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Colpit3 dalle onde non affondiamo
Appunti in vista dell’assemblea in Valle del 27 luglio e per quelle già programmate per settembre… Nell’ultimo anno, abbiamo ostinatamente ragionato e organizzato iniziative contro la guerra e il regime di comando che ne è conseguenza. Lo abbiamo detto più volte, la guerra cambia, e non poco, il contesto in cui viviamo e diamo vita alle nostre battaglie politiche. Mutano i rapporti di forza, i punti di riferimento, le politiche economiche e, quindi, la ricaduta nella società è profondissima. In termini di diritti sociali e civili ma anche nella produzione di discorso pubblico, della retorica istituzionale e della cultura complessiva della nostra società. Quando abbiamo iniziato il percorso di Reset abbiamo fatto lo sforzo di adottare collettivamente, in uno spazio multiplo ed eterogeneo, delle lenti differenti per leggere non solo la fase ma le linee di disuguaglianza e sfruttamento che si vanno approfondendo. Per questo è stato fondamentale mettere al centro il confronto tra chi veniva dalle diverse esperienze delle lotte transfemministe, ambientaliste e sociali; tentare di assumere una nuova prospettiva che potesse aiutarci non solo ad analizzare il presente ma costruire uno sguardo radicalmente trasformativo per il futuro. > Da questo punto di osservazione e di iniziativa abbiamo affrontato anche i > limiti e le insufficienze del movimento – non solo in Italia – di cui, per > chiarezza, siamo state e stati e siamo parte. Quei limiti e insufficienze sono > anche i nostri. Alcuni passaggi sono stati rilevanti in questo nostro percorso o ci sono sembrati indicare dei terreni interessanti. Gli Stati Generali per la giustizia climatica e sociale lanciati da GKN e dalle realtà ambientaliste, le mobilitazioni per la Palestina, la marea transfemminista che ha preso parola da subito contro la guerra, le mobilitazioni in opposizione all’approvazione della c.d. Legge Sicurezza, la giornata del 21 giugno e la piattaforma di Stop Rearm. Molte sono le chiamate “a convergere” da parte di importanti percorsi, piattaforme e spazi di lotta che si sono dati negli ultimi anni e che, guardando al futuro prossimo, fanno appello a confluire e costruire il proprio spazio di lotta. Tuttavia, pensiamo che la convergenza non sia un qualcosa di dato, un fatto già esistente, un modellino “prefabbricato” da applicare, ma piuttosto una ipotesi strategica che si fonda su un processo di costruzione in divenire in grado di generare una novità in grado di rompere la temporalità in corso e che scommetta sull’incertezza. Insomma, per convergere c’è bisogno, secondo noi, di interrogarsi e confrontarsi non soltanto con altre realtà ed esperienze, ma sul modo di fare movimento e organizzazione, allargando lo sguardo al di fuori delle realtà organizzate. Non può essere una dinamica di mera sommatoria ma un processo, anche poco lineare, che ha come fine la moltiplicazione e l’inusuale processo in cui una formula matematica ha come risultato parole e relazioni nuove. Noi abbiamo scelto di partecipare a molti di quegli incontri e alle mobilitazioni che ne sono nate, sia a livello nazionale che europeo, e continueremo a partecipare agli spazi di confronto che si daranno nel movimento. Ma ci domandiamo se abbia senso costruire innumerevoli ambiti assembleari dove ognuno ha la sicurezza di indicare la strada da mostrare alle altre e agli altri o convocare “manifestazioni nazionali” o se, invece, non convenga a tutt* fare un passo indietro per poi compierne due avanti, insieme. Per quanto riguarda noi, continuiamo a proporre a tutte di costruire un processo di sciopero che rimetta in discussione pratiche e tempi. Uno sciopero europeo che esca dalla dinamica dell’evento e che possa essere risignificato come processo di accumulazione che si dà nel tempo, in grado di articolare pratiche, parole d’ordine e rivendicazioni che nascono dal basso dentro i processi reali, ma che sia al tempo stesso capace di costruire una capacità di iniziativa condivisa e potente, che duri nel tempo. Un processo non di mera federazione o alleanza ma che, nel mutuo riconoscimento delle soggettività in lotta, sappia guardare ai soggetti del lavoro vivo – lavoratori e lavoratrici, precarie, migranti, persone lgbtqi+ – che sul posto di lavoro come sui territori, sul terreno materiale come su quello culturale, si oppongono alla guerra come meccanismo di comando sulle vite di milioni di persone e rifiutano di pagarne il prezzo. Per fare ciò, vale secondo noi la pena di assumerci collettivamente il rischio e la fatica, anche del fallimento per poi sempre ritentare, per una scommessa ambiziosa che punti alla costruzione di occasioni di reale confronto tra le lotte su come acquisire la capacità di fermare e colpire insieme il sistema nazionale, europeo, mondiale che si avvia così velocemente verso il riarmo e la guerra, ognuno col proprio punto di vista e col proprio portato di esperienze. > Il nostro obiettivo è organizzarci per disertare, sabotare e scioperare contro > guerra, facendo dell’Europa lo spazio minimo della nostra iniziativa politica. In questa prospettiva pensiamo che sia necessario non solo  condividere prospettive nell’immediato, ma costruire un orizzonte di analisi e discorso comune. Ci sono, pensiamo, dei nodi che non possiamo evitare di affrontare nel nome dell’iniziativa, ed è per questo che vogliamo continuare a costruire spazi di discussione e comunicazione. Di fronte a guerra e riarmo non saremo soggetti passivi. Vogliamo essere agenti conflittuali e organizzati per affrontare la violenza di questo mare in tempesta. Insieme, con mutualismo e cooperazione, costruire la nostra forza collettiva. L’immagine di copertina è di Renato Ferrantini SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Colpit3 dalle onde non affondiamo proviene da DINAMOpress.
Tra bombe, sanzioni e retoriche di potere: resistere in Iran
Cronache e prime riflessioni mentre cadono le bombe su Teheran. L’IRRUZIONE DELLA GUERRA NEL CUORE DELLA NOTTE Erano le due del mattino. Una videochiamata con un’amica a Teheran si è trasformata all’improvviso nella visione in diretta di un incubo: la prima ondata dell’attacco israeliano contro l’Iran. Le case tremavano, il cielo era attraversato dai rumori dei missili e dei bombardamenti e le strade erano sommerse dal fumo, dalle urla e dall’abbandono. Lo Stato era assente: nessun rifugio, nessun piano, nemmeno un avvertimento. Ancora una volta, un popolo dimenticato veniva sacrificato sull’altare di un progetto geopolitico mortale. Per comprendere questa situazione, è necessario andare oltre la tradizionale cornice dello Stato-nazione e della politica di potenza. Ciò che accade oggi può essere interpretato come la continuazione di un “regime di guerra” nel cuore stesso del capitalismo globale – un regime che non si fonda solo sull’occupazione militare, ma sulla riproduzione della paura, sull’eliminazione dei soggetti politici e sull’organizzazione sistematica della morte. Come affermano Sandro Mezzadra e Michael Hardt, i regimi bellici contemporanei non si definiscono più tramite occupazioni tradizionali, ma attraverso un insieme composito di tecnologie del controllo, gestione dei confini, operazioni psicologiche e distruzione delle condizioni di vita civili. Il regime di guerra è oggi parte integrante dello Stato-capitale globalizzato: una rete multilivello di governi, eserciti, appaltatori della sicurezza e media che portano avanti la guerra come meccanismo di produzione di potere, legittimità e accumulazione. > In Iran, una struttura politico-economica già gravemente colpita da > inflazione, povertà, corruzione sistemica e repressione, si rivela ora del > tutto incapace di proteggere i propri cittadini di fronte agli attacchi > esterni. Da città come Teheran, Karaj, Esfahan, Shiraz e Mashhad arrivano testimonianze che confermano l’assenza anche delle infrastrutture minime di allerta o rifugio. Le persone vengono a conoscenza degli attacchi solo dal rumore delle esplosioni. Madri e padri che cercano di salvare le proprie figlie i propri figli a mani nude; ospedali che, pur non essendo obiettivi militari dichiarati, si ritrovano paralizzati da interruzioni elettriche, sovraffollamento e in alcuni casi colpiti direttamente. Testimoni oculari a Teheran raccontano che, dalla mezzanotte fino all’alba, raffiche e esplosioni hanno squarciato il silenzio, facendo tremare più volte gli edifici. La gente ha cercato rifugio per strada, non solo per paura degli attacchi, ma anche per timore del crollo delle proprie case. «Il silenzio dopo l’esplosione», dice un residente, «è più spaventoso dell’esplosione stessa». In un altro resoconto locale, una donna del quartiere Niru-ye Havaei racconta di aver passato tutta la notte sulle scale con i suoi figli, convinta che fosse più sicuro lì che dietro le pareti di vetro dell’appartamento. A Esfahan, un’infermiera riferisce che il pronto soccorso del suo ospedale è stato gestito al lume di candela, senza elettricità né ossigeno. A Mashhad, un ragazzo scrive che sua madre ha avuto una crisi di panico, confondendo il rumore dei droni in cielo con quelli usati per la repressione durante le proteste del 2022. > Questo regime, attraverso una distribuzione asimmetrica della violenza, prende > di mira le strutture della vita stessa: elettricità, acqua, ospedali, scuole e > media. La distruzione delle infrastrutture civili non è più un effetto collaterale, ma parte integrante della logica bellica. Non è una guerra contro lo Stato, ma contro la capacità stessa delle persone di vivere. In questo senso, la politica di guerra è una politica contro la vita. L’ILLUSIONE LIBERATRICE All’inizio, Donald Trump, con un linguaggio coloniale e sprezzante, dichiarò che «per preservare il grande impero persiano, è meglio che l’Iran accetti un accordo con noi» — come se la storia dell’Iran non fosse altro che un’appendice da piegare ai sogni imperiali americani. Poco dopo, ha avuto inizio l’attacco israeliano. In una dichiarazione teatrale, Netanyahu si è rivolto al popolo iraniano affermando: «Non siete voi il bersaglio dei nostri attacchi, ma il regime e alcuni individui specifici». Questa distinzione fittizia, tuttavia, non è segno di etica, bensì parte integrante di un discorso bellico delle potenze globali, in cui la linea tra popolo e governo viene deliberatamente cancellata per rendere la morte legittima. Allo stesso tempo, le immagini della famiglia Pahlavi nei loro incontri con esponenti israeliani rappresentano un altro tassello dello stesso progetto politico-mediatico, che trasforma la catastrofe in opportunità. > I monarchici, allineandosi con le politiche guerrafondaie, si presentano come > portavoce del popolo, come se quel popolo che ha affrontato i proiettili a > mani nude nella rivolta “Donna, Vita, Libertà” non fosse mai esistito. Questo sguardo dall’alto, strumentale e intriso di disprezzo, rappresenta le iraniane e gli iraniani non come soggetti politici, ma come pedine mute sulla scacchiera della geopolitica globale. Il giorno seguente, una nuova messinscena: «Bisogna preparare l’Iran alla rivoluzione». Poi: «L’obiettivo è il cambiamento di regime». E infine: «Abbiamo preparato l’Iran per proteste e sollevazioni popolari. Popolo, insorgi!» Ma questo “invito alla rivolta” proviene dalle stesse potenze che da anni costringono la popolazione iraniana a sopravvivere sotto il peso di sanzioni, minacce e una guerra che ha reso la vita stessa insostenibile. La rivolta a cui si fa appello non mira alla liberazione, bensì a una redistribuzione strategica della morte secondo la mappa degli interessi globali. Come possono insorgere coloro che, in quello stesso momento, hanno perso i propri cari sotto le macerie? Come potrebbero rivoltarsi quelle e quelli che sono fuggite dalle loro case e città solo per restare in vita? Nella logica del capitale e della guerra, le cittadine e i cittadini comuni non sono solo vittime, ma anche responsabili di pagare il prezzo dei missili che li colpiscono. In quest’ordine, la morte è uno strumento della politica e la distruzione diventa il linguaggio della legittimità. VIVERE COME RESISTENZA In questo regime, il confine tra “nemico militare” e “popolazione civile” viene deliberatamente cancellato. La frase minacciosa «quello che abbiamo fatto a Gaza, lo faremo anche in Iran» non è semplicemente una tattica: è l’espressione di una politica che merita di essere chiamata per nome — politica della morte, o necropolitica. In tale cornice, gli Stati non si limitano a decidere chi vive, ma pianificano la morte: attraverso l’assedio, l’interruzione dell’accesso alle risorse vitali e infine il bombardamento. Questa politica della morte è accompagnata da interventi psicologici e mediatici. Agenzie di stampa e analisti legati ai blocchi di potere giustificano la guerra con il linguaggio dell’“aiuto umanitario”. In queste narrazioni, i bombardamenti vengono rappresentati come un preludio alla libertà. Questo processo svuota la violenza del suo significatoe trasforma la morte in soluzione. In questa logica, anche la protesta diventa qualcosa di predefinito e controllabile. Le stesse potenze che hanno imposto sanzioni e insicurezza invitano ora il popolo iraniano alla rivolta – non per la libertà, ma per ricostruire un ordine più adatto ai loro interessi. Questa politica dell’insurrezione “guidata” è parte della macchina bellica stessa: una macchina che desidera la rivolta, ma ne pretende anche il controllo. La rivolta, così concepita, non è un atto di liberazione, ma una strategia per ribilanciare i poteri. Da questa prospettiva, ciò che diventa urgente è la ricostruzione di un orizzonte di resistenza, non basato sulla salvezza esterna o su interventi umanitari, ma fondato sulle azioni autonome del popolo, in solidarietà con altri soggetti espulsi dal sistema globale. > La vera resistenza non si costruisce in alleanza con poteri militari, ma nel > riappropriarsi del potere dentro la vita quotidiana. In questo contesto, narrazioni, memorie e testimonianze popolari diventano atti politici. Chi scrive sotto i bombardamenti, chi ascolta in silenzio il ronzio dei droni nella notte, chi stringe la propria bambina o il proprio bambino in un rifugio immaginario: tutte e tutti sono portatrici e portatori di una forma di resistenza. Una resistenza che non risiede nelle armi, ma nel sopravvivere, nel raccontare, nell’insistere a esistere contro ogni tentativo di cancellazione. In un mondo dove la morte è diventata uno strumento di legittimazione, forse l’unica forma di resistenza possibile è restare in vita come atto politico: resistere non per gli Stati, né per opposizioni che rappresentano l’altro volto dello stesso ordine, ma per la vita, per la giustizia, per la fine di una politica che trasforma l’essere umano in obiettivo militare. Ciò che accade oggi in Iran è parte di un quadro più ampio: l’ordine globale del capitalismo bellico. Un ordine che, sotto la maschera della democrazia e della sicurezza, rende le popolazioni obiettivi legittimi da colpire. In quest’ordine, la morte non è un errore, ma una necessità funzionale. Resistere a questa realtà è possibile solo se si trasformano le narrazioni, si ricostruiscono i confini etici e si riportano i soggetti popolari dal margine al centro dell’azione politica. Solo allora potremo tornare a parlare della vita come atto politico, e non più della morte. Immagine di copertina di Mohammadjavad Alikhani (wikimediacommons) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Tra bombe, sanzioni e retoriche di potere: resistere in Iran proviene da DINAMOpress.
Costruire pratiche collettive contro la guerra
Dal 28 al 30 marzo oltre cento persone hanno partecipato all’incontro nazionale contro la guerra Rearm? No, reset! promosso dalla Rete per lo Sciopero Sociale Eco-Transfemminista contro la guerra (RESET Against the War). Nell’arco dei tre giorni, singole soggettività, appartenenti a spazi sociali, collettive studentesche, coordinamenti e sindacati di base hanno accettato la sfida di affrontare il disorientamento che da tre anni attraversa i movimenti, mettendo la guerra al centro della discussione. I quattro tavoli tematici hanno permesso un confronto aperto e franco, che ha consentito di fare passi avanti condivisi nell’analisi della fase attuale e verso il superamento di blocchi e automatismi che hanno costituito un limite evidente in questi anni. Per questo, i report dei tavoli che mettiamo a disposizione [Regime di guerra e diritto alla città; Riconversione economica? Guerra, produzione e riproduzione; Quale “nuovo” internazionalismo di fronte alla guerra?; Cassetta degli attrezzi per movimenti insorgenti] contengono ipotesi, pongono problemi, smontano linguaggi e categorie. L’incontro non solo ha raccolto il lavoro di mesi di preparazione da parte di singol*, gruppi e collettivi, ma ha affermato praticamente l’urgenza di costituire un luogo aperto per ripensare il nostro modo di fare movimento, oltre le formule e le pratiche consolidate, guardando con lenti diverse la realtà di una guerra che non parla da sola e non è confinata allo scontro militare sui campi di battaglia, ma scandisce incessantemente il nostro presente. Organizzarsi per lottare dentro e contro la guerra è l’urgenza che l’incontro consegna e da cui ripartire. Per quanto registriamo positivamente la ripresa di iniziative di contestazione delle politiche di riarmo avviate nel contesto europeo e di rifiuto del genocidio in atto in Palestina, affermiamo al tempo stesso l’importanza di costruire e ampliare un percorso di crescita collettiva e trasformazione sociale che sappia produrre un linguaggio comune, superando i blocchi che sin qui hanno impedito lo sviluppo di un movimento esteso e radicale contro la guerra e la sua logica trasversale. Manifestazione a Coltano, giugno 2022 In opposizione alla guerra, che produce morte e distruzione su molteplici fronti, frammentandoli, l’incontro ha riconosciuto l’orizzonte comune che li lega e che connette ciò che accade lungo questi fronti con le trasformazioni transnazionali – economiche, politiche e sociali – che attraversano ogni territorio e realtà nazionale. La guerra produce oggi una violenta riaffermazione di gerarchie e ruoli sociali, coazione al lavoro e sfruttamento, limitazione degli spazi di liberazione di cui possono beneficiare solo gli Stati e il capitale. Ma sbaglia chi pensa che questi ultimi abbiano, con il ricorso alla guerra, ripreso il controllo del disordine sistemico. Stato e capitale devono imporre con l’uso della forza e con una continua e incessante propaganda e militarizzazione i loro propositi: inseguire un lavoro vivo riottoso a farsi sfruttare e arruolare per il bene dello Stato e delle imprese; individuare sempre nuovi nemici nei migranti, nelle donne, nelle persone LGBTQI+, nei lavoratori e nelle lavoratrici e in chiunque contesti lo stato di cose presenti. Alcun* di noi hanno usato in questi anni modi diversi per riferirsi e registrare questo cambiamento di scenario, parlando di “regime di guerra” o “terza guerra mondiale”. Si tratta di una discussione aperta e che continuerà, di cui i report restituiscono alcuni elementi. L’uso di queste diverse formule non ha tuttavia impedito di puntare alla costruzione di un discorso comune: ciò su cui vogliamo porre l’accento è che registrare la centralità politica della guerra, del suo ritorno sulla scena mondiale, più che riattivare parallelismi storici, serve a indicare la condizione generale in cui ci troviamo, dove la guerra viene mobilitata come principio d’ordine, scontrandosi con l’instabilità irriducibile di ogni assetto sociale e politico > Nella drammaticità del momento, riconosciamo nella guerra una posta in gioco > che chiama in causa i movimenti organizzati e chiunque voglia qualcosa di più > della miseria di questo presente. Cogliere questa posta in gioco è oggi > decisivo per non rimanere invischiati nella logica del nemico, nella > geopolitica dei fronti e dei blocchi che fanno degli Stati, delle > rappresentazioni omogenee e monolitiche dei popoli, delle identità, gli unici > soggetti legittimi all’ombra del capitale. Opporsi alla guerra e alle sue logiche è oggi il punto di partenza per ogni lotta che punti a non essere meramente residuale e reattiva: contrastare le pretese ordinatrici del militarismo, della violenza patriarcale, del razzismo, dello sfruttamento e della devastazione ambientale è il punto di partenza per fare della pace un orizzonte reale di lotta al di là di ogni condivisibile, ma insufficiente, evocazione morale. Serve dunque costruire praticamente una politica altra, che sappia finalmente produrre un piano di comunicazione tra soggetti sociali, precarie, migranti, donne e soggetti LGBTQI+ che subiscono ovunque gli effetti e i costi sociali della guerra e li rifiutano con i loro comportamenti e le loro rivendicazioni. Organizzare l’opposizione alla guerra, imporre la sua fine, vuol dire per noi oggi rifiutare ogni arruolamento per affermare un terreno comune di lotte capaci di richiamarsi, sostenersi, rafforzarsi, allargarsi. Significa valorizzare ciò che c’è, al fine di superarlo e attivare altro, trovando parole condivise per produrre iniziativa e sapendo che la ricerca di queste parole può essere il terreno su cui scontare anche conflittualmente le nostre divergenze. Non ci serve richiamare parole d’ordine abusate, insufficienti quando non controproducenti, ma costruire un discorso e una pratica condivisi capaci di fare i conti con le differenze tra soggetti organizzati, condizioni sociali e geografiche. Sottrarsi, disertare, resistere, non è più sufficiente: ciò che è necessario è costruire le condizioni per le quali i soggetti colpiti dalla guerra e dalle sue logiche di sfruttamento, razzismo, patriarcato, devastazione ambientale possano convergere, acquisire potenza e sovvertire. Ciò rende decisivo pensare oltre i confini nazionali, ripensare l’internazionalismo oltre la tradizione dell’internazionalismo stesso. Per quanto possiamo considerare odiose e bisognose di risposta le politiche portate avanti dal governo o le condizioni che dobbiamo affrontare nei territori e negli spazi metropolitani, infatti, non è più rinviabile riconquistare una capacità di immaginazione e azione transnazionale. Ciò non significa solo riconoscere che tutte e tutti siamo presi in processi che agiscono su questa dimensione, ma anche comprendere che è su questo piano che possiamo trovare la forza necessaria per contrastare quei processi, a partire dalla dimensione europea. Alla sterile opposizione tra europeisti e non europeisti dobbiamo opporre una politica in grado di rovesciare un’Europa di guerra che va ben oltre il piano di riarmo e si profila come spazio in cui il comando sul lavoro vivo diventa sempre più violento, sotto il segno dell’autoritarismo, del patriarcato, del razzismo e dello sfruttamento. Essere parte dell’elaborazione di un discorso e di una pratica di lotta transnazionali ed europei, capaci di guardare l’Europa oltre i suoi confini istituzionali, è parte integrante dell’opposizione alla guerra. Per andare in questa direzione – oltre a continuare a stare nei percorsi e nelle mobilitazioni in cui siamo impegnat* e a cui parteciperemo nei prossimi mesi portando l’approccio che ha caratterizzato la residenza – vogliamo promuovere ulteriori incontri aperti di discussione che permettano di approfondire le ipotesi e i temi qui sollevati. > Non vogliamo aggiungere date a calendari già pieni di scadenze che ci vedono > in molte occasioni coinvolt*, ma riaprire un terreno di confronto e > discussione per alimentare un processo di accumulo di capacità di > comunicazione e organizzazione. Chiamiamo sciopero questo processo organizzativo, dal momento che deve essere in grado di interrompere le logiche di sfruttamento, razzismo, patriarcato e devastazione ambientale che la guerra estende a tutta la società. Interrompere non significa inseguire momenti decisivi, ma fare di ogni momento una possibilità affinché chi è più colpito da questo presente di violenza e sfruttamento possa riconoscersi in una condizione comune e tornare a cospirare insieme. Immagini di copertina e nel corpo del testo di Andrea Tedone, manifestazione a Coltano, giugno 2022 SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Costruire pratiche collettive contro la guerra proviene da DINAMOpress.
Essere giovani nel regime di guerra globale
Questo testo parte dal bisogno di mettere a fuoco, con un taglio generazionale, alcune riflessioni sedimentate all’interno della residenza di ReSET (Rete per lo Sciopero Sociale Ecologista e Transfemminista), tra le aule di Roma Tre e lo spazio sociale Acrobax, dal 28 al 30 marzo. Viviamo in una congiuntura di guerra, che porta con sé un accumulo di crisi, climatica, economica, politica, pandemica e sociale e in cui, attraverso la guerra, si tenta di portare ordine dove questo non c’è. La guerra è già qui e gli assetti della società vengono riallineati e riordinati in questo senso; lavoro, scuola e università, e così le soggettività che al loro interno abitano, vengono arruolate, sia sul piano materiale che simbolico-ideologico. Il nostro Governo, parte di un blocco reazionario che si esprime sul piano europeo ed extra-europeo, ha reso evidente, fin da subito, la logica binaria e dicotomica della guerra, attraverso la muscolarità di un articolato impianto normativo, anche di carattere emergenziale, che stigmatizza e reprime soggetti e comportamenti “devianti” e “dissonanti” e che, sul piano del discorso pubblico, esalta la nazione e il suo apparato militare e tecnologico. “Armarsi”, nella logica del ReArm Europe, significa investire in spesa militare a detrimento di quella sociale, significa rilanciare l’industria dell’automotive e colmare il divario tecnologico, economico e commerciale con la Cina e gli Stati Uniti, significa consolidare i confini nazionali ed europei, significa sacrificare la ricerca alle logiche delle imprese che lucrano sulle guerre, i conflitti e le ricostruzioni, significa affamare intere popolazioni e colonizzare i territori e le risorse naturali, significa disciplinare e governare il lavoro, i saperi, le vite. In questi giorni, a più riprese, le maggiori testate del Paese si rincorrono in un susseguirsi di articoli ed editoriali che attestano la drammaticità della situazione del lavoro e della formazione delle/dei giovani, tutto d’un tratto ci accorgiamo dei fenomeni di esodo dalle nostre città che non hanno mai smesso di darsi. LA CONDIZIONE DEL LAVORO GIOVANILE Non è più sorprendente sostenere che gli stipendi in Italia sono al palo da trent’anni, siamo il paese che ha registrato il calo dei salari reali più forte tra le principali economie OCSE. La questione è riemersa con molta forza nell’ultimo periodo, a causa della relativa riduzione del potere d’acquisto e della forte crisi inflazionistica creatasi a partire dalla guerra in Ucraina e dalla pandemia. Come ha scritto Biagio Quattrocchi in un recente articolo pubblicato sul sito clap-info (La guerra dei trent’anni: povertà retributiva e disuguaglianze strutturali in Italia – Clap – Camere del lavoro autonomo e precario), siamo davanti a una guerra di classe che dura da ormai trent’anni, vecchia quanto l’imposizione del neoliberismo come paradigma globale di governance, in cui i salari scendono e salgono solo i profitti per le imprese. Elementi che si enfatizzano e si aggravano sulla linea di frattura sociale del genere, della razza e delle generazioni, dove a emergere è un quadro dalle tinte fosche fatto di precarietà, lavoro povero e gratuito, addestramento alla disponibilità. Un quadro generale a cui si deve aggiungere che di lavoro si continua a morire, anche mentre si studia, come le storie di Lorenzo Parelli, Giuliano De Seta e Giuseppe Lenoci tragicamente ci ricordano.  Se si guarda poi la questione a partire da quanto emerge dai documenti (EUROSTAT, 2025) che ritraggono la situazione delle giovani generazioni (dai 18 ai 35 anni) il quadro peggiora ancora. Dal 2019 al 2023 la retribuzione media dei giovani è diminuita del 17%. Questo dato è soltanto la punta dell’iceberg. Per scoprire il mondo della precarietà giovanile bisogna leggere i dati all’interno e far emergere che il 40,9% degli under35 ha un contratto precario, a tempo determinato o stagionale e che molti di questi sono a cortissima durata, con paghe irrisorie; senza contare che il mondo del lavoro giovanile è costituito in ampia parte dal lavoro nero e sommerso, da lavoretti che difficilmente emergono dalle analisi ufficiali. Le statistiche valgono infatti se si ha la “fortuna” di avere un lavoro, perché così non è per il 21,3% che ne è privo. Sono anche altre le questioni che vengono meno rappresentate: una tra tutte, il fatto che la dinamica dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro nel mercato sia un falso mito, poiché se un impiego si trova si deve al capitale relazionale e sociale che si ha a disposizione, quindi anche alle proprie condizioni di partenza. La rete parentale e amicale svolge un ruolo centrale e costituisce il miglior servizio per il lavoro a disposizione dell3 ragazz3. Non deve sorprenderci che questa rete rimane anche l’unica forma di welfare efficace, anche se ormai praticamente esaurita. > Per il resto, come giovane, costituisci “dote” a disposizione dell’appetito di > imprese e di agenzie private che operano nel mercato del lavoro. Oltre ai dati quantitativi, già drammatici, è necessario denunciare la qualità del lavoro e delle condizioni in cui si realizza. Da una parte abbiamo visto consolidarsi come elemento strutturale del lavoro l’economia della promessa e il lavoro gratuito collegato a essa. Due fattori che costituiscono i pilastri dello sfruttamento del lavoro vivo giovanile attraverso forme di ricatto e di presunta premialità che creano una costante aspettativa di miglioramento che difficilmente viene esaudita. Essendo due fenomeni strutturali e agendo subdolamente, risultano completamente introiettati soprattutto dalle nuove generazioni che sono educat3 alla logica del sacrificio, dell’ “innovazione interiore”, sin dalla scuola, con i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (PCTO), ma anche attraverso i social, dove veniamo costantemente sommersi dagli standard di successo del capitalismo digitale incarnati dai “cripto-guru”, canoni di successo e competitività che allo stesso tempo sono canoni di muscolarità e machismo. Uno dei campi dove emerge maggiormente la condizione dello sfruttamento giovanile è il lavoro stagionale. Non è un caso che si apra ad aprile questo dibattito: come ogni anno bisogna fare i conti con l’estremo bisogno della macchina del lavoro estivo di assorbire forza lavoro. Questo è il settore in cui si concentrano con maggior visibilità e intensità le dinamiche di sfruttamento; infatti, è un settore che richiede forza-lavoro poco qualificata, dove i turni sono massacranti, le paghe irrisorie e le tutele sono spesso inesistenti. Quindi i lavori che ci vengono “naturalmente” attribuiti sono quelli in cui il nostro percorso di formazione spesso non ha alcuna importanza e per cui siamo sovraqualificat3. Il lavoro per noi è, oggi, fonte di frustrazione, sfruttamento, alienazione. Non si tratta di elementi di novità, ma nuovo è l’impianto “culturale” in cui si inseriscono. Il lavoro nel regime di guerra subisce una riconversione non solo economica verso un assetto bellicista, ma compie un salto di tipo culturale di stampo militarista. La guerra è un imperativo che viene fatto pesare sul rapporto di sfruttamento della forza lavoro e il militarismo aiuta a rinsaldare i vincoli patriarcali della produzione e della riproduzione. Se nei conflitti è strategico il controllo delle risorse, il lavoro vivo diventa esso stesso una risorsa strategica da controllare e pacificare. Incorporando i vincoli patriarcali, nella formula beffarda dello sfruttamento lavorativo, ai ragazzi e alle ragazze vengono richiesti costantemente sforzi e sacrificio per sostenere la terra dei padri, a fronte di una costante svalutazione delle proprie conoscenze e con la sola promessa che “in futuro andrà meglio”, cosa che vorremmo poter auspicare ancora, nonostante la guerra sia il nostro presente e l’unico orizzonte visibile. > L’incorporazione dei vincoli patriarcali emerge plasticamente nelle richieste > stesse dei datori di lavoro, rivolte non solamente a rafforzare le competenze > di “cura, linguaggio, disponibilità, relazione”, ma allo stimolo ad “amare” il > proprio lavoro, a percepire l’ambiente lavorativo come “seconda famiglia”, > facendo leva su immaginari e sentimenti affettivi forti che servono a tenere > salde le catene del controllo. Mentre si afferma tra noi con forza il sentimento di sfiducia verso il lavoro come strumento di emancipazione e di ascesa sociale, il comando capitalista rinsalda le sue posizioni attraverso il mito del “self-made man”, sappiamo che bisogna primeggiare, emergere e che non importa a costo di chi o a costo di cosa. Chi non ce la fa si merita di perdere e di subire tutte le conseguenze della sconfitta, autocolpevolizzandosi. In fondo, non esiste niente di più simile alla logica della guerra se non questo: non ci sono amici, solo nemici da distruggere. RESISTENZE INFORMALI Dove sono finite in questo scenario le forme di organizzazione? Nonostante l’economia della promessa funzioni come blocco per impedire forme di conflitto nei luoghi dello sfruttamento, nonostante vi sia una sfiducia generalizzata nella lotta come motore capace di generare un cambiamento reale, una buona parte dell3 ragazz3 riconosce l’importanza delle strutture sindacali e sente il bisogno di migliorare le proprie condizioni (CNG, 2023). È vero che la difficoltà che si incontra oggi nell’organizzazione delle lotte del lavoro è dovuta alle sue stesse forme, spesso sommerse, frammentate e individualizzate e ai meccanismi del comando sul lavoro vivo che lo imbrigliano, ma bisogna forse tematizzare anche i limiti interni alle organizzazioni sindacali, che al di là di rare eccezioni sono incapaci di riconoscere, intercettare e organizzare tale complessità. Se guardiamo al fenomeno delle “grandi dimissioni”, negli Stati Uniti ha costruito un meccanismo virtuoso di condivisione di pratiche e regimi discorsivi. Infatti, andando oltre le forme sindacali tradizionali, si sono costituiti forum di socializzazione del malessere legato alla propria condizione lavorativa che attraverso le piattaforme digitali hanno permesso la contaminazione e la proliferazione fino ad assumere il rifiuto del lavoro come rivendicazione principale. Da noi, in Italia, ha assunto più la forma del quiet quitting ed è rimasto principalmente esperienza individuale, senza neanche l’aspirazione a costruire rivendicazioni comuni. Questo ci può far ragionare su due cose: forme di sabotaggio individuali del dominio capitalista si continuano a dare anche laddove non le vediamo esplicitamente e che bisogna costruire spazi dove queste si incontrino per favorire la contaminazione e la collettivizzazione. L’altra questione è che il salario rimane una rivendicazione centrale come strumento di riappropriazione del proprio valore, ma assumono altrettanta importanza gli aspetti qualitativi del comando sul lavoro vivo, con la conseguente manifestazione del bisogno di trovare del tempo per la socialità e per sé stessi e della necessità di costruire forme di relazionalità al di fuori delle maglie che la competizione con violenza produce. Non è un caso che, in questo quadro, in questi ultimi anni siano state agite da3 ragazz3 sempre più significative forme di esodo dal Paese e dal lavoro. L’Italia è un corpo morto, non può dare più nulla, per trovare maggiore prospettiva di crescita professionale, per avere la possibilità di lavorare in settori innovativi, per avere una formazione migliore e per essere pagat3 meglio l’opzione migliore, per chi se la può permettere, è andarsene. Per chi rimane la tragedia è ancora più grande. Lo spettro del presentismo e la crescita delle “passioni tristi” dominano le tonalità emotive della nostra generazione. Siamo di fronte a una perdita di senso; all’antropologia novecentesca non ne è subentrata, per ora, un’altra egemone. DISCIPLINAMENTO: UN PERCORSO CHE INIZIA DALLA SCUOLA La palestra in cui inizia il processo di disciplinamento dei soggetti rimane la scuola. La scuola non ha più alcun valore perché gli unici saperi che servono ora sono quelli tecnici che si possono apprendere anche attraverso corsi di formazione professionale e in generale nel privato. L’unico ruolo che le viene accordato è quello di riprodurre e fomentare la logica di una guerra culturale per la difesa dei valori dell’identità nazionale e occidentale e di abituare allo sfruttamento spersonalizzante e selvaggio, punto centrale nel programma del Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara.  Il processo di dismissione del sapere “in sé” e “per sé” realizzato scientificamente dalle riforme della scuola e del lavoro degli ultimi decenni lo conosciamo bene: la scuola non vale più niente, l3 ragazz3 devono lavorare. Si confonde, volutamente, l’educazione scolastica con la formazione alle “competenze”. Competenze cognitive, sociali, trasversali funzionali non ad accrescere i processi di capacitazione delle persone, non alla promozione e valorizzazione dei vissuti e delle esperienze di ognun3, ma all’addestramento al lavoro. In questo modo studenti vengono mandati a lavorare, senza che vi sia stato un percorso di conoscenza del mondo del lavoro e dei diritti ad esso legati, in segmenti del mercato del lavoro precarizzati, fragili, meno tutelati. Giuseppe Lenoci e Lorenzo Parelli, morti qualche anno fa, secondo la normativa vigente, erano soggetti agli adempimenti regolati dall’alternanza scuola-lavoro/PCTO, categoria ampia, diversamente nominata negli anni, che attiene alla relazione stretta tra formazione e inserimento lavorativo, tra formazione pratica e teorica, alla dualità sapere/mercato, che è divenuto elemento centrale di riflessione pedagogica, valutativa e didattica, in un processo di sistematico smantellamento della scuola pubblica, del valore del sapere e dell’ingresso sempre più prepotente delle imprese nel sistema educativo e nella programmazione formativa. L’UNIVERSITÀ DELLA GUERRA Rimanendo all’interno del processo di smantellamento del valore del sapere, anche l’università non è stata risparmiata da questa guerra. Infatti, da trent’anni a questa parte tagli e riforme ne hanno riscritto completamente la forma verso quella che possiamo definire università neoliberale. Anche il governo Meloni non è da meno e quest’anno ha messo in fila il taglio del Fondo di Finanziamento Ordinario e una proposta di riforma precarizzante sul preruolo voluta dalla ministra Bernini, che per adesso è stata ritirata. Quando diciamo università neoliberale parliamo di un’istituzione il cui controllo è diventato centrale per il capitalismo ed è stato rinsaldato attraverso un processo di privatizzazione, mercificazione e aziendalizzazione della conoscenza. Modello che risulta l’alleato perfetto del regime di guerra. Partendo dai percorsi di laurea, questi vengono classificati a secondo della spendibilità sul mercato del lavoro, ancora una volta le lauree umanistiche sono all’ultimo posto, mentre le facoltà più tecniche primeggiano. Attraverso la riduzione dei fondi e l’adozione del New Public Management le università sono indotte a cercare collaborazioni con le aziende del comparto militare (Leonardo) o energetico (Eni), indirizzando il sapere verso gli interessi di profitto e di sviluppo unidirezionale e mascherando questi programmi dietro le tecnologie dual-use, creando veri e propri percorsi di laurea ad hoc per formare futura forza lavoro per queste aziende. Nel campo della ricerca negli ultimi anni sono aumentate le borse o i contratti di ricerca finanziati direttamente dalle aziende private, con lo stesso intento. Le università concorrono, pertanto, direttamente alla costituzione del regime di guerra e svolgono un ruolo centrale per accrescere know-how e profitti per le aziende belliche. La svalutazione e il disinvestimento delle istituzioni del sapere tradizionale, la trasformazione delle università in esamifici e la mercificazione delle conoscenze nutrono almeno due fenomeni: la migrazione verso le scuole e le università private, con un forte incremento delle telematiche, che cambiano anche il volto delle città e le forme e l’accesso all’abitare, e la strutturazione di rapporti basati unicamente sulla competizione tra soggetti. DISCIPLINAMENTO DELLA VITA L3 ragazz3 del neoliberismo devono “farsi impresa” e se il neoliberismo si fa guerra devono diventare soldat3. Questo significa che non c’è spazio per relazioni mutualistiche e solidali, l’unico mantra da seguire è quello della competizione, dell’utile, del valore della nazione, violento e paternalistico al tempo stesso. Non a caso a inaugurare il mandato del nostro governo sono stati un decreto “anti-rave” e il taglio al reddito di cittadinanza. Il disegno normativo prosegue oggi con il ddl sicurezza, che viene fatto passare d’urgenza come decreto costituendo un precedente gravissimo per le nostre istituzioni democratiche. Si tratta di un piano che trasversalmente copre diversi ambiti: criminalizzazione delle occupazioni, cooperazione tra università e servizi segreti, galera per chi organizza un picchetto, colpevolizzazione dei soggetti migranti, arresto per chi blocca il traffico e, come se tutto ciò non bastasse, le forme di solidarietà, anche con i detenuti, vanno completamente bandite. Il disciplinamento della devianza fa il paio con il progetto neo-autoritario che colpisce preventivamente, attraverso la paura, qualsiasi forma di conflitto e dissenso rispondendo alla necessità del governo di mantenere saldo il dominio, senza avere un’egemonia reale, come la cosiddetta crisi politica e della rappresentanza ci dimostra. L’assenza di egemonia emerge anche sul terreno della guerra e del riarmo, verso cui nei sondaggi la netta maggioranza del Paese si posiziona contrariamente. Convertire la società a favore di un assetto maggiormente bellicista, fatto anche di misure di austerity economica e di mobilitazione simbolica, non è poi un terreno così neutro e piano. Il regime di guerra è un campo in formazione, tesse e riannoda i fili con ciò che c’era prima intensificandone gli aspetti più brutali, con l’obiettivo di portare ordine. Davanti a questo mutamento in continuo assestamento si aprono spazi di possibilità. Superare il vertenzialismo connettendo le differenze, rompere i campi degli schieramenti, riappropriarci e risignificare le pratiche di sottrazione, uscire dagli isolamenti che le forme di dominio producono non sono semplicemente slogan, ma gli orizzonti di organizzazione entro cui potremo giocare questa partita. Immagine di copertina di Marta D’Avanzo SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Essere giovani nel regime di guerra globale proviene da DINAMOpress.
Un nuovo blocco reazionario al governo del mondo
Spaesamento. Questa è la reazione emotiva e cognitiva in cui ci troviamo. Tutti i linguaggi politici, le alleanze geopolitiche, le istituzioni nazionali e internazionali a noi conosciute sembra ci stiano crollando addosso.  Ci sentiamo disorientate e sotto attacco a ogni notizia, pagina di giornale, scroll sui social, estranee al mondo che abbiamo conosciuto, compreso e in qualche modo – seppur limitato – costruito. Le coordinate di senso e le traiettorie della nostra strategia politica utilizzate fino a oggi sembrano girare a vuoto. E nell’assurdità dei tempi che viviamo, questo è valido tanto per la politica istituzionale quanto per i movimenti sociali.  Abbiamo di fronte a noi la stabilizzazione di un nuovo blocco reazionario globale. La storia della battaglia egemonica portata avanti dalle forze reazionarie globali è di lunga durata, con diversi punti di svolta, e la seconda elezione di Trump non è che l’ultimo di questi tasselli, che ha segnato, però, il punto di svolta e l’affermazione piena del blocco storico reazionario, da un punto di vista ideologico e istituzionale, sul mondo. In questo articolo proveremo, quindi, ad abbozzare una prima analisi di questa avanzata reazionaria sul mondo, a partire da una visuale specifica situata in Italia, nella periferia d’Europa, nel mondo occidentale, e che non vuole e non può essere onnicomprensiva o globale. Renato Ferrantini – No ddl sicurezza – 4 dicembre 2024 UN BLOCCO STORICO REAZIONARIO  Il blocco storico secondo Gramsci è quel momento in cui la classe dirigente riesce a guidare il popolo-massa con grande unione di intenti e sia le forze materiali che le rappresentazioni ideologiche convergono e supportano l’egemonia della classe dirigente. La classe dirigente ha quindi la capacità di imporsi non solo con la forza, ma anche riuscendo a stringere alleanze con altre classi e frazioni di classe – ad esempio come ha fatto Trump con il tecnocapitale della Silicon Valley – e costruendo un largo consenso sociale con il movimento MAGA.  > Ma il blocco storico reazionario non è limitato ai confini statunitensi, le > alleanze tra gruppi e classi (ora) dirigenti che supportano questo blocco si > sono costruite lentamente negli ultimi quindici anni, in diversi luoghi del > mondo, facendo risuonare le proprie ideologie reazionarie in diversi emisferi > e traducendole in maniera molto efficace nelle diverse latitudini. Ma > incontrando anche forti resistenze.  Questa strategia di alleanze di classe e di costruzione ideologica si è data dentro e contro il progetto egemonico neoliberale, cioè l’insieme di alleanze di classe e il sistema ideologico che ha iniziato la sua scalata nel mondo con il golpe in Cile, per consolidarsi tra gli Stati Uniti e il Regno Unito nella metà degli anni ‘70 e poi plasmando l’intero sistema globale dal crollo del muro di Berlino in poi.  Parliamo di egemonia perché questo progetto reazionario ha avuto la capacità di fondare le proprie basi prima nelle lotte culturali che in quelle economiche, costruendo delle vere e proprie macchine ideologiche molto efficaci. > La teoria gender, il politicamente corretto, il wokism, la sostituzione > etnica, il “non possiamo accoglierli tutti” sono stati alcuni dei grimaldelli > tramite i quali puntellare e fare a pezzi la razionalità (neo)liberale, il > sistema legale e dei diritti, il pensiero scientifico e l’universalismo > occidentale.  Così il progetto egemonico reazionario sta avendo la capacità di picconare le istituzioni nazionali e internazionali (neo)liberali, mentre attacca il pensiero femminista, decoloniale e queer che aveva aperto una lotta (anche molto efficace) nei confronti di questi istituzioni e razionalità. In questo modo il progetto egemonico reazionario è riuscito a imporsi sul mondo e farsi blocco storico, destrutturando le alleanze di classe che supportavano il progetto neoliberale, attaccando il suo sistema simbolico e riuscendo anche a spiazzare i movimenti più radicali nati in opposizione al neoliberalismo.    La stabilizzazione egemonica del blocco reazionario sta oggi avvenendo su tre scale geografiche contemporaneamente: locale, nazionale e globale. Assistiamo, infatti, a uno spostamento dell’asse politico verso destra ed estrema destra in tutti i paesi del mondo, anche se con specifiche nazionali e regionali, sfumature ideologiche culturalmente e storicamente determinate. Per rendersi conto delle connessioni globali di questo blocco reazionario basta ripercorrere le strategie dei movimenti antiscelta, antiabortisti e transodianti, che con finanziamenti tanto statunitensi quanto russi hanno costruito una nuova cornice simbolico-politica per fondamentalisti religiosi di varia natura, gruppi neofascisti, nuove destre, gruppi antifemmininisti e antidemocratici. Questo discorso è oggi al potere in diversi Paesi del mondo.  Le questioni di genere, insieme alla questione della razza, sono state uno dei terreni di scontro principale per la conquista dell’egemonia del blocco reazionario, e quello dove la resistenza è ancora fortissima e diffusa. > Il blocco reazionario pone al centro della sua strategia politica la famiglia > tradizionale eterossessuale e bianca, il binarismo di genere e la divisione di > genere del lavoro produttivo e riproduttivo, dentro e fuori le case, per > questo attacca direttamente l’aborto, l’esistenza delle persone trans e > qualsiasi diritto delle persone migranti.   La costruzione culturale, ideologica e simbolica del blocco reazionario si è quindi ben strutturata costruendo alleanze di classe trasversali e convincendo larghe parti delle classi popolari. Più complessa è invece la strategia di accumulazione capitalista alla quale questo blocco reazionario si lega, dato che intreccia gli interessi – spesso confliggenti – del grande capitale finanziario e industriale. In effetti guardando alle politiche economiche di questi primi due mesi di presidenza Trump è chiaro quanto l’epoca della globalizzazione neoliberista sia finita, ma allo stesso tempo non siano ancora così ben delineate le nuove linee della politica economica reazionaria.  Consideriamo tre punti di svolta per l’ascesa del blocco reazionario globale: la crisi economico-finanziaria del 2008/2011, che ha portato alla repressione violenta di tutte le rivolte democratiche nel mondo, la pandemia di Covid-19 e la guerra in Ucraina. Tutti hanno avuto risvolti tragici e collegati fra loro, fino al genocidio in Palestina che è il momento in cui la svolta reazionaria del mondo si compatta e manifesta in tutta la sua forza brutale e sanguinosa, di fronte a un’opposizione frammentata, divisa e debole.  Ato antirracista e anti-Bolsonaro MASP – 14 giugno 2020 PRIMO STEP: LA CRISI ECONOMICA  2008/2011 La crisi inizia negli USA nell’estate del 2007 quando il castello di carta costruito sulla finanziarizzazione dei mutui subprime, spacchettati, venduti e rivenduti nei mercati finanziari globali e incorniciati da triple A delle agenzie di rating, inizia a crollare. La prima banca in fallimento è Bear Stearns, segue da BNP Paribas, ma sarà la bancarotta della Lehman Brothers nel settembre del 2008 a seminare il panico. Colano a picco banche, fondi finanziari e assicurazioni e si teme per la tenuta dell’intero sistema. La crisi finanziaria è subito crisi produttiva, esplicitando le fortissime interconnessioni esistenti tra queste due sfere dell’economia, milioni di persone perdono la casa tra le due sponde dell’Atlantico e altrettante rimangono disoccupate. > Nasce e cresce una profonda paura nella classe media occidentale che intravede > il suo declassamento, impoverimento e popolarizzazione, mentre inizia a covare > uno sguardo rivolto verso il passato, uno sguardo reazionario per l’appunto, > che vuole tornare ai “bei tempi che furono” contro le élite (neo)liberali > colpevoli di aprire le frontiere e distruggere la famiglia tradizionale.  Arrivata in Europa la crisi finanziaria si trasforma in una crisi del debito pubblico e dell’euro. Nell’ottobre 2009, il Primo Ministro greco Papandreu tiene un discorso sulla reale situazione del debito greco, aprendo un nuovo capitolo dell’integrazione europea, fatta di pacchetti di salvataggio, memorandum, piani di austerità, innalzamento delle tasse per tutta la popolazione, taglio dei fondi al sistema pensionistico, sanitario e scolastico, privatizzazione dei sistemi di welfare, aumento della povertà relativa e assoluta.  Nel 2011, un secondo tonfo dei mercati e l’aumento dei prezzi di beni di consumo primari, come il pane, apre la strada alle primavere arabe, sollevazioni contro la disoccupazione, la corruzione e per la democrazia. Manifestazioni si susseguono dalla Tunisia fino all’Iraq. Quelle speranze di rompere con governi nazionali corrotti, di finirla con il dominio (post)coloniale, di trovare una soluzione alla povertà diffusa sono soffocate nel sangue, nella guerra civile in Siria, nell’intervento europeo in Libia, nella dittatura di Al-Sisi in Egitto, nell’instabilità politica dello Yemen…  Le piazze tunisine ed egiziane riverberano fino all’altra sponda del Mediterraneo, portando al 15M spagnolo, al movimento occupy statunitense e alle piazze anti-austerity greche, arrivando fino alle rivolte di Gezi Park a Istanbul nel 2013, repressa in maniera brutale.  Mentre nel mondo arabo le istanze di libertà vengono annientate dalla repressione e dalla guerra civile, in Europa, la resistenza di piazza e una soluzione progressista alla crisi viene umiliata quando il governo greco di Syriza è costretto a firmare il terzo Memorandum of understading con le istituzioni europee e il Fondo Monetario internazionale. Siamo nell’estate del 2015 e si segna un punto di non ritorno alla crisi dell’accumulazione capitalista finanziaria. > La strategia di uscita dalla crisi è nuove privatizzazioni delle > infrastrutture, del welfare, dello spazio pubblico e dei beni comuni, attuate > tramite piani statali di tagli e austerità che aprono alle nuove enclosure del > sistema pubblico.  Ed è un punto di non ritorno anche per il progetto europeo. La trazione tedesca che impone l’austerità come principio cardine della politica economica e monetaria non trova legittimità diffusa né nelle società europee, ma nemmeno tra le élite europee. L’anno seguente, nel giugno del 2016, si arriverà al voto sulla Brexit che sancirà questa spaccatura. Eppure i conservatori europei in questo periodo sono ancora convinti di poter torcere l’onda reazionaria a proprio favore, non comprendendo come tra le pieghe dei loro fallimenti stia nascendo l’alleanza tra partiti reazionari e gruppi di estrema destra xenofobi, razzisti e autoritari.  Con la crisi del 2008/2011 il regime di accumulazione capitalista finanziario vacilla e intravede i suoi limiti e si riorganizza. E mentre in Europa il tema è imporre piani di austerità, ricetta già vista e interna al paradigma neoliberale, negli Stati Uniti già si intravede la necessità della gestione autoritaria della politica economica in supporto ai mercati finanziari e all’industria, in opposizione al potere cinese uscito più che rafforzato dalla crisi.  Zaira Biagini – Manifestazione IsraeleüberAlles a Berlino – settembre 2024 LA PRIMA SVOLTA AUTORITARIA NEL MONDO  Da Piazza Tahrir al 15M spagnolo, da Gezi Park fino alla firma del Memorandum greco si chiude uno spazio di rivolta e di democrazia radicale, che per quanto frammentato, differenziato e diviso tra spazi nazionali, aveva condiviso immaginari e parole d’ordine. Ed è questo che segnerà la sconfitta dei progetti socialisti come quelli di Sanders e Corbin, fino al nuovo progetto di Costituzione in Cile e alle rivolte di Hong Kong per la democrazia. E da qui un nuovo progetto di sinistra radicale dovrebbe ripartire costruendo alleanze trasversali, un consenso popolare e un orizzonte oltre i propri confini nazionali. > La svolta autoritaria è già in corso nel mondo. Modi in India è in carica dal > maggio 2014, la Turchia elegge Erdogan come Presidente nel 2014, dopo la sua > lunga carriera di Primo Ministro dal 2003 e, sempre a inizio del 2014, Putin > invade e annette la Crimea e di lì a breve si schiererà apertamente a fianco > di Assad in Siria.  Questi tre leader in modo diverso hanno centralizzato il potere, riposto al centro della vita politica l’identità nazionale e utilizzato la religione come collante sociale, schiacciando le minoranze religiose, l’opposizione politica, e le minoranze LGBTQIA+. La strategia di Trump nelle scuole e nelle università è stata implementata da Erdogan già dieci anni fa con grande successo. Così come è stato Putin a iniziare l’attacco diretto alla comunità LGBTQIA+ con la legge nel 2013contro la “propaganda gay”, che oggi vediamo prendere forma in tutto il mondo. E Modi ha esplicitato il nuovo legame tra religione e Stato, utilizzando gruppi fondamentalisti per fomentare veri e propri pogrom contro la minoranza musulmana.  In Occidente questi sono gli anni della discussione sul populismo, i liberali fanno confluire qualsiasi corrente antisistema da sinistra a destra in un grande calderone (dai Cinque Stelle a Syriza, da Farage a Trump, ignorando la storia del populismo in Argentina e ancor prima in Russia), sperando di poter neutralizzare la torsione reazionaria e allo stesso tempo  eliminare tutte le opposizioni progressiste al progetto neoliberale.  È questo il momento, tra il 2014 e il 2015, che la guerra civile diventa la prospettiva del mondo. Da un lato, l’annessione della Crimea è l’inizio della guerra che la Russia porterà avanti nel 2022, la rivolta di piazza Maidan scoperchia tutte le contraddizioni dello spazio ex-sovietico mai veramente pacificato dopo la lunga crisi economica, la povertà e la corruzione che sono seguite al processo di spossessamento degli stati del socialismo reale, oggi divisi tra le mire geopolitiche europee, americane e russe.  Dall’altro lato, la guerra civile siriana, fa scoppiare tutti gli irrisolti della società siriana, delle primavere arabe, e del rapporto tra Occidente e paesi arabi post-coloniali, dopo trent’anni di politiche globali neoliberali fallimentari. Daesh, gli attentati di Parigi, milioni di persone in fuga verso l’Europa, la chiusura delle frontiere (se non per una breve apertura da parte della Germania), gli accordi con la Turchia, le persone abbandonate sulla rotta balcanica e sotto il mar Mediterraneo. È qui che un altro tassello del progetto egemonico reazionario si costruisce: lo scontro di civiltà, l’attacco a tutte le popolazioni migranti, l’odio razzista che si fa suprematismo bianco. > Quando i governi composti da liberali e conservatori hanno votato politiche > antimigrazione e le hanno giustificate con discorsi apertamente razzisti e > xenofobi hanno aperto la strada alle forze reazionarie e sepolto ogni progetto > (neo)liberale.  Di fronte questi avvenimenti complessi sono nate profonde fratture nel campo della sinistra che si divide in fazioni separate e opposte tra loro, spesso molto confuse, tra posizioni pro.Assad o contro Assad, pro-Putin o pro-Ucraina, posizioni che dividono il mondo in due e che già fanno propria la logica binaria della guerra.  È proprio contro questa prima ondata autoritaria, la delineazione a livello globale del progetto egemonico reazionario, e in opposizione a un progetto crudele come quello dello Stato islamico, che emerge un’ utopia concreta e una visione di pace per il mondo: il confederalismo democratico curdo che lascia intravedere la possibilità di immaginare comunità fondate sulla partecipazione femminile, l’ecologia, l’autonomia democratica, la valorizzazione della pluralità culturale e religiosa, contro ogni nazionalismo e fondamentalismo. È ancora qui che dobbiamo guardare per costruire una resistenza al blocco storico reazionario.  > Nel 2014, in Ungheria, Orban è già al suo terzo mandato ed è lui a definire > ciò che sta accadendo: «il nuovo Stato che stiamo costruendo in Ungheria è uno > stato illiberale, uno stato non–liberale», cioè uno Stato che «non rende > questa ideologia l’elemento centrale dell’organizzazione statale». È probabilmente una delle prime definizioni teoriche di ciò che sta avvenendo nel mondo: il superamento della razionalità (neo)liberale nelle istituzioni, nell’economia e nel sistema sociale. Ma è proprio contro la stabilizzazione del progetto egemonico reazionario in Est Europa, e in particolare in Polonia con le leggi antiaborto, che (ri)nasce l’altro grande movimento di opposizione al blocco reazionario: il movimento femminista. Sarà, poi, l’esplosione in Argentina e in tutta l’America latina a far irrompere sulla scena globale la potenza transfemminista, che si impone come forza di resistenza al progetto neoliberale in crisi e allo stesso tempo al progetto reazionario in ascesa.  Ed è così che si arriva nel 2016 alla prima campagna elettorale di Trump negli Stati Uniti, alla sua prima presidenza, fatta di manipolazione dell’informazione, fake news e teorie del complotto. Lo scontro tra poteri è al massimo livello. L’elezione di Trump fa da volano all’elezione di Bolsonaro in Brasile, che ben rappresenta l’alleanza con una strategia di accumulazione capitalista narco-criminale, femminicida e gore difesa dai gruppi paramilitari.   Sarà la pandemia di Covid-19 a fermare questa ascesa. Ma solo per poco. Silvia Cleri – sciopero transfemminista Roma – 8 marzo 2025 NIENTE SARÀ PIÙ COME PRIMA La pandemia di Covid-19 blocca il mondo. Soprattutto blocca le catene di produzione e di circolazione delle merci del mondo. È l’inizio della fine della globalizzazione. Proprio in questi mesi di diminuzione dei flussi, si comprende la fragilità delle catene globali di produzione e di quanto sia facile spezzarle. Probabilmente è qui che prende forma la politica dei dazi e “del riportare a casa le industrie” che vediamo applicata in queste settimane.  Il lock down e l’isolamento, passato di fronte ai social network, aiutano la diffusione dell’antivaccinismo, di posizioni antiscientifiche, di teorie del complotto anti-ambientaliste, anti-trans, anti-migranti. Complotti e cospirazioni diffuse via social sono la nuova arma ideologica del progetto egemonico reazionario sul mondo. Mentre le grandi industrie dei farmaci fanno enormi profitti senza alcuna trasparenza e senza alcun freno da parte dei governi liberali e conservatori ancora (o di nuovo) al governo. > Ma anche qui la critica alle grandi multinazionali di big pharma si ritorce su > se stessa e nel senso comune diventa un complotto delle élite liberali che > hanno costruito la pandemia a tavolino e non riesce a farsi movimento di > opposizione. Il senso di ingiustizia lascia spazio alla paura, al rancore e > all’individualismo. Milioni di persone si ritrovano senza lavoro in poche settimane, chi continua a lavorare lo fa anche pagando con la vita, la povertà dilaga. Le foto delle città vuote mostrano il paradosso della vita urbana, della sua frenesia senza limiti e di un mondo del lavoro senza alcun diritto. Mentre dentro le case aumenta a dismisura la violenza domestica e il prezzo dell’isolamento e dell’impoverimento le donne lo pagano doppio. Saranno le forze reazionarie a costruire una strategia politica a questo senso di malessere sbocciato durante la pandemia. I lockdown si allentano, poi ritornano, poi si allentano ancora, e alla fine sembra tornare tutto alla normalità. Ma oggi sappiamo, che nulla è tornato come prima. Non le nostre relazioni sociali, non le relazioni internazionali.  LA GUERRA IN UCRAINA E IL GENOCIDIO IN PALESTINA L’esercito russo supera la frontiera con l’Ucraina il 22 febbraio del 2022. Ed è qui che la guerra si fa prospettiva mondiale. Il progetto egemonico neoliberale ha provato in tutti i modi a inquadrare questo conflitto tramite la lente della democrazia contro l ‘autoritarismo, con scarsi risultati. C’è chi lo ha letto come la Russia che si difende contro l’espansionismo statunitense, ma proviamo qui a darne una nuova interpretazione, è l’avanzata del progetto egemonico reazionario, in questo caso rappresentato dalla Russia di Putin, contro il progetto egemonico neoliberale, rappresentato dai governi e delle istituzioni dell’Unione Europea insieme al governo statunitense di Biden. Non è un caso che il governo Trump voglia fare la pace con la Russia di Putin, senza troppe remore a smembrare i territori ucraini, e dividerli in zone di influenza americane e russe. Trovando un accordo tra le due sponde di uno stesso progetto egemonico sul mondo.  La guerra in Ucraina è il secondo momento di rallentamento al commercio internazionale con le sanzioni alla Russia e la guerra del gas. La globalizzazione, intesa come l’interconnessione dei mercati, è sulla via del tramonto. E con essa tutto un sistema di pensiero e di politiche globali.  > È la risposta di Israele al 7 ottobre a sancire la fine del diritto > internazionale come sistema di norme condiviso dai paesi più forti del mondo. > Il sistema delle Nazioni Unite e il diritto internazionale sono crollati pezzo > dopo pezzo sotto le bombe sugli ospedali, nei camion di aiuti umanitari in > fila di fronte a un valico chiuso, nella fine dell’acqua potabile in una > striscia di terra assediata. I bombardamenti sui civili inermi di Gaza giustificati con il diritto a difendersi di Israele da parte dei governi liberali e conservatori hanno aperto il campo alla saldatura del blocco reazionario, suggellata nella nuova elezione di Trump.  Il progetto neoliberale, costruito sui programmi – che hanno indebitato il sud del mondo – del Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione internazionale del commercio, il sistema Onu con le sue agenzie, gli accordi di libero scambio regionali, il sistema dei diritti umani, delle Ong, delle carte dei diritti, del sistema legale-razionale è finito, per quanto le sue istituzioni siano ancora in essere e probabilmente lo saranno a lungo. Un nuovo ordine mondiale sta nascendo e verrà sancito, prima di tutto, sulla vita e sulla morte di chi vive in Palestina e in Ucraina, ma un nuovo regime di guerra già si impone su stati, istituzioni e relazioni sociali. > Saranno, poi, le grandi potenze reazionarie a combattere per l’egemonia sul > mondo: la Cina, gli Stati Uniti, la Russia, l’India, insieme a potenze > regionali come la Turchia, il Brasile, il Sudafrica – e forse altre ne > emergeranno. E non lo faranno con trattative di pace.  La resistenza contro questo nuovo blocco reazionario deve quindi costruire una nuova strategia adeguata a questo momento storico, cercando di superare lo spaesamento in cui ci troviamo. Di fronte alla crudeltà, alla violenza e alla vendetta di questo forze reazionarie abbiamo, però, già dei punti per tracciare le nostre nuove coordinate: l’ostinata voglia di vivere del popolo palestinese, il muoversi indisciplinato delle persone migranti, il progetto di pace e convivenza del confederalismo democratico curdo e la potenza transfemminista.  Immagine di copertina di Paul Becker – rally anti Trump marzo 2025 SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Un nuovo blocco reazionario al governo del mondo proviene da DINAMOpress.