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ECUADOR: BOCCIATI TUTTI I REFERENDUM PROPOSTI DAL PRESIDENTE CONSERVATORE NOBOA
Il presidente dell’Ecuador, l’esponente di destra Daniel Noboa, ha riconosciuto la pesante quanto inattesa sconfitta nella consultazione refendaria da lui promossa domenica 16 novembre. Il “no” ha prevalso in tutti e quattro i quesiti, a partire dal primo, relativo alla richiesta di eliminare “il divieto di istituire basi militari o installazioni straniere per scopi militari e di cedere basi militari nazionali a forze armate o di sicurezza straniere”, con esplicito riferimento agli accordi politici tra Noboa e il suo sodale Trump, negli Usa, per la riapertura della base di La Manta, nel Pacifico, e di quella (nuova) ipotizzata nell’arcipelago delle Galapagos. In questo caso, i no hanno raggiunto il 61%, contro il 39% di sì. Il secondo quesito, il B, era relativo all’eliminazione delle “risorse del bilancio generale dello Stato alle organizzazioni politiche”, riducendo ancora di più così la partecipazione popolare. In questo caso, i no sono arrivati al 58%, contro il 42% di sì. Lievemente più combattuto – 54% di no, 46% di sì – il quesito C, che chiedeva di ridurre i parlamentari. Nettissima infine, la bocciatura arrivata sul quesito D, con cui Noboa puntava a convocare “un’Assemblea Costituente…per redigere una nuova Costituzione della Repubblica dell’Ecuador”. In questo caso, il 62% dei votanti ha respinto l’istanza, contro un 38% di favorevoli al progetto noboista di “riscrivere una Carta costituzionale con una chiara matrice neoliberista e rivolta alle privatizzazioni” scrive su Pagine Esteri Davide Matrone, docente universitario e ricercatore italiano, da Quito. Dietro lo stop a Noboa, rieletto trionfalmente come presidente solo pochi mesi fa, nell’aprile 2025, ci sono anche le contraddizioni sociali e politiche dell’Ecuador, che lo stesso Matrone identifica in particolare nel durissimo sciopero nazionale durato 30 giorni a seguito al taglio del sovvenzionamento statale alla benzina, in ossequio ai diktat dell’FMI e contestata radicalmente da sindacati, studenti e comunità native; mobilitazioni a cui esercito, polizia e governo hanno reagito con “l’uso spropositato delle armi, l’abuso di potere e la prepotenza […] la repressione e l’unilateralità di Noboa non gli hanno giovato in questa tornata elettorale”. Su Radio Onda d’Urto la corrispondenza, da Quito, con lo stesso Matrone, nostro collaboratore.  Ascolta o scarica  
Non passano i referendum in Ecuador: una sconfitta per Noboa… e per Trump
In Ecuador sono naufragati i quattro quesiti referendari che il presidente Daniel Noboa aveva proposto. Votazioni su quesiti che avevano una doppia natura reazionaria: da una parte avrebbero permesso di riscrivere le regole del gioco democratico del paese, dall’altro avrebbero aperto le porte alla presenza militare statunitense. Noboa, con la […] L'articolo Non passano i referendum in Ecuador: una sconfitta per Noboa… e per Trump su Contropiano.
BASTIONI DI ORIONE 30/10/2025 – HALLOWEEN MOSTRA IL TRIONFO DELLA NECROPOLITICA GENOCIDIARIA: LA DISUMANIZZAZIONE DELL’AVVERSARIO PASSA DAL DARFUR, TRANSITA DALLE FAVELAS CARIOCA E DALLA WAR ON DRUG E SEGUE IL TRAFFICO DI ARMI TURCHE@0
In questa puntata di Bastioni cercando di renderci conto dell’entità reale dell’orrore attorno a El-Fasher e in generale di quanto è stato prodotto negli ultimi 3 anni dalla rapacità emiratina sul territorio del Sudan, ci siamo fatti accompagnare da Matteo Palamidesse in quel deserto di umanità ai confini con il Ciad; per poi spostare la […]
BASTIONI DI ORIONE 30/10/2025 – HALLOWEEN MOSTRA IL TRIONFO DELLA NECROPOLITICA GENOCIDIARIA: LA DISUMANIZZAZIONE DELL’AVVERSARIO PASSA DAL DARFUR, TRANSITA DALLE FAVELAS CARIOCA E DALLA WAR ON DRUG E SEGUE IL TRAFFICO DI ARMI TURCHE@1
In questa puntata di Bastioni cercando di renderci conto dell’entità reale dell’orrore attorno a El-Fasher e in generale di quanto è stato prodotto negli ultimi 3 anni dalla rapacità emiratina sul territorio del Sudan, ci siamo fatti accompagnare da Matteo Palamidesse in quel deserto di umanità ai confini con il Ciad; per poi spostare la […]
Un mese di proteste, repressione di Noboa in Ecuador: ora la sfida del referendum
«L’Ecuador è un Paese bellissimo, ma purtroppo da alcuni anni è diventato pericoloso». Sono parole che ormai si ascoltano spesso, conversando con gli ecuadoriani. Non riconoscono più la propria casa. La notizia di un omicidio, che fino a qualche anno fa avrebbe fatto parlare per settimane, passa ormai in sordina. Un tempo considerato uno dei Paesi più tranquilli dell’America Latina, l’Ecuador è ora noto come uno dei luoghi con un tasso di mortalità tra i più elevati al mondo. L’attuale crisi della sicurezza ha radici profonde, tra cui la forte presenza del narcotraffico, una gestione politica discontinua e un progressivo smantellamento dello stato sociale per mano degli ultimi governi, di stampo principalmente neoliberista. FINCHÉ IL VASO NON TRABOCCA La situazione è complessa già da tempo, ma nell’ultimo mese è esplosa in seguito alla decisione del Presidente Daniel Noboa, annunciata il 12 settembre, di eliminare il sussidio statale sul gasolio, determinando un’impennata del prezzo da 1,80 a 2,80 dollari per gallone (3,78 litri). La misura, che rientra nella strategia governativa volta ad abbassare il deficit statale e a raggiungere gli obiettivi fissati dal Fondo Monetario Internazionale, colpisce duramente le fasce piú vulnerabili della popolazione. Tra queste, i campesinos e le comunità indigene che svolgono lavori principalmente agricoli e di trasporto, fortemente legati all’uso del carburante. L’intervento sul diesel è l’ultimo di una serie di episodi che ha fatto detonare il profondo malcontento popolare, dovuto alla lunga crisi in cui versa il Paese e alle politiche sempre più autoritarie e neoliberiste di Noboa. Il suo mandato, iniziato nel novembre del 2023, ha visto un aumento della militarizzazione e dell’utilizzo di pratiche lesive dei diritti umani, accompagnate, negli ultimi mesi, da una massiccia riduzione degli apparati statali con un drastico taglio alle risorse pubbliche in tema di ambiente, genere, diritti umani e cultura. di Ronald Reascos SCOPPIA IL MALCONTENTO Dopo l’annuncio sul diesel sono iniziate le proteste, soprattutto nel Nord del Paese. Il Presidente risponde da un lato promettendo la distribuzione di bonus e sussidi e, dall’altro, dichiarando un nuovo stato d’emergenza in diverse province. Il 18 settembre, Marlon Vargas, Presidente della CONAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas de Ecuador), principale organizzazione indigena del Paese e protagonista delle grandi sollevazioni popolari degli ultimi decenni, proclama uno sciopero (paro) «immediato e indefinito» in tutto il territorio nazionale. Denuncia, tra le altre cose: l’iniquità del provvedimento sul diesel, la crisi della sanità e dell’istruzione, il modello estrattivista promosso dal Governo, la mancanza di risorse e di un piano efficace per la sicurezza. Il giorno seguente, Noboa indice un referendum per l’istituzione di un’Assemblea Costituente incaricata di redigere una nuova carta costituzionale. È importante rimarcare che il Paese vanta una delle Costituzioni più avanzate al mondo in termini ambientali e di pluralismo, identificando la natura (Pachamama) come soggetto di diritto e riconoscendo i diritti collettivi delle diverse nazionalità e popoli che abitano l’Ecuador, «Stato plurinazionale e interculturale». Un quadro giuridico all’avanguardia che si scontra spesso con un’applicazione insufficiente e che è stato messo in pericolo dalle ultime decisioni del Governo, all’interno di un processo corrosivo dello stato di diritto e della separazione dei poteri. Dopo l’appello della CONAIE, a partire dal 22 settembre, diversi settori e comunità, prevalentemente indigene, iniziano a riempire le strade e a bloccare importanti vie di comunicazione, soprattutto al Nord. Mentre la protesta si propaga e si moltiplicano i focolai del dissenso, si intensifica anche il conflitto con le forze dell’ordine, inviate in massa dal Governo a sedare i disordini. Si diffondono testimonianze sull’uso spropositato della forza da parte di polizia e militari e si parla di una escalation di violenza contro i manifestanti, principalmente campesinos e indigeni. Molte persone vengono fermate, schedate e arrestate – spesso senza un giusto processo – e cresce rapidamente il numero dei feriti. di Ronald Reascos ¡SOMOS PUEBLO, NO SOMOS TERRORISTAS! Contemporaneamente all’inasprimento della repressione, si assiste a una preoccupante evoluzione nella comunicazione del Governo, che promuove la criminalizzazione del dissenso, dipingendo i manifestanti come terroristi e minacciando con pene fino a 30 anni di reclusione chi prende parte al paro. Il 28 settembre viene annunciata la prima vittima: Efraín Fuerez, comunero indigeno kichwa di 46 anni, raggiunto da proiettili militari durante gli scontri in Imbabura, come indicano varie fonti. Viene diffuso un video in cui si vedono diversi militari aggredire l’uomo esanime in terra e la persona che si era fermata a soccorrerlo. Le organizzazioni per i diritti umani e le Nazioni Unite denunciano l’uso spropositato della violenza da parte delle forze governative e sollecitano un apertura al dialogo tra le due parti. Al contrario, la violenza aumenta sempre di più. Nella notte del 27 settembre, il Presidente invia un convoglio, definito “umanitario”, verso la provincia di Imbabura. I manifestanti, in segno di dissenso, tentano di respingere il convoy, formato da 140 veicoli militari, lanciando alcune pietre. All’interno del convoglio, al fianco di Noboa, rappresentanti politici, diplomatici e della cooperazione, tra cui l’ambasciatore italiano Giovanni Davoli, che denuncia l’attacco da parte dei dimostranti, definendo il fatto come un “atto di terrorismo”, aderendo alla narrazione criminalizzante dell’esecutivo. Media indipendenti denunciano la presenza di grandi quantità di materiale militare all’interno del convoglio. di Ronald Reascos Nelle settimane successive, la situazione si fa sempre più critica: le proteste si moltiplicano in altre province del Paese e le forze dell’ordine inaspriscono la stretta sui manifestanti. Aumentano i report di violazioni dei diritti umani: repressioni violente, proiettili e lacrimogeni ad altezza d’uomo, arresti arbitrari e attacchi alla stampa e ai media indipendenti. Un caso esemplare è l’espulsione con l’accusa di «attentare alla sicurezza nazionale» del giornalista spagnolo Bernat Lautaro (Peloguefo), che stava documentando le proteste. Vengono riportati inoltre meccanismi di persecuzione e censura, procedimenti penali abusivi e il congelamento dei conti bancari a diverse organizzazioni e leader sociali. La INREDH (Fundación Regional de Asesoría en Derechos Humanos) denuncia incursioni militari all’interno di alcuni ospedali per detenere i feriti durante le manifestazioni e impedire al personale sanitario di assisterli. Il 14 ottobre viene inviato il secondo convoglio“umanitario”verso la provincia di Imbabura, con l’intento dichiarato di portare cibo, medicine e beni di necessità ai territori interessati dallo sciopero. Si genera da subito conflitto, con le forze dell’ordine che tentano di disperdere i dimostranti per riaprire le vie di comunicazione. Come denunciato da varie fonti, la giornata si trasforma in un’operazione repressiva condotta dalle forze dell’ordine. Viene uccisa la seconda vittima, Josè Alberto Guaman Izama, 30 anni, colpito al petto da un proiettile, morirà il giorno seguente. Sessanta persone vengono detenute arbitrariamente, più di cinquanta vengono ferite, anche gravemente, a causa di armi da fuoco e gas lacrimogeni. Tra queste, il giornalista Edison Muenala, colpito alla spalla da un proiettile. Il giorno stesso, perde la vita Rosa Elena Paqui, donna kichwa di 61 anni, morta per un arresto cardiorespiratorio causato dall’inalazione di gas lacrimogeno usato dalle forze militari per sedare le proteste nel sud del Paese. di Ronald Reascos IL DIALOGO IMPOSSIBILE A metà ottobre, a più di un mese dall’abolizione del sussidio al gasolio, si avvia il primo tentativo di dialogo tra alcuni dirigenti indigeni e il Governo, che però non porta a risultati concreti, in quanto gli accordi raggiunti non vengono riconosciuti dalle basi del movimento. Le organizzazioni esprimono le proprie condizioni per continuare con il dialogo: giustizia e risarcimenti per le persone detenute e ferite e per i familiari dei defunti, la fine della militarizzazione di Imbabura, un accordo sul diesel e l’annullamento del referendum di novembre. L’esecutivo oppone il suo netto rifiuto a tali richieste, sospendendo le trattative. Le due parti si scambiano accuse di indisponibilità al dialogo, mentre diversi settori della popolazione chiedono la fine dello stato di agitazione, che provoca disagio e danni all’economia del Paese. Dopo la dichiarazione del Governo di voler liberare definitivamente il territorio di Imbabura e porre fine alle proteste, il 22 ottobre Vargas annuncia la sospensione del paro, definendola una decisione difficile ma necessaria in “difesa della vita”, e invitando il movimento indigeno a continuare ad organizzare la resistenza attraverso l’assemblea permanente. Il bilancio, dopo un mese di mobilitazioni e repressione, ammonta a 3 morti e diverse centinaia di feriti e di detenuti. Nelle ore successive alla dichiarazione, alcuni settori indigeni manifestano il proprio dissenso con le dichiarazioni e la leadership di Vargas, continuando con le mobilitazioni. di Ronald Reascos OLTRE IL PARO, VERSO IL REFERENDUM Nonostante i segni di divisione all’interno del movimento indigeno, su una cosa vi è unità indiscussa: il no al referendum voluto da Noboa. Dopo più di 30 giorni di paro, la partita si è infatti spostata su un altro piano, quello della difesa della Costituzione del 2008. Il 16 novembre sarà un giorno cruciale per il futuro del popolo ecuadoriano: si voterà per la convocazione di un’assemblea costituente, incaricata, in caso di vittoria del sì, di redigere una nuova carta. Il timore delle organizzazioni indigene e delle realtà sociali e ambientali è che la revisione della Costituzione metta profondamente a rischio non solo l’immensa biodiversità e la conservazione delle risorse naturali, ma anche uno dei fondamenti dello stato ecuadoriano: la plurinazionalità e la sovranità dei popoli e nazionalità che compongono il Paese. Anche gli altri tre punti del referendum vanno a toccare questioni critiche, sulle quali vi è spesso disinformazione: la reintroduzione della presenza di basi militari straniere sul territorio nazionale; la drastica riduzione del numero di parlamentari (che potrebbe favorire il “monopolio” di un solo partito sull’Assemblea); l’abrogazione dei finanziamenti statali ai partiti politici (permettendo i soli finanziamenti privati e favorendo gli interessi di famiglie abbienti). C’è un fil rouge che connette le politiche neoliberiste che hanno sin da subito caratterizzato il Governo di Noboa, la gestione autoritaria e violenta del dissenso e la campagna mediatica criminalizzante e razzializzante verso la popolazione indigena, la prima a essere colpita dalla revisione della Costituzione. Al di là delle questioni di sicurezza interna, ciò che ora è in gioco è una radicale riscrittura del sistema politico e sociale che regge il Paese, che mette a rischio un progetto costituzionale d’avanguardia, frutto di lunghe lotte indigene e ambientaliste. Immagine di copertina e nell’articolo di Ronald Reascos, che ringraziamo per la gentile concessione. 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BASTIONI DI ORIONE 25/09/2025 – ECUADOR IN PIAZZA CONTRO NOBOA E IL TRUMPISMO IN SALSA LATINA; SUDOVEST ASIATICO IN SUBBUGLIO, RIPERCUSSIONI DELLE GUERRE SIONISTE; CINA DOPO SHANGAI COOPERATION ORGANIZATION E XI ALL’ONU CON LA CASACCA AMBIENTALISTA
Abbiamo sentito Eduardo Meneses, dopo i primi giorni di paro nacional in Ecuador che ci ha indicato priorità, lotte, situazioni diverse nel paese in lotta contro le ricette neoliberiste di Daniel Noboa e prima che gli scontri producessero i primi morti; il popolo è sceso in piazza nella Cuenca per i diritti dei contadini, ma […]
Ecuador, Noboa eletto presidente in un paese travolto dalla violenza
«Questo paese è in stato di choc collettivo. Non ha gli anticorpi per coabitare, affrontare, proteggersi dalla tremenda ondata di violenza che lo ha travolto in pochi anni»: con queste parole commentavamo la situazione in Ecuador con Carlos Beristain, medico e dottore in psicologia sociale, già consulente della Commissione per la Verità in Colombia, e sui fatti di Ayotzinapa in Messico, stretto collaboratore e giudice del Tribunale Permanente dei Popoli, incontrato a Quito poco più di un anno fa. Da pochi mesi si erano tenute le elezioni anticipate che portarono a Palazzo Carondelet un giovane tycoon di Guayaquil, Daniel Noboa, outsider asceso al potere sull’onda lunga dell’assassinio di un altro candidato, Ferdinando Villavicencio, da parte della criminalità organizzata al soldo dei narcos.   Allora la vittoria di Noboa era stata accompagnata da quella di segno diametralmente opposto della consultazione popolare per non estrarre petrolio dalle viscere del Parco Yasuni e per impedire l’estrazione mineraria nelle foreste del Chocó Andino, nel distretto metropolitano di Quito. Era come se si fossero materializzati due paesi, distinti, politicamente ed ontologicamente. La candidata della Revolución Ciudadana Luisa Gonzales perse al ballottaggio, e per l’ennesima volta il partito fondato dall’ex-Presidente Rafael Correa in esilio in Belgio non riuscì a tornare a Palazzo. Da allora, la situazione nel paese è andata peggiorando nonostante le boutade di Noboa, che dichiarò nel gennaio dello scorso anno lo stato di conflitto armato interno, dispiegando i militari nelle strade e piazze del paese e annunciando la costruzione di due supercarceri, tentando di emulare Bukele, anche se grazie alla resistenza dal basso dovette abbandonare almeno uno dei due progetti in Amazzonia. Venne anche annunciato un non meglio definito piano Fenix per la sicurezza interna che non ha sortito effetti di rilievo. A riprova di ciò il fatto che il numero di morti uccisi per mano criminale o dello Stato da allora è aumentato esponenzialmente. Nel solo febbraio del 2025 il numero di morti è salito a 736 con un incremento del 90% rispetto all’anno precedente (1.1 morti ammazzati ogni ora). Per contro si è registrata una pausa – seppur temporanea – nelle rivolte carcerarie, sanguinose e spietate, scoppiate per il controllo del territorio da parte di gang contrapposte di narcotrafficanti.   LA VIOLENZA TRAVOLGE IL PAESE Lo scontro tra bande ormai è alla luce del sole come dimostrano alcuni drammatici fatti di sangue, stragi tra bande rivali, quelle dei Los Lobos e dei Tiguerones, l’ultima delle quali la scorsa settimana, in un ring di combattimento di galli presso Santo Domingo dos Tsachilas nella quale hanno perso la vita 11 persone. La popolarità di Noboa era in caduta libera anche a fronte della manifesta incapacità di gestire la cosa pubblica, in mano a un governo di parvenus, provenienti dalla stretta cerchia di amicizie di questo rampollo figlio del ricco bananiere Álvaro Noboa, da una vita aspirante presidente del paese. > Il paese ha vissuto mesi di apagones, interruzioni continue e quotidiane > dell’erogazione di energia elettrica dovute alla assenza di piogge e scarsa > manutenzione delle grandi dighe che producono la maggior parte dell’energia, > con grande impatto sull’economia e che avevano portato gli ecuadoriani e le > ecuadoriane sull’orlo della disperazione collettiva. E poi la rottura delle relazioni diplomatiche con il Messico, importante partner commerciale, a seguito dell’attacco da parte di esercito e polizia all’ambasciata, dove si era rifugiato l’ex-vicepresidente correista Jorge Glas, accusato e condannato per corruzione. Un gesto che avrebbe messo Noboa ai margini delle relazioni diplomatiche continentali.   E come se ciò non fosse stato abbastanza, nei giorni scorsi il governo ha dichiarato di elevare il livello di sicurezza a causa di supposte minacce alla vita del presidente e di terrorismo, per mano di sicari provenienti dal Messico. Denunce seccamente smentite da Città del Messico. Così la violenza continua, sempre più efferata, sofferta silenziosamente da un popolo che ha perso l’innocenza, stretto tra la ferocia delle gang di narcos, e la violenza di stato, facile preda di istituzioni che non hanno alcuna considerazione della cultura e della pratica dei diritti umani. Quel che si temeva all’indomani della dichiarazione di conflitto armato interno, decisa da Noboa dopo un attacco da parte di giovani pistoleros a una stazione TV nel gennaio dello scorso anno, fatto mai chiarito in realtà, si è tragicamente verificato. Ph David C. S. Come nella Colombia di Uribe, si sono verificati casi di falsos positivos, chiunque portasse un tatuaggio o avesse la pelle scura diventava un obiettivo della polizia e delle forze armate. Uno dei tanti casi, quello senz’altro più efferato, l’esecuzione sommaria di quattro ragazzini afrodiscendenti (i quattro di Malvinas) presi per strada a caso da militari alla vigilia di Natale, uccisi e bruciati. Dalle istituzioni di governo reazioni ciniche, dal presidente solo l’annuncio ad effetto della loro nomina ad “eroi nazionali” mentre gli apparati dello stato tentavano invano di nascondere le responsabilità di militari e polizia. Nessun gesto invece da parte sua nel caso del massiccio sversamento petrolifero con conseguente disastro ecologico o in occasione delle alluvioni che hanno colpito duramente la provincia di Esmeraldas. Ciononostante, Noboa è entrato nell’immaginario, giovane millennial, con moglie di origine italiana, Lavinia Valbonesi, le sue sagome di cartone a grandezza naturale ovunque nel paese, nelle case, nei negozi. Un popolo in preda allo sbandamento, stordito, di un paese paralizzato fin dai tempi del COVID, diventa così terreno fertile per forme nuove di populismo. La sagoma di cartone è il presidente giovane, il nuovo che ti porti a casa, a tavola, il presidente che hai davanti ogni giorno. Non c’è bisogno di base sociale organizzata, ognuno ha un rapporto diretto, personale, quotidiano, con chi elegge. > Ed è proprio questo il primo fattore da tenere a mente: la violenza, la > criminalità, il disprezzo della vita umana, si sono trasformati in attore > politico, presenza inquietante e costante che determina seppur per default il > comune sentire, i bisogni indotti o effettivi del popolo, le sue aspirazioni o > necessità. Dove la parola svuotata di significato prende il posto della realtà dei fatti, al punto che il movimento-piattaforma elettorale di Noboa, ADN (Movimiento Acción Democrática Nacional) si professa “socialdemocratico” (sic!). Dove Tik-Tok prende il posto delle piazze e la disinformazione e le fake news dilagano, e le reazioni impulsive prendono il sopravvento su ogni pensiero critico.   DAL PRIMO TURNO AL BALLOTTAGGIO Si arriva così alle elezioni del febbraio scorso, con i sondaggi che davano un testa a testa tra Noboa e Luisa González, dati poi confermati dalle urne. I due così passano al ballottaggio in una situazione di empate técnico, di fatto un pareggio con un distacco a vantaggio del primo di poche decine di migliaia di voti. Finalmente il correismo pareva fosse riuscito a rompere il tetto del 30% al quale era rimasto confinato negli ultimi anni, sperando nella rimonta al ballottaggio. Gli altri partiti di destra e sinistra registravano percentuali dall’1 allo zero virgola per cento a parte la candidata Andrea González (del partito di Ferdinando Villavicencio e che avrebbe poi espresso sostegno a Noboa) e Pachakutik , il partito di riferimento della CONAIE, la Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador, forse uno dei movimenti sociali più solidi e longevi del continente, da sempre importante “player” nella vita politica del paese. Il candidato e presidente della CONAIE Leonidas Iza, leader indigeno della provincia del Cotopaxi, e di ispirazione marxista mariateguista, aveva conseguito il 5% dei voti totali, un pacchetto di 500mila voti di tutto rispetto, che ne avrebbe fatto ipoteticamente l’ago della bilancia tra i due candidati al ballottaggio. Quel pacchetto di voti non poteva comunque considerarsi di fatto in transito verso il sostegno a Luisa González, troppo difficile dimenticare la repressione contro i movimenti indigeni, sociali e ecologisti scatenata dall’allora presidente Rafael Correa, che li vedeva come ostacoli per l’espansione della frontiera estrattivista. > Ha avuto di fatto vita facile Noboa, nell’imporre la sua presenza e la sua > figura nella campagna verso il ballottaggio, puntando soprattutto su un > elettorato “over-65” in un contesto dove i principali media sono allineati, e > dove il presidente, con cospicui fondi a disposizione e violando apertamente > la Costituzione non ha lasciato il suo incarico alla vice per fare campagna > elettorale. Così ogni mossa a effetto fatta in campagna elettorale nella sua veste del Noboa presidente si sovrapponeva alla presenza pervasiva del Noboa candidato. La mossa di andare, a pagamento ma non invitato, alla cerimonia di insediamento di Trump e di nuovo a pagamento a un incontro alla Casa Bianca. La mossa di invitare al suo cospetto come consulente per la sicurezza il fondatore dell’impresa militare privata Black Water, Erik Prince, era da presidente ma anche da candidato. Eppoi il negoziato per concedere alle forze armate statunitensi due basi militari una alle Galapagos, l’altra a Manta, chiusa a suo tempo da Rafael Correa. Ogni dichiarazione da presidente aveva ampio spazio sulla stampa e l’elettore e l’elettrice non potevano più distinguere il presidente dal candidato. Questa e altre manovre hanno contribuito a porre Noboa su quello che gli analisti chiamano “piano inclinato” che avrebbe poi fatto la differenza al ballottaggio, più che una possibile ma non ancora verificabile frode, assieme ad altre mosse quali l’elargizione di buoni per le famiglie più povere, o meglio impoverite, o la distribuzione di magliette di colore viola (quello della sua campagna elettorale) ai pubblici funzionari. O l’uso di fondi pubblici con l’avallo da parte delle istituzioni competenti ad assicurare il rispetto delle regole elettorali. Da wikimedia Dall’altra parte, la candidata della Revolución Ciudadana continuava a rivendicare le grandi conquiste del passato, inanellando una serie di gaffes quali quella di prospettare, per bocca di alcuni esponenti di spicco del partito, la de-dollarizzazione del paese, proponendo la costituzione di brigate popolari che nell’immaginario collettivo evocavano i guardianes barriales chavisti, o dichiarando di voler espellere tutti i migranti venezuelani dal paese. > La mossa più significativa e controproducente di Luisa González è stata però > quella di firmare, da fervente evangelica, un documento promosso da > organizzazioni di estrema destra religiosa contro il “gender”, i diritti > LGBQT, e l’aborto. Del resto anche Rafael Correa da presidente aveva alzato le barricate contro una legge sull’aborto per stupro. Documento firmato anche da Daniel Noboa che nei mesi precedenti si era prodigato in una campagna senza esclusione di colpi contro la sua vice eletta Veronica Abad, fin da subito “bullizzata”, inviata senza scrupoli fuori dal paese in assoluto disprezzo per la legge e la costituzione. Che differenza ci sarebbe stata quindi tra i due, sul tema del patriarcato?  E questo vale anche per altre questioni quali il contrasto all’estrattivismo, con il primo che firma un accordo di libero scambio con il Canada per agevolare gli investimenti nel settore minerario, tenta di concludere in accordo con i cinesi per la più grande concessione petrolifera della storia, nel campo Sacha (poi fallita per l’opposizione dell’Assemblea Nazionale), e che mette ogni ostacolo possibile all’attuazione del mandato popolare su Yasuni e il Chocó Andino, e la candidata correista che incarna un passato del tutto simile? O sulla sicurezza quando a prescindere da quanto dicesse  riguardo alla necessità di affrontare le cause sociali che sono alla base della violenza, la candidata correista non esitava rincorrere Noboa sullo stesso piano arrivando a proporre a un ex-candidato presidenziale di destra ed ex-mercenario, Ian Topic, la poltrona di ministro degli interni mentre l’altro flirtava con l’altro mercenario Prince? > A nulla è valso anche l’accordo tra “sinistre” cotto prima della prima tornata > elettorale e mangiato a ridosso della seconda, dove si fissavano alcuni punti > programmatici sui quali Luisa si sarebbe poi impegnata, almeno in teoria, in > cambio dell’endorsement alle presidenziali. Endorsement poi arrivato dal Partito Socialista, e da Pachakutik, financo dai leader del movimento Yasunidos nonostante i pregressi con il correismo che li perseguitò cercando di annullare in ogni modo le firme raccolte per il referendum. Del movimento indigeno parleremo a breve, per ora basta sottolineare come gli ecuadoriani e le ecuadoriane abbiano seguito con un certo distacco le campagne elettorali dei due, ma sottotraccia l’elemento psicologico, quello della paura faceva il suo lavoro. Paura della violenza da una parte, paura del ritorno di Correa dall’altra, e il presidente che mostra il muso duro, dichiara di nuovo lo stato di emergenza prima dell’apertura delle urne e invoca l’Ecuador del domani. Il domani, via di fuga in avanti, il nuovo che avanza, messaggio efficace di deresponsabilizzazione del qui e ora. Noboa. Ph da Flickr NOBOA E LA “UR-POLITIK” Così milioni di ecuadoriani ed ecuadoriane incuranti della gestione disastrosa di Noboa, del suo distacco emotivo dal comune sentire, della sua estrazione profondamente oligarchica, del suo messaggio autoritario e conservatore –  altro che il nuovo che avanza, il paese del futuro –  si portano a casa la sua sagoma di cartone. Lo emulano, addirittura. Per le strade si vedono sempre più giovani con la sua pettinatura, la sua polo a maniche corte, i suoi occhialoni neri, il suo ghigno sprezzante. Salta ogni canale di analisi politica, l’ideologia della guerra e dello stato di eccezione permanente conducono inesorabilmente verso quella che potrebbe essere definita con un neologismo tedesco la “Ur-Politik”, politica allo stato primordiale, dove chi governa può farlo in assoluto sprezzo delle regole, dove la parola e la declamazione prendono il posto della realtà, dove vite incarnate che soffrono sulla loro pelle gli effetti devastanti della privatizzazione e del liberismo selvaggio alla fine scelgono di sostenere il loro carnefice.   Fece grande effetto qualche settimana fa un appello disperato di migliaia di malati di insufficienza renale che da un giorno all’alto stavano rischiando di morire per la mancanza di accesso agli strumenti per la dialisi. Ignorati dai loro governanti. E subito dopo l’annuncio della vittoria di Noboa, un video di una donna di una periferia diseredata del paese che ballava in estasi con la sagoma di cartone di Noboa, rotolandosi felice tra le acque di una strada inondata dall’ennesima alluvione. > Ecco quindi la “Ur-politik” che assieme alla paura, alla sua costruzione > scientifica, all’irrazionale, all’immedesimazione con la figura del capo, e > quel “piano inclinato” che più di una frode elettorale tutta ancora da > dimostrare, avrebbe fatto la differenza, determinando un risultato > assolutamente inatteso. Chiuse le urne, i numeri fin da subito parlavano di una vittoria schiacciante di Noboa che da poche decine di migliaia di voti di differenza passava a oltre 1 milione e 100mila. Mentre Luisa, pur tenendo la posizione nelle province a lei vicine nella costa e riconquistando il Guayas, non riusciva ad andare oltre il 44% della prima tornata. Importante poi il voto dei migranti da sempre bacino di consenso del correismo e ora nettamente a favore di Noboa. La prima reazione di Luisa González e di Correa è stata quella di denunciare una megafrode elettorale, smentiti però da alti dirigenti del partito, tra cui il sindaco di Quito Pabel Muñoz e quello di Guayaquil, ambedue sotto attacco e che vedono i loro incarichi a rischio, uno per una imminente raccolta di firme per la sua rimozione, l’altro per una denuncia per supposta corruzione, situazione ormai ricorrente nelle strategie di lawfare contro i rappresentanti correisti. Ed eccoci ora a cercare di sondare quanto accaduto con il pacchetto di 500mila voti di Leonidas Iza. Quando si stava prospettando la possibilità di un endorsement di Iza e di Pachakutik a Luisa González si aprirono immediatamente le prime crepe. Da una parte chi nelle comunità indigene prospettava il voto nullo, («tanto per noi da sempre la lotta è sempre la stessa a prescindere dai governi», era il mantra) e chi tra cui alcuni ex-dirigenti storici si dichiararono esplicitamente a favore di Noboa in chiave decisamente anti-correista. Così per salvare l’unità interna della CONAIE, Iza decise di non apparire formalmente accanto a Luisa González, mentre il partito di riferimento Pachakutik sì. Aperte le urne, si capì che la base indigena non ha seguito in massa le scelte del partito di riferimento, e l’endorsement non avrebbe fatto grande differenza per l‘esito finale. E per Luisa González a nulla è servito firmare l’appello antiabortista per cercare di attrarre il voto delle donne indigene. Da wikimedia QUALE SCENARIO PER LE OPPOSIZIONI? Cosa accadrà ora, quali le sfide nell’immediato per le opposizioni? Per il correismo senz’altro una necessaria e ormai improrogabile autocritica e la necessità impellente di sganciarsi dalla presenza ingombrante e controproducente del suo padre fondatore che da Bruxelles continua a dettare le condizioni, con risultati evidentemente fallimentari. Il dilemma è quello tra emancipazione dal “padre-padrone”, o implodere. Ci vorrà certamente un certosino di ricucitura con movimenti sociali ed ecologisti, indigeni, transfemministi e sindacali, possibile solo con una presa d’atto degli errori passati.   > Per Pachakutik l’urgenza di capire come la ridotta presenza parlamentare e il > lavoro nei territori possano ridare rappresentanza a chi non ha dato fiducia > alle scelte della dirigenza. Per la CONAIE, uscita malconcia da questa contesa elettorale e per il suo presidente Iza il cui mandato è comunque in scadenza (il congresso della CONAIE si celebrerà a fine anno), l’urgenza di rinserrare le fila, per potersi proporre come il pilastro imprescindibile per la riorganizzazione del conflitto e della resistenza. Che passerà attraverso due assi, quello della difesa della Costituzione, alla luce dell’annunciata intenzione di Noboa di lanciare una nuova Costituente (proposta paradossalmente fatta propria anche da Luisa González, visto che quella costituzione rappresenta la cornice legale e ideale della Revolución Ciudadana), e quello di sostenere la resistenza all’avanzata della frontiera estrattivista, mineraria e petrolifera nei territori. Questione che si preannuncia di immediata urgenza anche in vista di nuovi accordi che il neoeletto presidente dovrà stringere con il Fondo Monetario Internazionale a fronte di un calo del prezzo del petrolio, del crollo della produzione di circa 200mila barili al giorno e dell’imminente pagamento di una mega-multa di due miliardi di dollari per una causa persa contro la Chevron-Texaco. > Intanto il paese si avvia ad almeno 4 anni di governo di una destra coloniale, > liberista e oligarchica, uscendo forse definitivamente dalla logica > correismo-anticorreismo che ha permeato anche quest’ultima elezione, ma che > d’ora in poi cederà il passo a una nuova inedita fase nella storia del piccolo > paese andino, il “noboismo”. Che per affermarsi definitivamente dovrà scardinare la cornice di riferimento dell’Ecuador di ieri, la Costituzione di Montecristi, ostacolo alla privatizzazione e alla svendita del paese alle oligarchie e ai capitali internazionali, e baluardo della difesa dei diritti della natura, dei popoli indigeni, della giustizia sociale, del diritto sacrosanto alla resistenza. Non è un caso che subito dopo la vittoria di Noboa il rischio-paese sia calato di ben 500 punti e il mondo della finanza e dell’imprenditoria si sia affrettato a congratularsi con un presidente che garantirà loro la mano dura contro il conflitto sociale e condizioni agevolate per massimizzare il ritorno sui loro investimenti, o per espandere le loro attività di sfruttamento delle risorse naturali. Intanto compaiono nuove sagome di cartone nelle finestre, quelle di un Noboa non più candidato, ma Presidente con tanto di fascia con i colori della bandiera. Immagine di copertina di Presidencia Ecuador da Flickr SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Ecuador, Noboa eletto presidente in un paese travolto dalla violenza proviene da DINAMOpress.