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Obiezione di coscienza e nuova idea di difesa
La coscienza dice no alla guerra è un volume curato da Enzo Sanfilippo e Annibale Ranieri recentemente uscito presso il Centro Gandhi edizioni. Si tratta di un’antologia ragionata di testi con un significativo sottotitolo: “Per un rilancio dell’obiezione di coscienza a tutti gli eserciti e per una nuova idea di difeza. L’antologia inizia con una interessante ricostruzione delle attività svolte dalla Comunità dell’Arca e da Lanza del Vasto ai tempi della guerra in Algeria; non si tratta solo di una importate ricostruzione di eventi a volte poco documentati ma di una ispirazione a partire dalla visione di una nonviolenza integrale che Lanza del Vasto promuove a partire dalle idee del suo maestro, il Mahatma Gandhi. La nonviolenza non è metodologia d’azione ma è stile di vita “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Questa visione si propagherà poi in altri pensieri e movimenti che si rifanno alla nonviolenza, è un’idea del tutto analoga a quella del pensiero e della proposta d’azione umanista di Silo ma è anche un caposaldo, per gli autori, che viene prima di qualunque proposta di azione. In questo senso il volume si articola con una dettagliata analisi della storia dell’obiezione di coscienza e del concetto di difesa avvalendosi del contributo di personalità studiose come Ermete Ferraro, attuale Presidente dei MIR, Alfonso Navarra della LOC, una sezione dedicata a “sguardi e azioni di donne”. Nella sezione dedicata alle alternative hanno posto esperienze storiche come Operazione Colomba accanto al recente Osservatorio Contro la Militarizzazione delle Scuole, mentre il volume si conclude con la proposta articolata dei curatori per un rilancio e senso nuovo, in Italia, dell’obiezione di coscienza. Chiude il volume un importante elenco dei riferimenti normativi. Il sintesi un volume denso che, come dichiarato nell’introduzione, vuole essere e riesce ad essere un solido contributo al dibattito nonviolento e alla ricerca di soluzioni diverse, estremamente necessarie in questo momento militarista di appiattimento su posizioni che sembravano essere state cancellate dalla storia. Olivier Turquet
[Ora di buco] E lo chiamano merito (1/4: trasmissione integrale)
Nella trasmissione affrontiamo con tre corrispondenze: 1) il tentativo di censura ministeriale del libro "Trame del tempo", edizione rossa di Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Carlo Greppi, edito da Laterza. Ne parliamo con Giovanni Carletti, editor di Laterza; 2) la vita precaria delle precarie della scuola, tra attesa delle graduatorie, conclusione di concorsi pnrr, richiesta di naspi; 3) la povertà educativa istituzionalizzata dal ministero nel resoconto del "Progetto Futura" del Forum disuaglianza e diversità e Save the children. Ne parlaimo con Andrea Morniroli co-coordinatore del Forum
Intelligenza artificiale: sorveglianza, controllo, abusi
Molti ne sono entusiasti: l’AI (Artificial Intelligence), nella forma di ChatGPT (Generative Pre-Trained Transformer Chat) li aiuta a scrivere curriculum e testi, fa ricerche e le consegna ben confezionate, svolge perfettamente i temi scolastici partendo anche dalla traccia più difficile, spiega come procedere nel caso di controversie condominiali. E poi, da brava chat, chiacchiera con te. Puoi darle un nome. Puoi allenarla persino, se sei bravo e sai come aggirare certi limiti imposti, a fornirti eccitazioni erotiche, come se stessi parlando con un essere umano. C’è chi giura che svolga, gratis, addirittura il lavoro di uno psicoanalista, e chi ha smesso di consultare google quando avverte dei sintomi preoccupanti, perché ChatGPT è capace di fornire diagnosi mediche accurate. Ci sono preoccupazioni etiche, ci sono paure. Presto ci trasformeremo tutti in AI-dipendenti, restii a imparare perché non servirà più, goffi nello scrivere perché anche questo non servirà più, inabili nel prendere decisioni perché l’intelligenza artificiale lo saprà fare molto meglio di noi, dotata come sarà (è) di una quantità quasi smisurata di informazioni, scaltrissima nell’effettuare collegamenti che a noi non sarebbero mai venuti in mente, e soprattutto razionale, priva di quelle debolezze psicologiche-emotive che inducono gli umani a commettere errori? Sì, qualcuno ha di questi pensieri. Ma in prospettiva, come materia di riflessione filosofica. Intanto, i problemi che si lamentano, immediati ma che tutto sommato sembrano di scarsa importanza, sono le foto “finte”, immagini di scene che raccontano persone che non esistono, vicende mai avvenute, talmente rifinite da essere scambiate per vere. Ci si stupisce, al massimo. Uno spunto per prendere in giro chi si è lasciato ingannare, e vantarci che noi no, noi siamo più furbi. L’intelligenza artificiale non ci frega. Ben altri sono i risvolti di una tecnologia che è andata molto più avanti di quanto,  a meno che non siamo del settore, possiamo immaginare. Si è impegnata in un’indagine che l’ha portata in giro per il mondo l’immunologa e giornalista scientifica indiana Madhumita Murgia, che ha iniziato le sue ricerche aspettandosi di scoprire come l’AI avesse risolto problemi difficili e migliorato la vita di molte persone. Non è però stato così. Nel suo viaggio, riportato nel libro Essere umani. L’impatto dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite (ed. Neri Pozza), ha dovuto registrare quanto pesanti, a volte devastanti e comunque sempre manipolatorie possano essere le conseguenze dell’AI sugli individui, sulle comunità e sulle culture in generale. Murgia approfondisce dei casi esemplari, persone che solo apparentemente non hanno nulla in comune tra loro: un medico dell’India rurale, un rider di Pittsburg, un ingegnere afroamericano, una funzionaria burocratica argentina, una rifugiata irachena a Sofia, una madre single ad Amsterdam, un’attivista cinese in esilio.  Diana, la madre single: una storia kafkiana. Due suoi figli minori erano stati inseriti in liste di “ragazzi ad alto rischio di diventare criminali”, liste compilate con un sistema progettato dall’AI e basate su punteggi di rischio, con punti assegnati non solo per aver commesso un reato, ma per essere stati spesso assenti a scuola, aver assistito a una violenza, essere parente di qualcuno che ha guai con la giustizia, vivere in un quartiere povero o semplicemente essere poveri (le cosiddette “variabili proxy”). A quel punto, ecco una serie di misure volte a “tutelare” la società e prevenire il crimine. Interventi continui e quasi persecutori, con visite ripetute di assistenti sociali, poliziotti, funzionari a controllare e redarguire il genitore –  Diana, in questo caso – trattandolo come un demente, rimproverandolo, minacciandolo. Piatti sporchi nel lavello? Attenzione, potremmo doverti portare via la bambina piccola.  È chiaro che così le situazioni di disagio e povertà non possono che peggiorare. Non esistono perdono, aiuto, comprensione. Nato povero e sfortunato, sei destinato a diventarlo ancora di più. Diana aveva finito col perdere il lavoro, stressata com’era, ed era stata ricoverata in ospedale con palpitazioni cardiache. «Le liste generate dall’algoritmo non erano soltanto fattori predittivi», scrive Murgia. «Erano maledizioni».  Uno degli aspetti più lamentati da chi frequenta i social riguarda la rimozione di immagini e contenuti. Viene subita da utenti che hanno semplicemente postato un quadro rappresentante un nudo, e viene subita anche, al contrario, da chi si trova di fronte foto e filmati cruenti accompagnati da commenti di giubilo, e si domanda perché non siano stati censurati. Quello che non ci domandiamo è chi siano i censori. Attraverso storie vere e dati, Murgia racconta quanto porti al DPTS (disturbi post-traumatici da stress) il dover vagliare i contenuti dei social, guardando violenze e atti d’odio a ritmo sostenuto per tutto il tempo, in modo, oggi, di addestrare gli algoritmi. Un lavoro a sua volta guidato dagli algoritmi: pausa pranzo e tempo per andare in bagno predeterminati, come la produttività, che non deve scendere sotto una certa soglia. A fronte di questo, remunerazione bassa, accordi di segretezza, scoraggiato in ogni modo il contatto con i colleghi, e figuriamoci l’unirsi in sindacato.   C’è poi il risvolto della sostituzione dell’AI generativa in lavori prettamente umani: illustratori, copywriter, progettisti di videogiochi, animatori e doppiatori si trovano già adesso in grande difficoltà, e molti dichiarano che viene chiesto loro, più che di creare… di correggere ciò che è stato fatto dall’AI (pagati un decimo rispetto a prima). E c’è la questione contraffazione, il “deepfake”: generati dalle tecnologie AI, foto di persone reali prese da Internet che un software fonde con corpi di attori porno, ottenendo video assolutamente realistici di cui non sarà facile ottenere la rimozione (su TikTok era diventato virale già nel 2020 un video deepfake di Tom Cruise, e parliamo di cinque anni fa, quando i software erano meno sofisticati di oggi).  Non dimentichiamo nemmeno i pregiudizi. Un esempio: il modo in cui vengono calcolati i punteggi di rischio che riguardano la salute. Negli USA, i pazienti neri – e con redito basso – sembravano avere punteggi più bassi, ma questo non accadeva perché si ammalassero meno, ma perché i progettatori avevano addestrato il sistema a stimare la salute i una persona in base ai suoi costi sanitari (e più si è poveri, meno si ricorre all’assistenza sanitaria). Attivisti pieni di buona volontà stanno cercando di raddrizzare le cose. Non è detto che non ci riescano, ma intanto quanti danni sono stati fatti?  Si potrebbe continuare a lungo, e Murgia non si è tirata indietro. Ha indagato le più varie situazioni, incontrato avvocati che cercano di difendere chi è rimasto intrappolato da questi sistemi opachi che possono disporre delle nostre vite e procurarci danni anche senza che lo sappiamo. E ha affrontato il tema forse più delicato e spaventoso: il controllo. In Cina (e Murgia porta riferimenti precisi) esistono già da un po’ sistemi software interconnessi che aggregano i dati dei cittadini e l collegano ai database della polizia.  Gli algoritmi a funzione predittiva considerano sospette decine di comportamenti (addirittura spegnere ripetutamente il cellulare e avere certe espressioni del viso, riprese dalle infinite videocamere), e per motivi di “sicurezza pubblica” moltissimi cittadini, soprattutto dissidenti o appartenenti a gruppi etnici minoritari, sono stati e sono sorvegliati e vessati, quando non portati in campi di rieducazione. Sorveglianza e controllo. Capillari, incessanti. I governi (la rete di connessioni esisterà solo in Cina? non scherziamo) potranno a breve arrivare a prevedere e neutralizzare qualunque azione o manifestazione di protesta, sia individuale che collettiva. E le aziende tecnologiche, con miliardi di utenti, aumenteranno il loro potere, che già è immenso. George Orwell, in 1984. Ninteeen Eighty Four, scritto nel 1949: «Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che schiaccia il volto umano. Per sempre». Susanna Schimperna
“PIAZZA DELLA LOGGIA: UNA STORIA MILITANTE”. IL LIBRO DI RADIO ONDA D’URTO
“Piazza della Loggia: una storia militante” è il libro che raccoglie gli atti del convegno organizzato da Radio Onda d’Urto l’11 maggio 2024, a Brescia, in occasione del cinquantesimo anniversario della strage fascista, di stato e della NATO di piazza della Loggia. Il volume, pubblicato da DeriveApprodi, è stato curato dalla redazione di Radio Onda d’Urto e contiene i contributi di Gianfranco Bettin, Maurizio Dianese, Caterina Prever, Elia Rosati, Elio Catania, Paolo Pelizzari, Umberto Gobbi e Marica Tolomelli, oltre ad alcuni estratti delle interviste inedite a testimoni diretti di quel 28 maggio 1974. “Piazza della Loggia: una storia militante” è frutto del lavoro e delle riflessioni collettive che Radio Onda d’Urto ha proposto a cinquant’anni da un evento che ha segnato in maniera profonda la storia della nostra città, della nostra emittente e di tutta Italia. Un contributo per omaggiare ancora una volta la memoria delle 8 compagne e compagni caduti quel giorno e per tenere viva la memoria, nella convinzione che per stabilire dove si vuole andare si debba sapere innanzitutto da dove si viene. In questa trasmissione, sulle frequenze di Radio Onda d’Urto, la presentazione. Ascolta o scarica. ____________________________ Potete avere il volume “Piazza della Loggia: una storia militante”, a fronte di una donazione di 12 euro a Radio Onda d’Urto, passando nei nostri studi (via Luzzago 2/b, Brescia). Il libro è disponibile anche in tutte le librerie e sul sito di DeriveApprodi. Per organizzare una presentazione del libro scrivere a redazione@radiondadurto.org o scrivere un messaggio su WhatsApp al 3351220759
Colonialismo e decolonizzazione in Palestina. Intervista allo storico Ilan Pappé
Oggi, 15 maggio 2025, giorno in cui ricorre la Nakba, la catastrofe causata dall’operazione di pulizia etnica del 1948 con cui le truppe sioniste cacciarono 750.000 palestinesi dalla propria terra e ne massacrarono migliaia, divulghiamo un lavoro sulla questione palestinese delle classi VA, VE, IVE del Liceo Scientifico “Righi” di Roma. Si tratta di un libro intitolato “Colonialismo e decolonizzazione in Palestina”, che contiene un’intervista allo storico di fama internazionale Ilan Pappé, realizzata dagli studenti e dalle studentesse delle suddette classi, uno stimolo alla conoscenza della questione coloniale in Palestina e alla lotta per spezzare il silenzio, la censura e la complicità di governi e istituzioni non solo riguardo alla Nakba storica, ma anche a quella che i palestinesi definiscono ”al nakba al mustamirra”, “Nakba in corso”, il genocidio che tristemente osserviamo impotenti dai nostri cellulari. Redazione Roma
Wittgenstein critico?
La prima metà del Novecento, recita l’adagio, fu epoca di tragedia creativa per la filosofia di lingua tedesca. Ascendente sul piano ontologico e giuridico, questa avrebbe vissuto un contrappasso etico e politico. Le indagini sull’essere al mondo, nonché sul suo ordinamento di regole e poteri, norme ed eccezioni, sarebbero state coronate dal fatale abbraccio con una visione bellica e suprematista di quel mondo. I profili di Heidegger e Schmitt avrebbero proiettato l’ombra del nazismo sui concetti elaborati nel solco di Kant e Hegel, Nietzsche e Husserl. A chi non voglia rassegnarsi al pensiero impolitico di Thomas Mann o alla dialettica pessimista di Adorno e Horkheimer, conclude l’adagio, sono offerti arnesi concettuali scottanti – “stato d’eccezione” e “angoscia”, “amico/nemico” e “abbandono”, solo per citarne alcuni – maneggiabili al prezzo di un rischioso détournement delle loro origini e obiettivi. LE PRINCIPALI INTERPRETAZIONI Ma la favola inquietante che da Königsberg porta ad Auschwitz perde coerenza narrativa non appena se ne complichi la trama, allargandone la geografia e moltiplicandone i protagonisti. È ciò che, tra gli altri, ci invita a fare Andrea Di Gesu in Wittgenstein e il pensiero politico. Linguaggio, critica, prassi (DeriveApprodi, 2025, pp. 95). Questo agile volume passa a contropelo le letture mainstream del filosofo cresciuto nella Vienna fin de siècle, a un tempo vicina e lontanissima dalla Monaco delle Squadre d’Assalto, per proporre una rassegna delle sue principali interpretazioni politiche. Rivoluzionario della logica, della filosofia del linguaggio e della matematica, con idee talmente dirompenti da comportare un risvolto mistico, Wittgenstein lo sarebbe anche in politica. A riprova di ciò, Di Gesu non adduce soltanto i suoi argomenti e concetti, ma anche la loro ricezione nel secondo dopoguerra, a suo avviso dotata di formidabili implicazioni per la critica della società. Invece che interrogarsi sulla teoria politica riscontrabile (o meno) nelle opere del «padre ambiguo e ripudiato della filosofia analitica» (p. 5), analizzandone testi maggiori e minori, quaderni d’appunti e manoscritti inediti; più che discutere delle opinioni e delle posizioni che assunse durante la sua vita (una questione non secondaria, ma relegata a una lunga nota a piè di pagina), Di Gesu prende le mosse dalle interpretazioni – ma potremmo dire: dagli usi – di Wittgenstein nel pensiero critico. Di queste propone una breve ma vivace rassegna, corredata da una ricapitolazione delle tesi più note del cosiddetto “primo” e “secondo Wittgenstein”. La teoria del linguaggio come “raffigurazione” e la ricerca di una “forma logica” delle proposizioni, l’ipotesi dei “giochi linguistici”, la nozione di “forma di vita” e il paradosso dell’“allievo recalcitrante” diventano il prisma attraverso cui ricostruire il rapporto che teoriche e teorici critici hanno intrattenuto con Wittgenstein. > In questo modo, oltre a introdurre il lettore alle principali interpretazioni > politiche del viennese e a ricordarne i concetti più famosi, il libro abbozza > una panoramica di alcune importanti opzioni filosofico-politiche > contemporanee, riordinate alla luce del loro rapporto con il pensiero > wittgensteiniano. Il primo capitolo è dedicato alla ricezione di Wittgenstein da parte delle diverse generazioni di ricercatori legati all’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte e ai filosofi detti “postmoderni”, qui curiosamente associati ai francofortesi. Confronto duro ma dinamico, nota l’autore, perché in rapida evoluzione. Dalla stigmatizzazione di Wittgenstein come teorico “conservatore”, pronunciata da Adorno, e dalle dure critiche di Marcuse, per il quale la filosofia è «il contrario di ciò che Wittgenstein la fece essere» (p. 25), si passa alla più calda accoglienza riservatagli da Habermas, che ne riprende le intuizioni nella teoria del “agire comunicativo”, per arrivare infine all’entusiasmo di Lyotard e Rorty, che vedono nei “giochi linguistici” il paradigma di un pensiero multiculturale finalmente svincolato dall’universalismo. Rispetto a questa ricezione variegata e contraddittoria, Di Gesu mantiene tuttavia una prudente distanza. Sottolinea l’infondatezza testuale, ma anche le ragioni storiche e strategiche, che motivano le condanne di Adorno e Marcuse, smaschera l’ambigua «kantizzazione» (p. 36) di Wittgenstein imposta da Habermas e denuncia gli esiti quietistici a cui giunge la sua lettura postmoderna. Riassumendo le prospettive di ricerca più recenti emerse in ambito francofortese, mette infine in evidenza le potenzialità, ma anche i limiti, dell’uso della nozione di “forme di vita” (Lebensformen) come base per definire il modello della “critica immanente” proposto da Axel Honneth e sistematizzato da Rahel Jaeggi. Il secondo capitolo conduce dalle anse del Meno alla costa atlantica degli Stati Uniti per passare al vaglio gli effetti politici della galassia di studi noti come New Wittgenstein. La ricostruzione delle teorie, diverse e addirittura divergenti, di Chantal Mouffe e Linda M. Zerilli, di cui Di Gesu sottolinea l’eredità wittgensteiniana, si svolge infatti sotto il segno dell’influente interpretazione proposta, tra anni Settanta e Ottanta, dal filosofo statunitense Stanley Cavell. Quest’ultimo infrange l’immagine stantia di Wittgenstein come geniale “teoreta” alla ricerca del senso ultimo del linguaggio e delinea piuttosto il profilo di un terapeuta pragmatico, che sperimenta delle pratiche per riportare un linguaggio alienato da troppa teoria ai suoi usi concreti e perciò sensati. Scettico rispetto alle derive “populiste” di Mouffe e solleticato invece dall’uso femminista di Wittgenstein proposto da Zerilli, Di Gesu sembra trovare in Cavell i prodromi di un uso non soltanto critico, ma insorgente di Wittgenstein. Il «nuovo Wittgenstein», che ancora le pratiche linguistiche al «terreno scabro» dei modi di vivere e prendere parola, costituisce per Di Gesu un serbatoio di intuizioni per pensare «un modello di democrazia radicale anti-liberale» (p. 44). Rifiutando l’astratta geometria di norme e procedure, valori e regole, a cui certa scienza politica la riduce, la democrazia immaginabile a partire da Wittgenstein si presenterebbe come una composizione instabile e conflittuale di «voci», cioè atti performativi, che esibiscono la fragilità e la costitutiva apertura dei «fondamenti della comunità» dando luogo a una «proliferazione agonistica e pluralistica delle differenze politiche» (p. 55). > Più che il paradigma ludico del mondo liquido paventato dai postmoderni, > “giochi linguistici” e “forme di vita” mettono così in scena l’ossatura > dell’agone democratico, cioè di quel match paradossale che ha in palio le > stesse regole del gioco. Il terzo capitolo introduce il lettore alle avventure del marxismo italiano, ricostruendo la sua originale, per non dire unica, ricezione di Wittgenstein. L’autore presenta anzitutto la ricerca pionieristica del semiologo Ferruccio Rossi-Landi che, negli anni Settanta, interpreta il “secondo Wittgenstein” nel solco di Marx. Per Rossi-Landi, Marx e Wittgenstein svilupperebbero due critiche del feticismo e dell’alienazione, declinate in ambiti disparati ma dotate di un apparato argomentativo analogo. L’analisi dell’unità economica della merce del primo libro del Capitale e quella dell’unità linguistica della parola delle Ricerche filosofiche si basano entrambe sulla logica materialistica del valore d’uso e denunciano ogni attribuzione di valore, monetario o semantico, separata da quello. Dalla semiotica e dalla linguistica, il capitolo slitta però rapidamente all’ontologia e all’antropologia filosofica, per ricostruire il diverso ruolo giocato da Wittgenstein nel percorso di due influenti pensatori dell’operaismo. Nel caso di Negri, l’autore mette in luce i riferimenti – sparsi, ma strategicamente posizionati nei suoi lavori – al pensiero del viennese. Si scopre così che Negri trova in Wittgenstein uno dei principali esponenti novecenteschi di quella corrente sotterranea materialista e «alter-moderna» che, da Machiavelli e Spinoza, giunge a Marx e riemerge infine nella “biopolitica” di Foucault e nelle “linee di fuga” di Deleuze e Guattari. Nel caso della «speculazione di Virno» (p. 83), Di Gesu segue invece una traiettoria a zig-zag, che restituisce la complessa dialettica tra natura e storia, biologia e società, “essere” e “avere” la facoltà di parlare, che caratterizza l’antropologia linguistica che quest’ultimo va elaborando da più di un ventennio. UNA STORIA DEGLI USI POLITICI Quella tracciata da Di Gesu, dicevamo, è insieme una storia degli usi o una mappa delle appropriazioni – debite e indebite – di Wittgenstein nel pensiero politico. Sviluppando un’utile cartografia, essa pone anche delle questioni generali, relative al modo di concepire oggi la critica della società. Benché singolari e per molti versi irriducibili, gli usi politici di Wittgenstein orbiterebbero infatti per l’autore intorno alla stella fissa che dà al libro il suo sottotitolo: il rapporto tra “critica”, “linguaggio” e “prassi”. Diversamente declinato a seconda della costellazione interpretativa, ma centrale soprattutto in chi si ispira a Cavell e alle analisi marxiste della “svolta linguistica” in economia, questa triangolazione permetterebbe, secondo l’autore, di rifiutare sia il “neorealismo” promosso, in modi diversi, da filosofi come Quentin Meillaussoux e Maurizio Ferraris, sia l’“antinaturalismo” di Habermas e dei francofortesi. Politicizzando le principali intuizioni di Wittgenstein – il significato come uso, le norme come giochi plastici e le forme di vita come loro limite storico-biologico – Di Gesu sostiene che la critica della società può ancorarsi all’’“ordinario”, vale a dire alla trama di pratiche sociali e corredi biologici che compongono la nostra vita di tutti i giorni. > Ne conclude che la riscoperta della sfera ordinaria della vita fornisce un > campo per sperimentare il pensiero e le pratiche della “democrazia radicale”, > mettendo la filosofia politica al passo delle più recenti sollevazioni > popolari che si sono opposte al neoliberalismo e alle sue varianti > autoritarie. Quest’uso di Wittgenstein nell’ambito della teoria della democrazia, che Di Gesu deriva da Cavell, solleva delle questioni che, nella misura in cui restano inevase, promettono ulteriori sviluppi e chiarimenti. La prima riguarda lo statuto e la funzione della “democrazia radicale” evocata nel volume. La «democrazia perfezionista» di Cavell, afferma rapidamente l’autore, sarebbe non soltanto “radicale” ma anche «anti-liberale» Ispirandosi a Wittgenstein ma iscrivendosi anche nel solco di Jefferson, Emerson e Thoreau essa si distanzia dal contrattualismo e dall’individualismo possessivo che legano Hobbes e Locke a una parte del pensiero repubblicano. Cavell non concepisce la democrazia soltanto come un regime di governo o a una costituzione – da conservare, espandere ed eventualmente esportare – ma come una sperimentazione in continuo divenire: un “gioco democratico” analogo ai “giochi linguistici”. Si tratta in questo senso di una prospettiva “anti-fondazionalista”: un approccio che rifiuta di fondare la democrazia sul pactum di unione e sottomissione, cioè su un meccanismo d’obbligazione infrangibile, e la immagina invece come l’ordine fluido e metastabile nel quale certe performance – quelle dei movimenti sociali, per esempio – possono rimetterne in questione non soltanto i corollari, ma i principi primi. Benché si tratti di un riferimento assente nel libro, la democrazia radicale sembra così richiamare un’idea antica quanto Spinoza e Machiavelli: il diritto all’insurrezione contro il sovrano, o il movimento di “ritorno ai principi” della costituzione, che si attiva quando la moltitudine è confrontata a un potere che ne frustra la potenza comune. CHI E QUANDO RIFONDA? La dinamica di continua “riapertura” del senso della comunità democratica appena evocata solleva inoltre degli interrogativi relativi al soggetto, ai mezzi e all’orizzonte di questo «diritto alla rifondazione». Nei termini di Cavell, ci ricorda Di Gesu, il soggetto che riapre lo spazio democratico è infatti indistinguibile dall’insieme di pratiche che ne esprimono la “voce” (voice), cioè l’atto performativo che rompe la procedura legale per ridiscuterne i fondamenti normativi. Questa definizione fa sorprendentemente eco alle performance del “parresiasta” analizzato da Foucault – il “dicitore di verità” che, esibendo un contenuto scandaloso nel suo modo di vivere, sovverte gli equilibri di potere della polis – ma ne condivide anche l’ambiguità. Come notato in un altro contesto da Étienne Balibar, se queste «voci contro» o contra-dizioni, costituiscono il motore di ogni processo di democratizzazione, ci si può tuttavia chiedere quali siano le contraddizioni materiali che favoriscono la loro irruzione in tal luogo e a tal momento. Riprendendo i termini della obiezione che, secondo Rossi-Landi, Marx avrebbe potuto rivolgere a Wittgenstein, potremmo anche dire che la «democrazia perfezionista» promossa da Di Gesu sulla scorta di Cavell sembra reinvestire il “pubblico” – o il “politico”, declinato al maschile – ma mancare di un ancoraggio al sociale e ai suoi conflitti. Chi si ponga il problema della soggettivazione politica di quei conflitti potrebbe allora chiedersi: da dove vengono e chi esprime le “voci” che fanno irrompere la differenza nello spazio democratico per riportarlo ai suoi dissidi fondativi? Queste differenze hanno forse una genesi che intreccia processi di classe, genere e razza? E se così fosse, come alcuni passaggi del libro lasciano intendere, come distinguere e valorizzare gli atti performativi di una «voce» a un tempo proletaria e intersezionale? Che linee di divisione impone e quali prospettive di trasformazione dischiude? È a condizione di rispondere a domande come queste che, a parere di chi scrive, il Wittgenstein critico abbozzato nel bel volume di Di Gesu potrebbe addirittura diventare insorgente. Immagine di copertina di Remarques Mêlées da flickr.com SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Wittgenstein critico? proviene da DINAMOpress.