Non ha esagerato il governatore della California quando nel suo appello alla cittadinanza ha detto: «ll momento che avevamo temuto è giunto». LA “REMIGRAZIONE” E IL REGNO DI STEPHEN MILLER A differenza di molti altri leader sovranisti, Donald Trump non è un ideologo. È piuttosto il più agnostico degli opportunisti, un istintivo demagogo che ha individuato il panico identitario e la paranoia razziale come gli espedienti più efficaci per raggiungere il potere. Nel processo ha altresì abilitato pericolosi fanatici elevando figure dagli anfratti reconditi della rete e dalle milizie neofasciste a posizioni di smisurato potere – dagli autori del Project 2025 agli insurrezionalisti graziati del 6 gennaio.  Per la pratica “remigrazione” l’architetto dell’epurazione è Stephen Miller, il quarantenne ministro ombra, affettuosamente noto alle concittadine e ai concittadini come “Santa Monica Goebbles”, grazie al physique du rôle e a un fattore simpatia che lo avvicina al propagandista hitleriano. Miller è ricordato come fanatico sin dai tempi in cui frequentava il liceo di Santa Monica, il quartiere balneare di Los Angelese. Invece di dedicarsi al surf e alle canne come molte compagne e molti compagni, inveiva già allora, come unico militante conservatore della scuola, contro correttezza politica, bidelli sfaticati e soprattutto l’eccessiva presenza di studenti di origine ispanica. * di Luca Celada La rapida carriera attraverso gabinetti politici e podcast di estrema destra hanno affinato il fanatismo di gioventù in pratica di odio full-time. Oggi, come l’esponente forse più potente del gabinetto Trump, Miller è «singolarmente dotato della capacità di odiare», nelle parole del corrispondente della ABC News, Terry Moran. Moran, che per la sua valutazione postata sui social è stato licenziato dall’emittente su richiesta della Casa Bianca, ha scritto che Miller «si nutre di odio alla stregua di un sostentamento spirituale», ed è difficile dargli torto. È stato Miller, nella settimana prima che scattasse l’operazione Los Angeles, a convocare una cinquantina di comandanti di agenzie del servizio immigrazione (la più famigerata è ICE, ma ve ne sono molte altre, riunite sotto l’egida del DHS – Department of Homeland Security). In una sfuriata che testimoni dicono abbia rimbombato nei corridoi della Casa Bianca, Miller ha definito patetici i numeri degli arresti praticati fino ad allora e ordinato che venissero moltiplicati. La quota minima sarebbe stata fissata a 3000 arresti al giorno.  * di Luca Celada Basta quindi privilegiare clandestini con effettive fedine penali (e rientranti quindi nell’ipotetica categoria dell’«invasione criminale» tanto sventolata da Trump). D’ora in avanti tutto valeva, erano da prendere e far sparire immigrati da ogni dove e con ogni mezzo. I risultati non si sono fatti attendere: colonne di mezzi corazzati hanno tuonato nelle strade della città dove più della metà dei 14 milioni di cittadini sono ispanici, il 30% sono nati all’estero e potenzialmente un milione e mezzo non hanno permesso di residenza legale. Pattuglie in assetto “Falluja” [città iraqena dove l’esercito statunitense ha effettuato pesanti operazioni militari, che hanno anche portato a stragi di civili, ndr] o in alternativa squadre paramilitari con maschere sui volti e senza nominativi sulle divise, si sono sparse nei quartieri, nei posti di lavoro, poi nei campi agricoli del cesto da dove proviene più della metà della verdura del paese e dove il 75% dei braccianti non hanno permessi (con la piena connivenza delle aziende) e hanno cominciato a strappare violentemente la gente dalle loro vite.  Si sono prodotte scene drammatiche di famigliari che tentavano di bloccare le auto senza insegne sulle quali venivano caricati le desaparecidas e i desaparecidos, e sono state arrestate e stati arrestati e a loro volta malmenate e malmenati, bambine e bambini strappate e strappati dalle braccia di madri, “rimozioni” strazianti anche di minorenni in affidamento… scene scomposte di violenza indiscriminata e pianificata, documentata non solo nei telefonini dei testimoni. Le squadracce sono spesso accompagnate da telecamere per la produzione di filmati propagandistici. La ministra Noem (famigerata per i selfie fatti nel lager salvadoregno di CECOT) è notoriamente seguita da truccatori e troupe personali quando si unisce ai rastrellamenti.  * di Luca Celada Alcune di queste agenzie mantengono canali social dove vengono diffusi i video degli arresti, montati su accattivanti basi musicali. Siamo oltre i semplici “servitori dello Stato” che seguono i proverbiali ordini e più vicini a milizie fedeli al tiranno con carta bianca per far fronte a una cittadinanza dissenziente. Già durante il primo mandato, gli agenti preposti al confine erano stati elevati a una specie di guardia pretoriana da Trump, che li aveva spesso disposti in formazione sui palchi dei suoi comizi. Lo scorso aprile il presidente ha promulgato un ordine esecutivo intitolato “sguinzagliare le forze dell’ordine” – le immaginabili conseguenze si stanno ora esplicitando sulle strade di Los Angeles. Gli agenti delle varie agenzie per l’immigrazione sono stati impiegati nella seconda metropoli del Paese come forza di occupazione, strumenti della volontà presidenziale. Nella sua fatidica conferenza stampa, la ministra Noem era affiancata da un ufficiale della Border Patrol, Gerald Bovino, che ha definito «mozzafiato» (breathtaking) la prospettiva di poter improvvisamente menare le «mani come da tempo molti avrebbero voluto». Occorre puntualizzare che non si tratta qui dell’interdizione di clandestini alla frontiera. Quando si parla di “remigrazione” si intende la rimozione di persone che in molti casi vivono a lavorano in città da decenni, hanno famiglie, case, figlie e figli con la cittadinanza, pagano tasse.  * * di Luca Celada Quello che passa in questi giorni in città, dove interi quartieri hanno ormai le saracinesche abbassate e la gente ha paura di uscire di casa per timore di venire “scomparsa” senza rivedere più i propri cari, è una sindrome “cisgiordana”: la città come territorio occupato da forze ostili, il controllo militare di una popolazione da sottomettere e infine eliminare. Le immagini di pattuglie in assetto di guerra che rovistano nelle stanze di bambine e bambini a East Los Angeles non possono non rimandare quelle dei soldati IDF che si provano i vestiti abbandonati nelle case distrutte a Gaza. Il completamento di una metastasi “israeliana” che porta infine i suoi frutti avvelenati nel cuore dell’Occidente connivente.  La resistenza non è tollerata, chi obietta viene arrestato e tacciato di fiancheggiamento. L’abrogazione del giusto processo per le persone deportate, poi per le e gli studenti straniere si è inevitabilmente allargato alla cittadinanza e sempre più a politici di opposizione – altro sicuro sintomo autoritario. Un’escalation intimidatoria che per ultimo ha fatto scattare le manette, apposte dai soliti energumeni, al revisore dei conti e candidato a sindaco di New York, Brad Lander, accusato di «fiancheggiamento». A oggi la stessa sorte è toccata al sindaco di Newark, Ras Baraka (ostruzione di pubblico ufficiale), alla giudice del Wisconsin Hannah Dugan (favoreggiamento di clandestino), alla parlamentare del New Jersey LaMonica McIver (interferenza con agenti federali) e, negli stessi locali del Congresso, all’assistente del parlamentare di New York Jerry Nadler.  * * di Luca Celada Ognuno di questi è un inesorabile passo verso l’extralegalità che arruola reparti scelti al servizio diretto del regime e sancisce il ministero di Giustizia come arma di repressione di stato. Sono passati sei mesi ma gli Stati Uniti sono già lontani anni dal Paese che furono. E c’è la sensazione di essere sulla soglia di un’escalation ancora più sanguinosa, una marea montante di violenza politica che questa settimana ha registrato l’assassinio di Melissa Hortman, la capogruppo democratica nel Parlamento del Minnesota, giustiziata nella sua casa assieme al marito da un fanatico antiabortista. Per chi ha seguito la parabola trumpista non si tratta di una sorpresa ma dello sviluppo inevitabile dei semi di astio e odio piantati senza tregua a ogni livello della dialettica e della società. L’ESTENSIONE AGLI ALTRI STATI Mentre Tom Homan (“zar” delle deportazioni) e gli altri scherani rivendicano il diritto e l’intenzione di rimanere a Los Angeles «finché vorremo e rimuovere chiunque e dovunque ogni giorno», non c’era bisogno dei tweet notturni di Trump per capire che il modello è replicabile e preventivato in tutte le città ove occorrerà «impartire una lezione». Tutto lascia supporre una continuata escalation dello scontro sociale intenzionalmente ricercato ed esasperato per imporre condizioni insostenibili ed eventuali ulteriori giri di vite nel caso di inevitabili reazioni.  Perché sennò sarebbe stato reclutato Enrique Tarrio, il neofascista dei Proud Boys che stava scontando una pena di 22 anni di reclusione per sedizione, prima di essere graziato e liberato assieme agli altri 1.400 imputati del tentato golpe del 6 gennaio? Nel giorno delle manifestazioni No Kings, mentre il governatore della Florida Ron DeSantis comunicava alla cittadinanza che sarebbe stato lecito e legale investire manifestanti con la propria auto, Tarrio invitava cittadine e cittadini ad assistere le autorità denunciando immigrati irregolari tramite l’apposita app per la delazione (IceRaid) che a fronte della denuncia anonima prevede ricompense in criptovaluta.  * di Luca Celada Il sistema utilizza l’intelligenza artificiale per individuare soggetti target, parte del massiccio trasferimento di materiali e sistemi militari al complesso industriale-repressivo. Mentre nel cielo di Los Angeles volteggiano elicotteri militari Black Hawk e le manifestazioni vengono monitorate da droni Predator MQ-9 reaper in dotazione alla Customs and Border patrol (gli stessi usati per raccogliere intelligence in Iraq e Afganistan), il governo ha firmato un contratto di $130 milioni con la Palantir di Peter Thiel per analizzare e «raffinare» dati di sorveglianza delle persone migranti. Uno scorcio del panopticon distopico che si va delineando con la partecipazione attiva del complesso tech-militare di Silicon Valley. È un complesso securitario che trova la prima applicazione su larga scala non contro la cupola criminale di cui vaneggia la demagogia, ma contro la popolazione sul cui lavoro poggia la possente economia californiana, quarta nella classifica mondiale – quella «gente da terzo mondo» che il nazionalismo bianco vorrebbe ora che fosse «sfruttata a casa propria».  * di Luca Celada Los Angeles, la metropoli più multietnicamente integrata è l’anatema del modello sovranista che esige dunque la sua distruzione. Perché il “completamento della missione» di cui farneticano i comunicati e gli editti su Truth Social equivarrebbe all’estinzione della vita cittadina, quella di un territorio il cui congenito meticciato affonda nella storia (e nella conquista militare che a metà Ottocento lo strappò al Messico). Una geografia bilingue e biculturale, dall’identità non tanto divisa quanto stratificata, segnata da guerre e conquiste, immigrazioni incrociate, in cui, come sostengono i circa 50 milioni di persone di origine ispanica che abitano non solo a Los Angeles o in California ma in tutto il Southwest (California, Arizona, Nuovo Messico e Texas), la gente non ha passato il confine, ma è stata attraversata dalle frontiere fluide e mutevoli. Imporre la scelta binaria ha men che meno senso qui, dove è proprio la dualità, invece, a essere realtà quotidiana, accettata, per inciso, anche dagli altri gruppi etnici, senza particolari patemi. Esigere prove di lealtà nazionale misconosce insomma le dinamiche fondamentali di una comunità che si è in buona parte mossa oltre assunti coloniali che le forze del suprematismo pretendono ora di reintrodurre con la forza, il nefasto “esperimento” denunciato dalla sindaca Karen Bass.   * di Luca Celada Il senatore Padilla, figlio di un cuoco di fast food e di una collaboratrice domestica, giunto a laurearsi al MIT e a farsi eleggere, rappresenta l’essenza della parabola classica che nel crogiolo americano muove dall’immigrazione attraverso sacrificio e lavoro fino ai frutti della generazione istruita che esprime l’investimento generazionale collettivo. Il sogno americano nella sua forma più paradigmatica – articolo di fede delle e degli immigrati ispanici come lo fu prima di loro per le ondate irlandesi, mediterranee ed est europee.   Le botte date a Padilla come una volta ai «messicani presuntuosi», puntando al membro più prestigioso della classe marginalizzata, non solo promuovono la criminalizzazione di massa ma ristabiliscobo icasticamente le gerarchie razziali.  Ed è impressionate assistere alla rapidità con cui il regime torna a imporre antichi schemi. Scheletri e fantasmi di antichi razzismi nazionali si agitano catarticamente sulle strade dove le squadracce imperversano con un’impunità che nemmeno il Ku Klux Klan nelle campagne sudiste aveva. Nel mirino delle colonne corazzate che possono apparire in ogni luogo, o le auto non identificate da cui in ogni momento possono balzare fuori individui mascherati vi è infatti l’intera popolazione non bianca per la quale si prospetta, ora concretamente, il ritorno a un’America “great” solo per qualcun altro. Questo «laboratorio di innovazione autoritaria», come lo ha definito la storica del fascismo Ruth Ben Ghiat, che, nel suo 250° anniversario, potrebbe mettere fine all’esperimento americano, ha quindi molto in comune con patologie nazionali fin troppo note. di Luca Celada Nei giorni della protesta del No Kings e di quelle precedenti, ho visto in quasi ogni loaclità – Downtown, Paramount, South Central, sui campus – giovani latinos e latinas, di solito ragazze con cartelli su cui dichiaravano di esser presenti «para mis padres», per i miei genitori. In inglese o spagnolo proclamavano il bisogno fisiologico di esserci per ripagare genitori e antenati dei sacrifici che li avevano portati fin la.  Ricordo in particolare Jenesis, 18 anni, che all’imbrunire del 11 giugno, negli ultimi minuti prima del coprifuoco ci ha tenuto a venire dal sobborgo ispanico di Huntington Park con la toga della cerimonia del diploma conseguito quello stesso pomeriggio, per mostrare al cordone di cinquanta agenti in tenuta anti-sommossa il suo cartello che rifiutava il teorema della «crisi dell’immigrazione». E mostrargli la faccia della propria meglio gioventù e del meglio che ha da offrire questo Paese oggi in bilico su un precipizio. L’immagine di copertina è di Luca Celada SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo La battaglia di Los Angeles proviene da DINAMOpress.
Il ruolo antisistemico dei migranti
LA GUERRA CONTRO I MIGRANTI CHE DICONO “BASTA!” È IN REALTÀ LA GUERRA DEL CAPITALISMO. LA COSA PIÙ IMPORTANTE, DICE RAÚL ZIBECHI, È CHE I MIGRANTI HANNO PERSO LA PAURA. DA QUANDO È COMINCIATA LA POLITICA TRUMPISTA DELLE ESPLUSIONI, MOLTI SI SONO CHIUSI IN CASA PER PAURA DI ESSERE SCOPERTI, ARRESTATI ED ESPULSI. ORA SCENDONO IN PIAZZA. “QUALCOSA È CAMBIATO, E QUESTO CAMBIAMENTO CI RIEMPIE DI SPERANZA NEL MOMENTO PIÙ BUIO DEL DOMINIO CAPITALISTA. PER COLORO CHE AUSPICANO LA CADUTA DELL’IMPERIALISMO E DEL CAPITALISMO, QUESTO È UN MOMENTO IMPORTANTE. NON PERCHÉ CREDIAMO CHE LA SUA CADUTA AVVERRÀ DA UN GIORNO ALL’ALTRO… CIÒ CHE CI INCORAGGIA È CONSTATARE CHE LE RIVOLTE NON SONO STATE MESSE A TACERE… E, SOPRATTUTTO, CHE LE LOTTE PIÙ DIVERSE SI STANNO COLLEGANDO…” La caccia ai migranti da parte del governo statunitense, che li insegue persino per le strade, entra nelle loro case e ne abusa, è un’ulteriore prova che le democrazie hanno cessato di esistere, persino nel Nord del mondo, dove sono nate. La vera novità sono le risposte date sia dai migranti stessi che da molti figli di migranti nati negli Stati Uniti e senza problemi legali. È possibile che i migranti stiano diventando come i cristiani dell’antica Roma. Furono perseguitati, ma ebbero un ruolo di primo piano nella trasformazione e anche nella caduta dell’impero, rifiutandosi di partecipare ai riti ufficiali. Oggi non è più lo stesso, ma potrebbe essere un sintomo della crescente decomposizione della “nazione essenziale”. Chiamiamo le cose con il loro nome: questa è una guerra del capitalismo. Contro i migranti, contro le persone di colore, contro i popoli indigeni e neri, contro chi è diverso. Sebbene sia condotta in nome della democrazia, è totalitarismo. Il filosofo Giorgio Agamben ha definito il totalitarismo moderno come “l’instaurazione, mediante lo stato di eccezione, di una guerra civile legale, che permette l’eliminazione fisica non solo degli avversari politici, ma di intere categorie di cittadini che per qualche ragione non risultano integrabili nel sistema politico” (Lo stato d’eccezione, Bollati). Certo, questa non è una guerra contro tutti i migranti (non è mai “contro tutti”), ma contro quella parte di giovani che dice “basta!”, che non si arrende, che si ribella e resiste. Ciò che è notevole è che siano sempre più numerosi e che abbiano una consapevolezza più chiara che la loro situazione non è dovuta a un governo o a un governatore, ma è il risultato di un sistema globale chiamato capitalismo che li attacca in California, in Messico, in Europa, a Wall Street o ovunque si trovino. Le proteste in corso riecheggiano quelle di migliaia di giovani messe in scena nel 2024 a sostegno del popolo palestinese, una solidarietà che continua e tende a crescere in questo periodo. I protagonisti sono le stesse giovani generazioni che non hanno futuro nel sistema. Ma sono anche legate alla lunga storia di lotte nello stato della California, sia tra i migranti che tra la popolazione nera, scoppiate quando una giuria assolse gli agenti di polizia che picchiarono Rodney King nel 1991, causando la morte di oltre cinquanta persone. Ora migranti irregolari, figli di migranti legali e molti bianchi si uniscono, esprimendo la rabbia accumulata per decenni di politiche neoliberiste che avvantaggiano solo i ricchi. Le proteste in corso espongono la dura realtà vissuta da milioni di persone negli Stati Uniti. In primo luogo, rivelano il vero volto del sistema, che ha mobilitato 2.000 soldati della Guardia Nazionale e poi 700 Marines per contenere le proteste, sebbene il governatore dica che ora i membri della Guardia Nazionale siano 4.000. La brutalità degli ufficiali in uniforme pesantemente armati, l’uso abbondante di gas lacrimogeni e granate stordenti, dimostrano in cosa consiste la tanto decantata democrazia della superpotenza. La militarizzazione della risposta per contenere la popolazione dimostra che ci sono sempre meno differenze tra il Nord e il Sud del mondo. In secondo luogo, le proteste hanno aperto una frattura istituzionale, poiché il governatore della California e il sindaco di Los Angeles hanno respinto la militarizzazione. È normale che le proteste dal basso aprano crepe nelle istituzioni, soprattutto in uno stato come la California, che si esprime chiaramente contro Trump. Vedremo quanto profonda si spingerà la frattura istituzionale, anche se possiamo aspettarci poco. La cosa più importante, tuttavia, è che i migranti hanno perso la paura. Da quando è iniziata la politica trumpista delle espulsioni, molti si sono chiusi in casa per paura di essere scoperti, arrestati ed espulsi. Ora non solo scendono in piazza, ma non hanno paura di affrontare le forze armate del Paese più potente del mondo. Qualcosa è cambiato, e questo cambiamento ci riempie di speranza nel momento più buio del dominio capitalista. Per coloro che auspicano la caduta dell’imperialismo e del capitalismo, questo è un momento importante. Non perché crediamo che la sua caduta avverrà da un giorno all’altro. Sappiamo di essere testimoni di un processo storico di aspre lotte tra chi sta in alto e chi sta in basso, che durerà decenni, sarà prolungato e tortuoso. Ciò che ci incoraggia è constatare che le rivolte non sono state messe a tacere, che ciò che sta accadendo a Gaza non rimarrà impunito e, soprattutto, che le lotte più diverse si stanno collegando. Infine, per coloro che credono che la caduta di un impero avvenga sia dall’interno che dall’esterno, le mobilitazioni in California e in altri stati ci mostrano che ci troviamo di fronte a una possibilità senza precedenti: la continuazione delle lotte negli Stati Uniti, visto che fino ad ora ci sono state grandi fiammate che si sono spente in poche settimane. A quanto pare, ci troviamo di fronte a una nuova realtà. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su La Jornada e qui con consenso dell’autore -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO TESTO DI MARCO CODEBÒ: > Marx a Compton -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il ruolo antisistemico dei migranti proviene da Comune-info.
2025, Los Angeles
LE ULTIME NOTIZIE DICONO CHE PERFINO I MARINES SI STANNO PER UNIRE ALLE TRUPPE DELLA GUARDIA NAZIONALE NELLE STRADE DI LOS ANGELES PER REPRIMERE CHIUNQUE INTERFERISCA CON GLI AGENTI DELL’IMMIGRAZIONE (ICE) DURANTE I RAID. IN QUESTA GUERRA SCATENATA DA TRUMP CONTRO I NON BIANCHI NON C’È LEGGE, GOVERNATORE, GIUDICE O SINDACO CHE PUÒ INTROMETTERSI. EPPURE MIGLIAIA DI PERSONE NON SMETTONO DI RESISTERE ALLA BRUTALITÀ DELL’ASSOLUTISMO TRUMPIANO: A PROTESTARE NELLE STRADE E PROTEGGERE CIÒ CHE RESTA DELLA DEMOCRAZIA NON CI SONO SOLO I GIOVANI CHICANOS, MA ANCHE STUDENTI, COLLETTIVI ANTIFASCISTI, SINDACATI DI BASE, PERSONE COMUNI. IN QUESTO ARTICOLO, IL COLLETTIVO NODO SOLIDALE – FORMATO DA PERSONE CHE VIVONO IN MESSICO E ITALIA – RICOSTRUISCE COSA È ACCADUTO NEGLI ULTIMI GIORNI E PERCHÉ, MA RICORDA ANCHE COSA ACCADE NEL RESTO DEL MESSICO E NEL CONFINE DEL SUD, IN CHIAPAS INFATTI LA SITUAZIONE È ESPLOSIVA. “COSÌ, LA FRONTIERA, QUELLA TRA STATI UNITI E MESSICO, MA ANCHE QUELLA TRA SUD E NORD DEL MESSICO, TRA DIRITTO E ARBITRIO, TRA UMANITÀ E REPRESSIONE, SI ALLARGA, SI MOLTIPLICA, SI INCISTA NEL TERRITORIO E NEI CORPI. NON È UN CONFINE GEOGRAFICO: È UNA FERITA POLITICA CHE SEPARA CHI FUGGE DA CHI ESCLUDE, CHI RESISTE DA CHI REPRIME…” Il 6 giugno, agenti dell’ICE hanno condotto blitz in vari punti di Los Angeles: Fashion District, Home Depot e una grossa azienda tessile. Oltre cento arresti. Le strade hanno risposto: molotov, blocchi di cemento, barricate e auto in fiamme. I manifestanti hanno resistito con determinazione, trasformando la città in un campo di battaglia contro la violenza istituzionale. La risposta della polizia è stata brutale: gas lacrimogeni, flash-bang, proiettili di gomma e granate stordenti. Ventisette persone arrestate, almeno tre manifestanti feriti, sei agenti colpiti e due giornalisti centrati da proiettili “non letali” mentre documentavano i fatti. È l’urlo collettivo di chi non può più accettare le retate dell’ICE e le politiche razziste dell’amministrazione Trump. È un punto di svolta nella resistenza contro l’apparato repressivo statunitense: una mobilitazione che brucia di coraggio, dolore e dignità. La risposta federale arriva il 7 giugno. Trump firma un ordine senza precedenti: la mobilitazione della Guardia Nazionale sotto il Titolo 10 del Codice degli Stati Uniti, (U.S. Code) che regola le forze armate. Quando la Guardia Nazionale viene mobilitata sotto Titolo 10, significa che agisce sotto il controllo federale diretto, cioè del Presidente degli Stati Uniti, non più sotto il comando del governatore dello stato, può essere impiegata come forza militare federale attiva, proprio come l’esercito regolare. Circa 2.000 tra militari e forze federali vengono dispiegati nelle strade di Los Angeles, a difesa dei centri ICE e degli edifici federali. Un atto gravissimo, che non si vedeva dal 1965 senza il consenso dello Stato interessato. Il governatore Gavin Newsom ha denunciato con forza l’iniziativa: «Una violazione della sovranità statale e una provocazione deliberata». Ha già annunciato una causa legale contro Washington. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MARCO CODEBÒ: > Marx a Compton -------------------------------------------------------------------------------- Tra fiamme, barricate e fumo lacrimogeno, un’immagine è diventata simbolo virale: un manifestante a volto coperto, in sella a una moto, che sventola con fierezza la bandiera messicana davanti a un’auto in fiamme, diventato emblema virale di un conflitto sociale destinato a incendiare i cuori. Questa non è una protesta pacata, né uno sciopero simbolico. È l’ennesima rivolta popolare, reale, viscerale. Contro la deportazione di massa. Contro lo smantellamento sistematico dei diritti. Contro un potere autoritario che usa gli eserciti per proteggere una società basata sull’esclusione, sulla discriminazione, su un “noi” bianco e privilegiato contro un “loro” criminalizzato e perseguitato. Le leggi migratorie reintrodotte e rafforzate dall’amministrazione Trump nel suo secondo mandato hanno segnato un ulteriore passo verso la criminalizzazione della mobilità umana. Il ripristino della politica “Remain in Mexico”, l’espansione dei poteri di detenzione per l’ICE e le deportazioni accelerate hanno trasformato il confine in un territorio militarizzato e letale. Le nuove restrizioni colpiscono anche chi è già radicato nel paese da anni, spezzando famiglie, distruggendo comunità, alimentando una paura quotidiana che diventa sistema di controllo. In queste strade non ardono solo automobili: bruciano vite, speranze, e dignità. Dalle ceneri, come sempre, si leva una forza collettiva che rifiuta di chinare il capo. Una dignità messicana e chicana che si ribella, che non è solo migrante ma parte viva e inscindibile di questi Stati Uniti. Una voce che reclama rispetto, giustizia, libertà di movimento e di identità. Pronta a difendere con forza la propria storia, le radici profonde di una cultura che resiste, e un futuro fatto di dignità e speranza che nessuna frontiera potrà mai soffocare. Nelle strade a gridare “Fuck ICE” non ci sono solo gli/le indocumentati o la furia dei giovani chicanos; gruppi di vicini, studenti universitari, collettivi antifascisti, sindacati di base, indigeni delle riserve, uomini e donne di Los Angeles, con il cuore empatico e solidario, che incarnano la coscienza meticcia profonda di questo pezzo – da sempre ribelle e pulsante – degli States. Nel frattempo il Messico, sotto pressione costante da parte degli Stati Uniti, continua ad applicare il Plan Frontera Sur, rilanciato e inasprito nel 2024 con nuovi fondi statunitensi, droni di sorveglianza e pattugliamenti congiunti. L’obiettivo dichiarato: contenere le migrazioni prima che arrivino al confine nordamericano. Quello reale: esternalizzare la frontiera USA fino al confine con il Guatemala. Mentre il governo federale stringe accordi con Washington per contenere il flusso migratorio, intere regioni del Messico diventano zone cuscinetto, dove la migrazione è gestita come una minaccia militare, non come una crisi umanitaria. Nel solo 2024, oltre 800.000 persone sono state intercettate nel sud del Messico. Provenienti da Honduras, Guatemala, El Salvador, Nicaragua, Venezuela, Haiti, ma anche da zone rurali messicane devastate da violenza e povertà, vengono spesso bloccate, detenute o deportate senza reali possibilità di chiedere asilo. Nei centri di detenzione migratoria – come quello di Tapachula, tristemente noto come “la Guantánamo messicana” – si accumulano denunce di violazioni sistematiche dei diritti umani: abusi, mancanza di cure mediche, condizioni igienico-sanitarie disumane. La presenza dei cartelli lungo le rotte migratorie si è intensificata: estorsioni, sequestri, stupri, reclutamento forzato. Per chi fugge, il cammino è un campo minato. La frontiera non è una linea: è una trappola, un labirinto di checkpoint, milizie, sequestri, fosse comuni e silenzi. Ogni metro quadrato del Chiapas In Chiapas, il sud profondo del paese, la situazione è esplosiva. Si contano 15,000 “desplazados“, sfollati di intere comunità indigene e contadine costrette ad abbandonare le proprie terre a causa dell’intensificarsi dei conflitti armati tra gruppi narcos, con il cartello di Sinaloa e Jalisco Nueva Generación che si intrecciano a forze di sicurezza e paramilitari. Le forze speciali di polizia Pakal, annunciate come baluardo dello Stato contro il crimine, operano spesso in modo opaco, violento, con scarsi risultati e molte denunce di abusi. In varie aree, lo Stato si ritira. In altre, convive o subappalta al crimine organizzato la gestione della res pubblica. Altrove, reprime. Sparizioni forzate, imboscate e sparatorie in pieno giorno, femminicidi come pratica sistematica, villaggi rasi al suolo e fosse comuni clandestine sono l’orrore quotidiano di questa guerra di frammentazione territoriale, dove ogni metro quadrato del Chiapas sembra ardere per un conflitto. Così, la frontiera, quella tra Stati Uniti e Messico, ma anche quella tra sud e nord del Messico, tra diritto e arbitrio, tra umanità e repressione, si allarga, si moltiplica, si incista nel territorio e nei corpi. Non è un confine geografico: è una ferita politica che separa chi fugge da chi esclude, chi resiste da chi reprime. Ma cos’é ICE? ICE, Immigration and Customs Enforcement, è l’agenzia federale degli Stati Uniti incaricata di far rispettare le leggi sull’immigrazione e controllare le frontiere interne. Dipende dal Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) ed è nota soprattutto per i raid, gli arresti e le deportazioni di immigrati irregolari. Le sue operazioni sono spesso al centro di forti critiche per l’uso eccessivo della forza, la separazione delle famiglie e la detenzione di minori. Una parte significativa del personale ICE è composta da agenti di origine latina, molti dei quali si ritrovano a eseguire ordini contro comunità simili a quelle da cui provengono. Una contraddizione lacerante, che acuisce il dramma umano e politico delle retate, e rivela con crudezza come i sistemi autoritari, anche sotto l’apparenza democratica, siano capaci di rivolgere le loro stesse vittime le une contro le altre. Oggi vogliamo riproporre questo potente progetto che è un piccolo gioiello di resistenza visiva e sonora. Nel 2013, La Santa Cecilia dava voce a milioni di persone invisibili con una ballata potente e delicata allo stesso tempo, che mette in scena, con forza poetica e politica, la repressione quotidiana vissuta dal popolo messicano sul suolo statunitense. El Hielo/il ghiaccio gioca sul doppio significato della parola: ICE come ghiaccio, freddo e disumano, ma anche ICE come l’agenzia federale per l’immigrazione, simbolo delle deportazioni, delle famiglie spezzate, della paura costante. Nel videoclip, che oggi, dodici anni dopo, risuona come una profezia dolorosamente realizzata , vediamo i volti di Eva, José, Marta: persone reali, lavoratori senza documenti, che ogni giorno sopravvivono in un limbo legale e in un Paese che si nutre del loro lavoro, ma li espelle senza pietà. “El hielo anda suelto por esas calles / nunca se sabe cuando nos va a tocar…”. Il ghiaccio cammina sciolto per queste strade / non si sa mai quando ci toccherà. Una madre che non torna da scuola, un taxi diventato giardino da curare, un sogno americano che esclude chi lo tiene in piedi. La canzone non chiede pietà: pretende giustizia. E oggi, mentre nuove retate colpiscono le comunità latine, El Hielo resta un inno alla resistenza migrante e alla dignità di chi “solo voleva lavorare” e vivere. La Santa Cecilia – Ice El Hielo ICE – Acqua congelata ICE – Immigration and Customs Enforcement ICE – Il ghiaccio “Eva passa lo straccio sul tavolino, per far brillare tutto come una perla quando arriva la padrona, che non si possa lamentare non sia mai che la accusino di essere illegale. José cura i giardini, sembrano di Disneyland guida un vecchio camion senza la patente non importa se era tassista nella sua terra natale, questo non conta niente per lo Zio Sam. Il ghiaccio cammina sciolto per queste strade non si sa mai quando ci toccherà piangono i bambini, piangono fuori scuola, piangono vedendo che mamma non tornerà Uno che resta qui l’altro che torna là questo solo per essere andati a lavorare Marta è arrivata bambina e sogna con studiare qua ma è difficile avere un futuro senza documenti rimangono con gli allori solo quelli che sono nati qui ma lei non smette mai di lottare Il ghiaccio cammina sciolto per queste strade non si sa mai quando ci toccherà piangono i bambini, piangono fuori scuola piangono vedendo che mamma non tornerà Uno che resta qui l’altro che torna là questo solo per essere andati a lavorare Uno resta qui l’altro resta là succede per essere andati a lavorare” Guarda il video qui: -------------------------------------------------------------------------------- Nodo Solidale è più di un collettivo che lega – attraverso iniziative di solidarietà e informazione – persone che vivono in Messico e Italia, abbracciando i principi della Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, lanciata dall’EZLN, come la condivisione dei saperi di CIDECI Unitierra. “Quella che viviamo è una guerra contro l’umanità – scrivono – E oggi quanto c’è di più umano è proprio lottare contro questa guerra” -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Trump o l’incarnazione dell’incertezza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo 2025, Los Angeles proviene da Comune-info.
Los Angeles, coprifuoco, 4.700 militari e proteste contro le politiche migratorie di Trump
A cinque giorni dall’inizio delle proteste contro le politiche migratorie, la situazione a Los Angeles sembra infiammarsi ogni ora che passa. Ieri, martedì 10 giugno, la sindaca Karen Bass ha introdotto il coprifuoco nel centro cittadino, dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha inviato ulteriori 2 mila membri della Guardia Nazionale nella città californiana, insieme a 700 marines, portando così a 4.700 il numero di militari che ora presidiano la città – teoricamente, col solo compito di proteggere gli uffici governativi, non di svolgere azioni di polizia. Questi dovrebbero contribuire a sedare le rivolte esplose nella seconda città più popolosa degli Stati Uniti contro le politiche migratorie dell’esecutivo, che hanno portato all’arresto di centinaia di persone teoricamente presenti irregolarmente sul territorio statunitense – tra queste, molti bambini, anziani e donne incinte. D’altronde, la promessa di deportare centinaia di migranti era una parte centrale della campagna elettorale di Trump. La politica muscolare del presidente, che non sta risparmiando nessun ambito – dalla repressione all’interno degli atenei all’atteggiamento in materia di politica estera, passando per le politiche economiche e la soppressione dei diritti civili – trova qui una dimostrazione plastica di cosa il potere possa arrivare a fare contro i suoi stessi cittadini per dimostrare la propria forza. «Generazioni di eroi dell’esercito non hanno versato il loro sangue su coste lontane solo per vedere il nostro Paese distrutto dalle invasioni e dalla mancanza di leggi del Terzo Mondo qui in casa, come sta succedendo in California» scrive senza mezzi termini il presidente degli Stati Uniti sul proprio social media Truth. In questo contesto, la Guardia Nazionale e i marines, afferma Trump, hanno il compito di «liberare» la città dalla violenza dei manifestanti, nonostante la sindaca Bass e il governatore dello Stato David Newsom (chiamato da Trump Newscum nei suoi post su X, ovvero letteralmente “nuovo schifo”) abbiano più volte ribadito che le forze di polizia fossero più che sufficienti per placare la rivolta. Nel criticare la mossa del presidente, Bass ha ricordato che, invece di perseguire spacciatori e criminali violenti, Trump se la sta prendendo con «famiglie e bambini». Le proteste dei cittadini sono iniziate lo scorso venerdì 6 giugno, dopo che sei agenti dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement) avevano arrestato oltre 40 persone per presunta violazione delle leggi sull’immigrazione, per poi fermarne oltre un centinaio nelle ore successive. I cittadini, di fronte a quello che ritengono l’ennesimo abuso da parte dell’amministrazione del presidente, hanno deciso di ribellarsi, dando vita a vere e proprie scene di guerriglia urbana, con lanci di pietre verso i poliziotti, barricate di fortuna e sabotaggi. L’intero centro città è stato sgomberato e ogni assembramento dichiarato illegale, mentre i manifestanti hanno bloccato arterie stradali cruciali come l’autostrata 101 e Figueroa Street. Decine sono le persone arrestate, mentre alcuni agenti sono stati feriti e, insieme ad essi, anche alcuni giornalisti, raggiunti da proiettili di gomma sparati direttamente dalle forze dell’ordine. Gavin Newsom, governatore della California, ha detto che l’ordine di Trump di schierare 2 mila membri della Guardia Nazionale nelle strade dello Stato è stato dato «senza consultare i responsabili delle forze dell’ordine della California», «illegalmente e senza motivo». «Questo sfacciato abuso di potere da parte di un presidente in carica ha innescato una situazione esplosiva, mettendo a rischio il nostro popolo, i nostri ufficiali e la Guardia Nazionale». E mette in guardia: «La California potrebbe non essere l’ultimo Stato» nel quale Trump manderà ordini simili, dal momento che «quando Donald Trump ha chiesto l’autorizzazione generale per comandare la Guardia Nazionale, ha fatto in modo che quell’ordine si applicasse a tutti gli Stati del Paese». Nella serata del 10 giugno, a partire dalle ore 20, Bass ha istituito un coprifuoco nel centro di Los Angeles, per «fermare i malintenzionati che stanno approfittando della caotica escalation voluta dal presidente», consigliando a chi non sia residente di «evitare la zona». Nonostante ciò, molti sono stati gli arresti di massa causati dalle diverse violazioni del coprifuoco. Intanto, i governatori degli Stati a guida democratica hanno rilasciato una dichiarazione congiunta nella quale affermano che «La decisione del presidente Trump di schierare la Guardia Nazionale della California è un allarmante abuso di potere» che interferisce con il legittimo lavoro dei governatori. Nel frattempo, la protesta ha esondato i confini californiani e si prepara a dilagare in altri Stati. Per tale motivo, in Stati come il Texas (a guida repubblicana) il governatore si sta preparando a schierare la Guardia Nazionale per le strade dello Stato, dopo che lunedì 9 giugno sono stati registrati scontri tra cittadini e forze dell’ordine nella città di Austin. Abbott ha anche dichiarato che firmerà una legge per permettere alle forze dell’ordine di «utilizzare tutti gli strumenti disponibili per combattere i criminali senza essere presi di mira da procuratori disonesti». Intanto, manifestazioni sono già state registrate nelle città di New York, Chicago e Atlanta. L'Indipendente
Tomaso Montanari: “Gaza siamo noi”
Ripubblichiamo con l’autorizzazione dell’autore il commento di Tomaso Montanari su Gaza. Quando diciamo che Gaza siamo noi non intendiamo solo parlare dei legami indissolubili di umanità che ci legano a quella città martire. Vogliamo anche dire che Gaza è stata trasformata in un mostruoso laboratorio: quel che è stato, è e sarà possibile lì, sarà fatto altrove. Quando Pep Guardiola dice che i prossimi bambini saranno i nostri, vuole dire questo. E, al contrario, quando Trump dice che manda i Marines a Los Angeles come in un “territorio occupato”, per “difendere la civiltà” significa esattamente questo: prima Gaza, poi  Los Angeles. E da noi? Come non vedere che il decreto sicurezza appartiene a questo orizzonte? Quando il potere usa la forza contro i suoi stessi cittadini, quando i governi calpestano le loro stesse Costituzioni, Gaza è il precedente e il laboratorio. Lottare per Gaza significa lottare per noi stessi. Ricordiamocelo. Redazione Italia
Proteste per i raid anti migranti a Los Angeles, Trump manda i Marines e raddoppia la presenza della Guardia Nazionale
Le proteste sono continuate a Los Angeles lunedì, mentre  Trump ha annunciato l’invio di 700 Marines in città dal vicino Camp Pendleton. Il loro arrivo a Los Angeles è previsto per questa sera, in aggiunta ad altri 2.000 membri della Guardia Nazionale che sono stati inviati per reprimere le proteste scoppiate dopo un’ondata di raid dell’ICE a Los Angeles. La California sta facendo causa in risposta al dispiegamento della Guardia Nazionale e dei Marines da parte di Trump, che il governatore Gavin Newsom ha definito un “palese abuso di potere”. La sindaca di Los Angeles Karen Bass ha accusato l’amministrazione Trump di fomentare il caos e di fare di Los Angeles un “banco di prova” per imporre un regime autoritario in altre città statunitensi. “Dobbiamo fermare i raid. Questo non dovrebbe accadere nella nostra città. Non è giustificato e serve solo ad aumentare il caos. Questo caos è iniziato a Washington, D.C. Giovedì la città era pacifica. Venerdì non lo era più, a causa dell’intervento del governo federale. Non credo che la nostra città debba essere un banco di prova, un laboratorio” ha dichiarato Karen Bass.     Democracy Now!
Los Angeles, in migliaia contro le politiche migratorie di Trump. Centinaia di arresti
È stato un fine settimana di durissimi scontri a Los Angeles, con i cittadini scesi in strada per protestare contro le politiche antimigratorie del presidente Donald Trump. Venerdì sera gli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) – l’agenzia federale che si occupa di frontiere e immigrazione – hanno arrestato più di 40 persone per presunte violazioni delle leggi sull’immigrazione, per poi fermarne oltre un centinaio nelle ore successive. L’ultima di una lunga serie di operazioni diventate la normalità sotto l’amministrazione Trump, cui i cittadini di Los Angeles hanno deciso di ribellarsi dando vita a scene di guerriglia urbana, tra lanci di pietre verso i poliziotti, barricate di fortuna e sabotaggi. Trump ha firmato un ordine esecutivo per inviare 2mila agenti della Guardia Nazionale, mentre il segretario alla Difesa Peter Hegseth ha fatto sapere che sono pronti a intervenire anche i marines. Decine i manifestanti arrestati fino ad ora dalla polizia. Gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine sono stati violenti. Centinaia di persone sono scese in strada per protestare contro le misure sull’immigrazione. Manifestazioni spontanee si sono moltiplicate in vari quartieri della città. In Downtown, l’intero centro è stato sgomberato e ogni assembramento dichiarato illegale, mentre i manifestanti hanno bloccato arterie strategiche come la Highway 101 e Figueroa Street. Alcuni hanno lanciato bottiglie e altri oggetti contro gli agenti. La polizia e la Guardia Nazionale hanno risposto con gas lacrimogeni, granate stordenti e proiettili di gomma sparati ad altezza degli occhi e delle gambe. Almeno 56 persone sono state arrestate, con accuse che vanno dal lancio di molotov contro gli agenti all’utilizzo di motociclette per speronare i cordoni di polizia. Tre agenti e alcuni giornalisti sono rimasti feriti. Il fotografo inglese Nick Stern ha raccontato al Guardian: «Alcuni manifestanti sono venuti ad aiutarmi, mi hanno portato in braccio e ho notato che mi colava sangue lungo la gamba». La giornalista australiana Lauren Tomasi è stata colpita da un proiettile di gomma mentre stava documentando le cariche della polizia. L’invio della Guardia Nazionale, verificatosi senza il consenso del governatore, rappresenta la prima applicazione unilaterale di questa misura in California dal 1965. Quest’azione ha scatenato una crisi politica e istituzionale, con il governatore della California Gavin Newsom e la sindaca della città Karen Bass che hanno apertamente contestato l’intervento federale. Newsom ha annunciato l’intenzione di ricorrere per vie legali contro quella che ha definito «una violazione della sovranità dello Stato della California»: «Questi sono gli atti di un dittatore, non di un presidente», ha dichiarato. Anche la sindaca Bass ha chiesto formalmente a Trump di revocare l’intervento militare e ha invitato i manifestanti a mantenere la calma: «Non date a Trump ciò che vuole – ha scritto – restate calmi, restate pacifici. Non cadete nella trappola. Non usate mai la violenza e non fate del male alle forze dell’ordine». Bass ha inoltre sottolineato che «quando si fanno irruzioni nei supermercati e nei luoghi di lavoro, quando si dividono genitori e figli e quando si fanno circolare blindati per le nostre strade, si crea paura e panico», definendo lo schieramento della Guardia Nazionale «una escalation pericolosa». Sul fronte legale, il Titolo 10 del Codice delle Forze Armate richiederebbe che l’impiego della Guardia Nazionale avvenga su richiesta del governatore. La Casa Bianca, però, ha giustificato l’intervento parlando di «ribellione» in corso. Le proteste sono scoppiate dopo una serie di raid dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), in particolare nel distretto di Paramount, dove sono stati arrestati molti migranti. Gli agenti federali hanno fatto irruzione in abitazioni e luoghi di lavoro, provocando paura e panico tra la popolazione. L’area è a forte presenza latinoamericana: nelle proteste in corso a Los Angeles contro i raid dell’ICE spiccano infatti tra la folla numerose bandiere messicane. Il New York Times le ha definite «un simbolo» delle manifestazioni. Molti dei partecipanti sono cittadini statunitensi di origine messicana — 26,6 milioni secondo il Pew Research Center — che rivendicano con orgoglio le proprie radici. Nel frattempo, il Pentagono ha messo in stato di massima allerta anche i Marines di Camp Pendleton. Il capo della Difesa Pete Hegseth ha avvertito che, in caso di ulteriore violenza, saranno mobilitati. Trump, dal canto suo, ha rincarato la dose su Truth Social, definendo i manifestanti «istigatori e facinorosi spesso prezzolati» e invocando l’arresto immediato di chi protesta con il volto coperto. Ha accusato Newsom e Bass di essere incompetenti e di averlo costretto ad agire per ristabilire l’ordine. «Rendiamo di nuovo grande l’America!», ha scritto il presidente, alimentando ulteriormente lo scontro.   L'Indipendente