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Catherine Connolly: la nuova presidente irlandese è sinonimo di giustizia e pace
> Il 25 ottobre 2025 Catherine Connolly è stata eletta presidente della > Repubblica d’Irlanda con circa il 63% dei voti. Questa vittoria elettorale non > solo segna un cambiamento alla presidenza, ma rappresenta anche un notevole > cambiamento politico nel piccolo paese dell’Europa nord-occidentale. La > politica indipendente, che si definisce socialista e pacifista, ha assunto una > carica che finora aveva soprattutto un significato simbolico, ma il cui > carisma morale non è affatto da sottovalutare. La campagna elettorale è stata caratterizzata da un netto contrasto. L’unica concorrente di Connolly, Heather Humphreys, rappresentava l’establishment conservatore. Dopo aver fatto parte per dieci anni di diverse coalizioni di governo, si è presentata come “filoeuropea”, senza spiegare cosa intendesse con questo termine. La sua campagna si è concentrata meno sulle proprie visioni e più sull’indebolimento della sua avversaria, il che alla fine ha giocato a favore di Connolly. COSA C’È DIETRO QUESTO RISULTATO? Diversi fattori hanno contribuito alla netta vittoria di Connolly e, allo stesso tempo, il suo successo offre lo spunto per esaminare criticamente le dinamiche dei cambiamenti politici in Irlanda. Una candidata con un profilo locale: Connolly è originaria di Galway, è cresciuta in una famiglia cattolica di operai con molti figli e parla irlandese. Le sue origini hanno un peso simbolico: incarnano una forma di “patriottismo soft”, in cui l’identità nazionale non è contrapposta in modo aggressivo alle altre, ma è radicata nella società e nella comunità. Alleanze e sostegno dalla sinistra: sebbene Connolly si sia candidata come indipendente, ha ricevuto il sostegno dei partiti e dei movimenti di sinistra, tra cui Sinn Féin, People Before Profit, i Verdi e i Socialdemocratici. Questo ampio sostegno ha reso possibile il suo successo, proprio perché i grandi partiti tradizionali del Paese, Fine Gael e Fianna Fáil, si sono indeboliti. Temi che riscuotono successo: Connolly ha posto in primo piano temi che stanno acquisendo sempre più rilevanza in Irlanda: politica di neutralità, questioni di pace, critica al riarmo, cambiamento climatico, disuguaglianza sociale. La sua posizione sui conflitti internazionali – in particolare il suo impegno contro la guerra e le esportazioni di armi – ha trovato riscontro positivo. Ha definito la guerra a Gaza un genocidio e ha accusato il governo degli Stati Uniti di favorirlo. Ha criticato il massiccio riarmo militare dell’UE e lo ha paragonato alla Germania degli anni ’30. Debolezza della concorrenza tradizionale: i partiti di governo hanno presentato candidate le cui campagne elettorali non sono apparse particolarmente dinamiche e i cui temi non hanno toccato le corde sensibili di gran parte della popolazione. Allo stesso tempo, molte elettrici hanno espresso un voto nullo: durante la campagna elettorale, l’affluenza alle urne ha registrato un aumento dei voti nulli pari a circa il 13% nelle regioni socialmente svantaggiate. SIGNIFICATO OLTRE I CONFINI DELL’IRLANDA La vittoria elettorale di Connolly ha un significato che va oltre i confini dell’isola: in un momento in cui in molti Stati europei le forze di destra o di destra liberale sono affermate, l’Irlanda mostra una tendenza opposta. L’elezione di una presidente di sinistra con circa due terzi dei voti invia un segnale: anche in un contesto di liberalizzazione dell’economia di mercato è possibile eleggere una politica che metta in primo piano la giustizia sociale, l’antimilitarismo e la partecipazione democratica. Allo stesso tempo, il voto evidenzia alcuni limiti: la carica di presidente in Irlanda è quasi puramente rappresentativa e non ha praticamente alcun potere esecutivo. Resta da vedere se la presidenza di Connolly influenzerà effettivamente il corso delle decisioni politiche importanti, ma la sua elezione aumenta la pressione sul governo e sui partiti tradizionali affinché affrontino in modo concreto, e non solo simbolico, le preoccupazioni di gran parte della popolazione. La vittoria elettorale di Catherine Connolly è più di un trionfo personale. Essa riflette gli stati d’animo della popolazione, in cui la giustizia sociale, la politica di pace e la partecipazione democratica contano sempre di più. Allo stesso tempo, mostra la trasformazione di un sistema politico che finora era stato largamente dominato da due grandi partiti. Affinché questo risultato abbia un effetto, è tuttavia necessario colmare il divario tra simbolo e sostanza in un Paese che sta cambiando rapidamente dal punto di vista economico e le cui contraddizioni sociali sono diventate evidenti. Per la sinistra, non solo in Irlanda ma a livello internazionale, questa vittoria elettorale è fonte di coraggio, ma comporta anche un compito: più che lanciare un segnale, significa cambiare concretamente. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid con l’ausilio di traduttore automatico. Reto Thumiger
Irlanda, alle presidenziali vince la candidata pro Palestina e contro la Nato
Ha criticato duramente la NATO, ha votato contro i trattati dell’UE, ha condannato Israele per la guerra a Gaza parlando apertamente di genocidio, ha promesso di difendere la neutralità militare del suo Paese. Con questi punti del suo programma, Catherine Connolly, 68 anni, ex sindaco della città occidentale di Galway, è stata eletta presidente dell’Irlanda. Nel silenzio pesante della bassa affluenza elettorale, Connolly, ha conseguito una vittoria netta nelle presidenziali irlandesi, imponendosi con circa il 63% dei voti, contro il 29,5% della sfidante Heather Humphreys. La candidata indipendente di sinistra, che negli ultimi nove anni ha ricoperto il ruolo di deputata socialista dell’opposizione nel Parlamento irlandese, ha raccolto il sostegno compatto delle forze progressiste e dei partiti a sinistra del Labour, grazie a una campagna che ha avuto come temi centrali la denuncia delle politiche militari occidentali e un forte impegno a sostegno del popolo palestinese. Il risultato segna una rottura rispetto alle precedenti candidature dell’establishment e invia un segnale nitido al governo di Dublino: l’elettorato guarda altrove, premia il coraggio e la divergenza su tematiche calde e chiede una voce che non si limiti all’ordinaria rappresentanza. Proveniente da un quartiere popolare di Galway e con un passato da avvocata e psicologa clinica, Connolly ha costruito la sua carriera prima nel Partito Laburista, poi come indipendente, fino a diventare deputata dal 2016 e nel 2020 è stata eletta vicepresidente della Dáil Éireann, la camera bassa dell’Oireachtas (Parlamento) della Repubblica d’Irlanda. Il suo successo elettorale è stato favorito da un’inedita alleanza trasversale delle forze di sinistra, tra cui Sinn Féin, che hanno deciso di concentrare il sostegno su di lei. Contestualmente, la campagna della candidata ha puntato con forza sui temi critici della crisi abitativa, del costo della vita e della disillusione verso i grandi partiti governativi. Sul piano delle idee, Connolly ha fatto della difesa della neutralità nazionale e della critica delle politiche militari occidentali il cuore della sua proposta. Ha ripetutamente denunciato l’espansione della NATO a est e la militarizzazione europea in seguito dell’Operazione Speciale, sostenendo che l’Irlanda non debba allinearsi automaticamente alle logiche dei blocchi. Le sue posizioni hanno sollevato polemiche per il rischio di alienarsi gli alleati dell’Irlanda e, in particolare, ha dovuto affrontare le domande dei suoi sostenitori durante un evento elettorale in un pub di Dublino, dopo aver paragonato gli attuali piani della Germania per aumentare la spesa per la difesa alla militarizzazione nazista degli anni Trenta. Nonostante le critiche, è rimasta ferma nella sua opposizione ai piani dell’UE per il programma ReArm Europe, che prevede un aumento della spesa per il riarmo di 800 miliardi di euro e ha precisato di voler tutelare la tradizione irlandese di neutralità militare, di fronte alle richieste di un maggiore contributo del Paese alla difesa europea. Durante la sua campagna elettorale, ha affermato che dovrebbe essere indetto un referendum sul piano governativo per rimuovere il “triple lock“, un sistema a tre componenti che regola le condizioni per l’impiego di soldati irlandesi in missioni internazionali. La procedura richiede l’approvazione delle Nazioni Unite, la decisione del governo e un voto del Dáil. Sul fronte geopolitico, Connolly ha assunto una posizione decisa sulla questione palestinese, condannando le operazioni israeliane nella Striscia di Gaza e parlando apertamente di «genocidio». A settembre è stata criticata per aver definito Hamas «parte integrante del tessuto del popolo palestinese» e per aver difeso il diritto dell’organizzazione politica e militare a svolgere un ruolo futuro in uno Stato palestinese. Questa posizione ha suscitato la disapprovazione del Primo Ministro Micheál Martin, leader del Fianna Fáil, e del Ministro degli Esteri Simon Harris, leader del Fine Gael, l’altro partito del governo di centro-destra irlandese. Martin l’ha criticata per essere apparsa riluttante a condannare le azioni del gruppo militante nell’attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele. In seguito, Connolly ha aggiustato il tiro, dichiarando di aver «condannato totalmente» le azioni di Hamas, ma non si è tirata indietro nel continuare a criticare i crimini di Israele nella Striscia di Gaza. Nel dibattito presidenziale finale trasmesso in televisione martedì scorso, è stato chiesto a Connolly come avrebbe trattato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump – che possiede un resort di golf in Irlanda e ha intenzione di visitarlo quando ospiterà l’Irish Open l’anno prossimo – in una eventuale visita del tycoon nel Paese e se fosse pronta a sfidarlo in prima persona in merito al sostegno degli Stati Uniti a Israele nella guerra a Gaza. «Il genocidio è stato reso possibile e finanziato dal denaro americano», ha esordito Connolly, che si è detta disponibile a incontrare il presidente USA e a confrontarsi con lui su questi temi. Lo stile schietto di Connolly e il suo messaggio di uguaglianza sociale e inclusività hanno conquistato molti, soprattutto i giovani elettori. Nei dibattiti presidenziali trasmessi in televisione, ha affermato che rispetterà i limiti del suo incarico, sebbene nel suo discorso di accettazione abbia anche affermato che avrebbe parlato “quando necessario” come presidente. La carica presidenziale in Irlanda, sebbene prevalentemente simbolica, ricopre un ruolo di rappresentanza nazionale e internazionale e può incidere nei contenuti del dibattito pubblico. In questo caso, la scelta popolare rivela una Repubblica che vuole affermare un’identità autonoma, che valorizzi pluralismo, diversità e impegno di pace, in direzione opposta a un’Europa che sembra aver intrapreso la strada della guerra permanente. Le sfide immediate per la nuova presidente comprendono la gestione della coesione sociale in un Paese attraversato da tensioni su immigrazione, casa e riconciliazione nord-sud, oltre all’ipotesi di tenere un referendum sul sistema del triple lock. Con la vittoria di Connolly, l’Irlanda recupera la propria vocazione storica alla neutralità, proiettandosi sulla scena internazionale come voce autonoma e critica nei confronti dell’ordine globale, decisa a rivendicare un modello politico fondato sulla sovranità, la pace e la solidarietà tra i popoli.   L'Indipendente
Nessuno Stato può negare i bisogni essenziali dei richiedenti, neanche in caso di afflusso imprevisto
Non ci sono emergenze che tengano: gli Stati membri dell’Unione europea devono sempre garantire ai/alle richiedenti asilo condizioni di vita dignitose, anche quando le strutture di accoglienza risultano sature a causa di un arrivo imprevisto di persone in cerca di protezione. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Ue con la sentenza nella causa C-97/24, riguardante due richiedenti asilo – un cittadino afghano e uno indiano – che in Irlanda si erano trovati a vivere in strada, senza alloggio né mezzi di sostentamento. Le autorità irlandesi avevano consegnato a ciascuno solo un buono da 25 euro, rifiutandosi di assegnare loro un posto nei centri di accoglienza e negando quindi anche l’accesso al piccolo sussidio giornaliero previsto dalla normativa nazionale. I due richiedenti asilo hanno denunciato di aver vissuto per settimane all’aperto o in alloggi di fortuna, senza cibo né possibilità di mantenere l’igiene, e di essere stati esposti a violenze e pericoli. Davanti all’Alta Corte irlandese, hanno chiesto il risarcimento del danno subito. Il governo di Dublino ha riconosciuto la violazione del diritto dell’Unione, ma ha invocato la “forza maggiore”, attribuendo la saturazione delle strutture all’ondata di arrivi seguita alla guerra in Ucraina. La Corte di giustizia ha però respinto questa linea di difesa. Secondo i giudici di Lussemburgo, la direttiva 2013/33/UE (cosiddetta direttiva accoglienza 1) impone agli Stati membri di garantire “condizioni materiali di accoglienza che assicurino un tenore di vita adeguato” (art. 17), attraverso alloggio, sostegno economico o buoni. Tali condizioni devono coprire i “bisogni essenziali” dei richiedenti e tutelarne la salute fisica e mentale. La mancata erogazione di queste misure – anche solo temporaneamente – costituisce una violazione “manifestamente e gravemente” contraria al margine di discrezionalità lasciato agli Stati. Ciò che ha stabilito la Corte vale per tutti gli Stati membri, Italia compresa, dove il tema dell’accoglienza resta al centro del dibattito politico quotidiano. Nel nostro Paese, infatti, le autorità spesso non garantiscono condizioni adeguate ai/alle richiedenti asilo, che possono rimanere per mesi – talvolta per oltre un anno – esclusi/e dal sistema di accoglienza, in attesa di un posto. La Corte ha inoltre ricordato che la direttiva prevede un regime derogatorio (art. 20, par. 9), applicabile solo in circostanze eccezionali e per un periodo limitato, quando un afflusso improvviso di richiedenti esaurisce temporaneamente la capacità ricettiva degli Stati. Va però sottolineato che negli ultimi anni i numeri delle richieste d’asilo non hanno registrato aumenti tali da configurare un’emergenza. E comunque, anche in uno scenario del genere, ha precisato il collegio, resta fermo l’obbligo di rispettare la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, in particolare l’articolo 1, che tutela la dignità umana, e l’articolo 4, che vieta trattamenti inumani o degradanti. “Nessuno Stato membro – scrive la Corte – può invocare l’esaurimento delle strutture di accoglienza per sottrarsi all’obbligo di soddisfare le esigenze essenziali dei richiedenti protezione internazionale”. L’Irlanda, nel caso di specie, non ha dimostrato alcuna impossibilità oggettiva di adempiere ai propri obblighi, ad esempio attraverso il ricorso ad alloggi temporanei alternativi o a sussidi economici. La sentenza stabilisce dunque che un simile comportamento può configurare una “violazione sufficientemente qualificata” del diritto dell’Unione, aprendo la strada alla responsabilità dello Stato e al diritto dei richiedenti di ottenere un risarcimento. Una decisione chiara e netta, che nessuno Stato dell’Unione europea può fingere di non conoscere. Corte di Giustizia UE, sentenza dell’1 agosto 2025 1. Direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. ↩︎
La Gran Bretagna ha imposto una carestia all’Irlanda, ora sta prendendo parte al genocidio di Gaza
The Electronic Intifada. Di David Cronin. Le persone sepolte nel Cimitero dei Poveri non compaiono nelle storie dell’Impero Britannico. Un visitatore non conoscerà i loro nomi, saprà solo che appartenevano ai “poveri, diseredati, handicappati e indigenti di Wexford”, come recita un’iscrizione sotto una croce celtica. Molti avevano vissuto e erano morti nell’ospizio di questa città sulla costa sud-orientale dell’Irlanda. L’ospizio fu istituito nel 1845, l’anno in cui iniziò la Grande Carestia d’Irlanda. L’ospizio era, di fatto, una prigione per i poveri. I detenuti venivano separati dalle loro famiglie e costretti a lavorare duramente per 11 ore al giorno. La logica alla base di condizioni estremamente dure era che solo i più disperati avrebbero cercato aiuto – se questa è la parola giusta – da un’istituzione del genere. Mentre passeggiavo per il Cimitero dei Poveri a Wexford all’inizio di questa settimana, ho pensato a Refaat Alareer, l’eloquente e coraggioso studioso palestinese assassinato da Israele nel dicembre 2023. Refaat ha tracciato parallelismi tra Palestina e Irlanda. Nell’ottobre 2023 ha pubblicato sui social media che usava per informare gli studenti di come “la Gran Bretagna abbia contribuito ad aggravare la carestia irlandese avvenuta 170 anni fa”, prima di osservare che “gli Stati Uniti e il Regno Unito stanno aiutando Israele a far morire di fame i palestinesi a Gaza”. Il mese successivo, ha scritto che “la carestia è un’arma puramente europea nei tempi moderni”, citando l’esempio dell’Irlanda e del Bengala. > I used to angrily tell my student how Britain helped exacerbate the Irish > Famine that happened 170 years ago. Can you imagine people starving in the > 1840s?! > Well, the US/UK are helping Israel starve Palestinians in Gaza. > People are literally slimming down and it shows on their… > pic.twitter.com/7Rjv4zhHsN > > — Refaat in Gaza 🇵🇸 (@itranslate123) October 22, 2023 Ho pensato anche a Donald Trump – lo ammetto, è difficile non pensarci. Tra una partita a golf e l’altra dello scorso fine settimana, il presidente degli Stati Uniti si è lamentato del fatto che nessuno abbia espresso apprezzamento per gli aiuti americani a Gaza. Trump – intenzionalmente o meno – ha attribuito connotazioni negative al termine “umanitario”. Mentre un tempo il termine era associato all’altruismo e alla compassione, ora è indissolubilmente legato alla Gaza Humanitarian Foundation, che promette aiuti ai palestinesi che poi vengono massacrati quando vanno a cercarli. Questo, a quanto pare, è l’aiuto “umanitario” finanziato dagli Stati Uniti per il quale Trump si aspetta di essere ringraziato. Grati per le briciole? L’idea che un popolo affamato debba essere grato quando i suoi oppressori gli gettano qualche briciola non è nuova. Nel 1848, il quotidiano The Yorkshireman descrisse le presunte misure di soccorso della Gran Bretagna per la carestia irlandese come “doni d’oro” versati “in grembo al popolo scontento e infelice”. La Gran Bretagna si era fatta avanti “magnanimamente”, secondo il giornale, solo per incontrare la “più profonda ingratitudine” da parte degli irlandesi. Refaat Alareer ha giustamente sottolineato che la Gran Bretagna ha aggravato la carestia in Irlanda. Quando il raccolto di patate fallì nel 1845, gli inglesi inizialmente fecero in modo che il mais venisse importato in Irlanda dall’America. Le importazioni furono interrotte dopo che John Russell del Partito Liberale sostituì Robert Peel dei Conservatori come Primo Ministro nel 1846. I Liberali decisero che la quantità di cibo importata in Irlanda dovesse essere determinata dalle forze di mercato. Riempire le casse di mercanti e produttori di grano era un imperativo politico. Le pance degli irlandesi si svuotarono. La carestia che affligge Gaza è il risultato di una politica deliberata. Le agenzie internazionali hanno una grande riserva di cibo stazionata accanto e in prossimità dei valichi controllati da Israele. Per diversi mesi, Israele ha bloccato la consegna di tali aiuti. Il nuovo annuncio di Israele di sospendere “l’attività militare” per 10 ore al giorno in alcune zone di Gaza – formalmente per facilitare la consegna degli aiuti – non attenua la sua colpevolezza. Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, è ancora ufficialmente ricercato dalla Corte penale internazionale per aver usato la fame come arma di guerra. Anche gli irlandesi furono deliberatamente derubati di cibo negli anni ’40 dell’Ottocento. Invece di essere utilizzati per soddisfare i bisogni del paese, grano, burro, pesce e bestiame furono esportati in grandi quantità dall’Irlanda in quel periodo. Molte delle spedizioni avvenivano sotto scorta armata. Incanalare la rabbia irlandese. La Convenzione delle Nazioni Unite sul Genocidio entrò in vigore quasi un secolo dopo la Grande Carestia irlandese. Ciò nonostante, è inconfutabile che la crisi alimentare imposta all’Irlanda abbia implicato un genocidio, nel senso odierno del termine: l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, religioso o razziale. La sofferenza degli irlandesi fu “causata dalla loro stessa malvagità e follia”, sosteneva l’Economist nel 1846. Morte di fame per milioni di palestinesi “potrebbe essere giusto e morale”, dichiarò nell’agosto del 2024 Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze israeliano, lamentando che “il mondo non ce lo permetterà”. La protesta di Smotrich era inutile. Gli stati più potenti del mondo hanno permesso a Israele di farla franca causando fame di massa, così come hanno permesso a Israele di commettere massacri su massacri e distruggere quasi tutte le infrastrutture civili di Gaza. Tra gli stati più potenti del mondo c’è la Gran Bretagna. La Grande Carestia degli anni ’40 e ’50 dell’Ottocento non fu l’ultima crisi di fame in Irlanda. Livelli elevati di fame si verificarono nuovamente negli anni ’70 e ’90 dell’Ottocento, un decennio che iniziò con Arthur James Balfour a capo dell’amministrazione coloniale britannica in Irlanda. In seguito, nella sua veste di Ministro degli Esteri, egli emanò la Dichiarazione Balfour del 1917. Attraverso di essa, la Gran Bretagna divenne lo sponsor imperiale della colonizzazione sionista in Palestina. Oggi la Gran Bretagna è direttamente coinvolta in un genocidio. I voli della Royal Air Force su Gaza, che decollano da una base “sovrana” britannica a Cipro, vengono utilizzati per fornire “intelligence” a Israele mentre massacra i palestinesi affamati. Gli irlandesi provano ancora rabbia nei confronti dello stato britannico – non, ci tengo ad aggiungere, nei confronti della gente comune britannica. Abbiamo ragione di essere arrabbiati. Dimenticare i crimini della Gran Bretagna sarebbe un affronto ai nostri antenati. Come l’Irlanda, la Palestina è vittima della perfidia della Gran Bretagna. Il modo più produttivo per incanalare la nostra rabbia oggi è chiedere la libertà della Palestina. Traduzione per InfoPal di Stefano Di Felice
Inimicarsi il popolo irlandese è uno dei più grandi errori di Israele
Thespectaclemag.substack.com. Di Deaglan O’Mulrooney. Quando uno Stato Genocida si scontra con il popolo che ha inventato la lotta anti-Coloniale, accelera la propria rovina. Quando ho acceso il televisore, stamattina, non sono rimasto per niente sorpreso nel sentire al notiziario che Israele aveva nuovamente aperto il fuoco sulle forze di pace irlandesi nel Libano meridionale. Una notizia che non si sentiva da mesi. Sarebbe ingenuo pensare che questo non abbia nulla a che fare con il fatto che l’Irlanda sia diventata la prima nazione dell’Unione Europea a definire il Genocidio un Genocidio. Molti di noi sanno già che gli Hasbara israeliani sono impegnati in una campagna diffamatoria per dipingere gli irlandesi come antisemiti convinti, perché l’Irlanda è il Paese occidentale più schietto sulla questione palestinese. C’è un momento nella spirale mortale di ogni Regime oppressivo in cui si scaglia contro quello sbagliato. Quando la sua rabbia lo acceca al potere di coloro che ignora. Israele, nella sua frenetica campagna per reprimere il dissenso sul Genocidio a Gaza, ha commesso un terribile errore. Ha attaccato briga con gli irlandesi. Addio, Israele. Un anno fa, Israele aveva ancora un ambasciatore a Dublino. Oggi, quella carica è vuota, abbandonata in un impeto di rabbia e capricci diplomatici dopo che l’Irlanda ha avuto l’audacia di chiamare le cose con il loro nome. Il governo israeliano, agguerrito e con la bava alla bocca, ha dichiarato l’Irlanda “la nazione più antisemita d’Europa”, il che sarebbe ridicolo se non fosse così palesemente disperato. Ovviamente, l’Irlanda non ha battuto ciglio. Anzi, abbiamo raddoppiato gli sforzi. Mentre altri capi di Stato europei divagavano sulla “proporzionalità”, il governo irlandese ha preso la decisione di riconoscere formalmente lo Stato Palestinese, e non come un’aspirazione lontana, ma come una realtà immediata e non negoziabile. Si trattava di una sfida diretta alla narrazione di Israele e di un rifiuto di assecondare la finzione secondo cui la Palestina sarebbe solo una merce di scambio in un infinito “processo di pace”. Anche il fatto che il Taoiseach (Primo Ministro) irlandese sia diventato il primo capo di Stato europeo a definire il Genocidio un Genocidio è stato un gradito sviluppo. E la risposta di Israele è stata prevedibile come si potrebbe immaginare: urlare più forte. Diffamare più duramente. Scavare sempre più nell’emarginarsi. L’ironia. A dire il vero, l’idea che una nazione che ha sofferto 800 anni di Dominio Coloniale Britannico, una nazione che conosce intimamente il sapore della Carestia, degli sfollamenti e della Cancellazione Culturale, possa anche solo pensare di schierarsi dalla parte di un oppressore è assurda. Ma Israele non agisce in modo logico. Si limita ad attaccare. Quando l’Irlanda condanna le fosse comuni a Gaza, Israele urla “antisemitismo!”, come se preoccuparsi dei palestinesi morti fosse in qualche modo odio per gli ebrei. Quando artisti irlandesi come Kneecap sventolano bandiere, Israele esige che vengano processati per “terrorismo”, come se la solidarietà fosse un crimine. Ma ecco cosa Israele non riesce a capire: il mondo intero sta guardando ed è dalla parte dell’Irlanda. La Diaspora. Ci sono cinque milioni di persone in Irlanda, ma ci sono circa 100 milioni di irlandesi sparsi per il mondo. Lasciate che questo vi illumini. Da Boston a Buenos Aires, da Sydney a San Paolo, la diaspora irlandese è un gigante addormentato. Ed è un gigante che, per secoli, ha trasformato la sofferenza coloniale in una forza di unificazione. Gli irlandesi non sono sopravvissuti solo alla Grande Carestia; ci siamo diffusi attraverso il mare, il globo, e abbiamo portato con noi una storia di Resistenza infinita che risuona ovunque. Gli oppressi, gli antimperialisti, i buoni: tutti amici dell’Irlanda. L’Irlanda non è solo un piccolo Paese come gli altri. Siamo gli sfavoriti per eccellenza. Siamo il popolo che ha respinto l’Impero Britannico e trasformato la sua oppressione in predominio culturale e, mentre altre nazioni si vantano della loro potenza militare o economica, noi esercitiamo qualcosa di molto più pericoloso: siamo amati. Ogni singola volta che Israele attacca l’Irlanda. Ogni volta che cerca di diffamare i nostri politici o di prendere di mira i nostri artisti, non sta solo alienando un governo. Sta alienando milioni e milioni di irlandesi-americani, irlandesi-australiani, irlandesi-argentini e tutti i nostri amici. E quei milioni? Votano. Si organizzano. Ricordano. La prova di Kneecap. In nessun luogo l’errore di Israele è più evidente che nella persecuzione di Kneecap da parte dei suoi alleati: Liam Og Ó hAnnaidh, uno dei membri del trio, è attualmente accusato di terrorismo nel Regno Unito per aver tenuto una bandiera di Hezbollah durante un concerto. La bandiera non era nemmeno sua, ma è stata lanciata sul palco. Questo non è poi così importante, la parte importante è il messaggio. E il messaggio è chiaro: se osi usare la tua piattaforma per criticare a gran voce Israele, allora tutto il peso dello Stato ricadrà su di te. Ma la reazione è stata immediata e squisita. Perché i Kneecap non sono una banda musicale qualunque. Sono artisti nominati all’Oscar, vincitori di premi BAFTA e riconosciuti a livello mondiale che hanno trasformato la lingua irlandese in un’arma contro l’Impero. E ora, grazie a questa ridicola azione giudiziaria, sono diventati simboli di Resistenza ancora più grandi. Gli alleati di Israele nel governo britannico pensavano di mettere a tacere il dissenso. Invece, lo hanno amplificato. E io sono qui per ogni minuto di questo. Un avvertimento. Non è la prima volta che una forza oppressiva sottovaluta gli irlandesi, ma sarà uno degli errori di calcolo più spettacolari di questo decennio. La Gran Bretagna ha già commesso questo errore in passato. Per secoli ha creduto che l’Irlanda potesse essere schiacciata e che la nostra lingua potesse essere messa al bando, i nostri leader impiccati, i nostri figli fatti morire di fame fino alla sottomissione. Oh, quanto si sbagliavano. Più insistevano, più bruciavamo e ci illuminavamo. Più rubavano, più pianificavamo. E quando arrivò la resa dei conti, non fu nei corridoi di Westminster, ma nelle strade di Dublino e nei corridoi dell’ufficio postale centrale, fu negli scioperi della fame del carcere di Maze e nel silenzioso rifiuto di un popolo che non voleva scomparire. Ora Israele, sei libero di ripetere l’errore. Pensano che si tratti di diplomazia e di atteggiamenti politici. Del temporaneo inconveniente di una cattiva stampa, ma si sbagliano. Si tratta di un retaggio. Dell’occhio impassibile della storia. Dell’immutabile verità che le entità oppressive, non importa quanto feroci, non importa quanto armate, non importa quanto convinte della propria rettitudine, cadono sempre. E quando ciò accadrà, saranno le voci che hanno cercato di mettere a tacere a scrivere il loro necrologio. Quando la storia di questo Genocidio sarà scolpita nella memoria del mondo, la posizione dell’Irlanda sarà ricordata. Non come nota a margine, ma come prova che la coscienza nazionale esiste ancora. Israele è disperato. Diffama, minaccia e compie patetici tentativi di criminalizzare la solidarietà, ma tutto questo verrà ricordato. Non come strategia, ma come confessione. Ogni singolo sfogo e ogni singola invettiva piena di rabbia dimostrano solo ciò che già sappiamo: loro sono i prepotenti. Noi siamo la Resistenza. E la Resistenza? Beh, è ciò che sappiamo fare meglio. Quindi, che l’Inghilterra venga con i suoi tribunali. Il 18 giugno, Liam, alias “Mo Chara”, si presenterà davanti a loro, ma non sarà solo. Noi saremo lì a Londra, alle sue spalle. Le strade risponderanno. La diaspora risponderà. I nostri amici e compagni risponderanno. La storia stessa risponderà. Venite se potete! Organizzatevi se siete lontani. Non si tratta più di una persona, di una bandiera o di un processo. Si tratta di tracciare una linea così netta che ogni governo complice la vedrà bruciare nel buio. Portate strumenti, bandiere, cartelli e presentatevi per far sapere loro pacificamente che non accetteremo di essere messi a tacere. Modifica dell’ultimo minuto per ricordarvi di ascoltare la nuova canzone dei Kneecap. Questa è una canzone per far uscire allo scoperto i vostri britannici: Gli irlandesi non vi temono. E la marea? Beh, quella cambia sempre. Traduzione: La Zona Grigia