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Humanity 1 trattenuta a Ortona: l’ennesimo fermo contro il soccorso civile
Dopo lo sbarco di 85 persone, tra cui vari minori non accompagnati, avvenuto lunedì 1° dicembre, la nave di soccorso Humanity 1, dell’organizzazione SOS Humanity, è stata nuovamente trattenuta dalle autorità italiane. Il fermo provvisorio è scattato martedì 2 dicembre 2025 nel porto abruzzese, con l’accusa di non aver comunicato con il Centro di coordinamento libico, in base agli obblighi imposti dalla legge Piantedosi. L’ordine è stato firmato da Ministero dell’Interno, Guardia di Finanza e Ministero dei Trasporti, e resterà in vigore finché la Prefettura non avrà concluso l’indagine. Il fermo si basa sull’ipotesi di violazione della legge Piantedosi per non aver contattato il centro di coordinamento libico. Ma SOS Humanity respinge le accuse, spiegando che la mancata comunicazione è una scelta legittima, coerente con il diritto internazionale e condivisa da tutte le organizzazioni della Justice Fleet Alliance. Approfondimenti/In mare JUSTICE FLEET ALLIANCE: LE ONG DEL MEDITERRANEO INTERROMPONO I CONTATTI CON TRIPOLI «Non è solo moralmente giusto, ma anche giuridicamente necessario» Giulia Stella Ingallina 17 Novembre 2025 «Questo fermo provvisorio è incompatibile con il diritto internazionale» afferma Marie Michel, esperta politica di SOS Humanity. «La cosiddetta Guardia Costiera libica è responsabile di gravi violazioni dei diritti umani. Rifiutarsi di comunicare con attori coinvolti in questi crimini è l’unico modo per difendere il diritto marittimo e i diritti umani». E aggiunge: «Mentre questi attori continuano a essere sostenuti dall’Unione Europea, le navi che salvano vite vengono bloccate. La capacità di soccorso diminuisce e le morti in mare aumentano». La Humanity 1 è solo l’ultima di una lunga serie di navi della flotta di soccorso civile colpite da fermi amministrativi e procedure punitive. Un provvedimento del tutto illegittimo, come del resto hanno ribadito più volte le sentenze dei tribunali italiani ma che Piantedosi continua a non leggere, che blocca ancora una volta una nave umanitaria (è il terzo fermo subito da Humanity 1), e che arriva al termine di una missione complessa, segnata da condizioni meteo avverse, operazioni di salvataggio ravvicinate e un trasferimento prolungato verso un porto assegnato a oltre 1.300 chilometri di distanza. Ph: Sofia Bifulco – SOS Humanity LA RICOSTRUZIONE DELLA MISSIONE E DEI SOCCORSI1 Il 19 novembre la nave Humanity lascia Siracusa e raggiunge l’area SAR. Il 24 novembre il primo soccorso: 75 persone in pericolo. La segnalazione arriva da Alarm Phone: una barca di legno sovraccarica e senza motore, nella zona SAR tunisina. Le condizioni sono critiche: disidratazione, ipotermia, maltempo e mare grosso. Tutte le 75 persone vengono soccorse e, poche ore dopo, trasferite su una motovedetta della Guardia Costiera italiana e condotte a Lampedusa, permettendo alla Humanity 1 di rimettersi subito in navigazione verso nuove possibili emergenze. Il 24 novembre il secondo soccorso: 85 naufraghi in area SAR libica. A circa 100 km dalla costa libica, l’equipaggio individua una barca blu alla deriva, con tre motori spenti e oltre 80 persone a bordo. Le comunicazioni con MRCC Roma, JRCC Malta e il centro tedesco MRCC Bremen iniziano subito. Tra le 09:14 e le 11:15, si alternano valutazioni, soccorsi con le RHIB, distribuzione di giubbotti di salvataggio e mail ufficiali ai centri SAR. Alle 10:49, tutti gli 85 naufraghi sono al sicuro a bordo della Humanity 1. Alle 10:59, la nave comunica formalmente che non può coordinarsi con il MRCC libico, né trasferire i sopravvissuti in Libia, poiché non costituisce un porto sicuro, come stabilito dal diritto internazionale e ribadito dal Tribunale di Catanzaro. Il 1° dicembre l’arrivo a Ortona: dopo quasi una settimana in mare, attraversando il Golfo di Taranto per evitare il maltempo, le 85 persone sfiancate dal viaggio vengono finalmente sbarcate nel porto di Ortona. Ph: Marcel Beloqui Evardone – Alcuni scatti dall’operazione SAR di SOS Humanity «Una traversata inutile e pericolosa». Il maltempo e la distanza del porto assegnato hanno determinato un lungo e rischioso trasferimento che ha aggravato le condizioni fisiche e psicologiche delle persone soccorse. «Questa lunga traversata è stata inutile e pericolosa per la salute fisica e mentale delle persone che abbiamo avuto a bordo» ha denunciato Stefania, responsabile della protezione sanitaria. «Abbiamo registrato casi di scabbia, infezioni respiratorie, febbre alta, dolori muscolari, malattie parassitarie. Alcune persone erano sotto antibiotici. Molti ci hanno raccontato torture subite in Libia». SOS Humanity aveva chiesto più volte l’assegnazione di un porto vicino, ma MRCC Roma ha respinto ogni richiesta. «Il diritto internazionale prescrive lo sbarco senza indugio» ha ricordato Sofia Bifulco, coordinatrice della comunicazione. «Davanti a noi c’erano porti raggiungibili in poche ore. Invece sono state esposte persone vulnerabili a quasi una settimana di transito inutile». 1. Leggi la ricostruzione completa di Sos Humanity ↩︎
Riflessione sul patto di fiducia tra Stato e cittadini, a partire da una triste sentenza
Pubblichiamo di seguito la riflessione che la giurista Rosanna Pierleoni ha scritto per Pressenza Italia come commento alla vicenda della famiglia anglo-australiana che vive nel bosco in Abruzzo. Un riflessione intrisa di umanesimo che fornisce un parere critico ed esplicativo da parte di una persona competente in materia. Di pochi giorni fa l’ordinanza del Tribunale per i minorenni dell’Aquila che sta portando sul fronte popolare tanto malcontento e che sta avviando, forse per la prima volta, una dolorosa ma inevitabile riflessione sull’articolato sistema che regola la sottrazione di minori nel nostro Paese. Credo sia importante lasciare che questo tema abbia dignità di tema pubblico, perché si tratta di prassi che toccano il rapporto di potere tra Stato e cittadini, e delineano i confini della potestà sui minori: magistratura e assistenti sociali da un lato, le famiglie dall’altro. È altresì importante, a mio avviso, che il tema venga trattato nel rispetto delle parti, delle visioni, e della immane sofferenza dei bambini e delle famiglie coinvolte, che sono all’incirca 35.000 ogni anno, cifre in aumento ogni anno. Il discorso nasce con quella che viene definita a livello mediatico “la famiglia nel bosco”, una famiglia che ha scelto di vivere nella casa di proprietà, nel verde, a 10 km dal centro abitato a Palmoli, in Abruzzo, e di garantirsi sostentamento in modo autonomo. La miccia che ha innescato un discorso controverso e appassionato nel nostro Paese, forse perché ogni rimosso cerca prima o poi l’espediente per uscire fuori. E questa è una ferita del nostro apparato giuridico e democratico troppo grave perché noi si possa continuare a tenerla nascosta o quale unico appannaggio di qualche associazione e qualche – poco partecipata – manifestazione dei parenti dei bambini. È giunto il momento che società civile e istituzioni si facciano carico di questo peso e diano qualche risposta concreta. Alle tante critiche mosse a coloro che prendono le parti della famiglia ricordo che il buon cittadino è colui che si impegna, si interessa alle cose della 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑠, chiede conto, perché tirerà fuori la parte migliore di chi lo governa, che è un uomo come noi e – in quanto tale – è soggetto ai richiami più limpidi e a quelli più oscuri della mente. Un atteggiamento servile, pigro, fanatico, stimolerà sempre il volto peggiore del potere. Dunque, a mio avviso, non bisogna temere di esprimere il proprio giudizio. Inoltre, è verissimo che gli organi di magistratura devono essere liberi nel loro operato, ma allo stesso tempo il nostro sistema tollera molto bene la critica pubblica, no? Facciamone buon uso, senza mai trascendere in comportamenti violenti e persecutori verso i singoli. I fatti: la famiglia ha uno stile di vita che si discosta dalla media per una scelta personale, coerente e ragionata, nonché condivisa dai due genitori. Ha elettricità tramite fotovoltaico, usa la rete per videochiamare i parenti e per lavoro o per guardare qualche documentario, ha il riscaldamento tramite camino e stufa termica (essendo soli 40 mq c’è una temperatura media molto alta in inverno, sui 21/22 gradi), ha un bagno a secco esterno, ha una casa che a detta dei giornalisti con cui ho parlato personalmente e dei vicini è dignitosa e ben tenuta. I bambini conoscono due lingue e hanno molte competenze pratiche, dal cucito, alla cura dell’orto, dal riuso di materiali, alla costruzione di piccoli oggetti; consumano cibo dell’orto autoprodotto e altro cibo reperito una volta a settimana in città. I bambini sono abituati a partecipare attivamente al benessere e alle incombenze familiari. Fanno equitazione con il cavallo di famiglia, sotto la guida della madre che è istruttrice di equitazione. Hanno rapporti quotidiani con altri animali. Sono curati da medici di fiducia; sono sani. Sono seguiti con istruzione domiciliare. Intrattengono relazioni costanti con persone del vicinato, adulti e bambini. Vanno in biblioteca spesso. Viene loro letta una fiaba ogni sera nel letto. Nel provvedimento si parla – solo in riferimento alla bimba di 8 anni, dacché i gemelli ne hanno ancora sei – di un ritardo nel far pervenire alla scuola statale l’attestazione dell’istruzione impartita: una falla burocratica dunque, rientrata presto. Tutto qua. Secondo il Ministero dell’Istruzione e del Merito, risulta regolarmente espletato l’obbligo scolastico (ANSA, 24 novembre 2025). Interroga come una faccenda risolvibile con poco approfondimento sia stata inserita quale motivazione nell’ordinanza di allontanamento. Si parla poi di condizioni abitative non idonee in quanto l’abitazione non avrebbe i requisiti di agibilità e non rispetterebbe la normativa antisismica. Anche se la documentazione del geometra e dell’ingegnere che attestano l’assenza di lesioni strutturali non fosse considerata valida, questa mi sembra una motivazione non sufficiente se prendiamo in esame le condizioni edilizie e antisismiche di oltre metà degli istituti scolastici italiani (con bambini rimasti seppelliti sotto le macerie mentre erano tra i banchi di scuola), ma anche di alloggi per gli studenti universitari, case popolari, case private abusive, soluzioni abitative precarie assegnate dopo calamità varie. Basti poi pensare agli scandali legati agli abusi o a mancate regolarità di tipo edilizio da cui sono scaturiti danno e morte, come ad esempio nel famoso caso di Rigopiano o della Casa dello Studente a L’Aquila, solo per restare in Abruzzo. Affinché i cittadini non vivano questa motivazione come faziosa e la sentenza in modo persecutorio è importante limare il divario tra quanto si esige dai cittadini e quanto le istituzioni fanno a loro volta. Nella sentenza si propone poi una dottrina pedagogica secondo cui i bambini versavano in condizioni di isolamento e su come questo li avrebbe esposti tra qualche anno a rischi relazionali seri, facendo loro maturare condotte aggressive, tra cui il bullismo. Si fa coincidere il bisogno di socialità unicamente con la frequenza scolastica, nonostante il nostro ordinamento preveda l’istruzione parentale, considerandola dunque adeguata. Inoltre si prendono in esame non dei danni certi e attuali, ma dei danni prevedibili e futuri. Si ipotizza, rendendo questa ipotesi una certezza, che questi bambini matureranno condotte aggressive. Nella mia esperienza come mediatrice familiare nelle scuole ho potuto vedere come i casi di bullismo siano in continua crescita. Dobbiamo dunque considerare che il modello educativo dominante, condiviso dalla maggior parte degli italiani, non sia molto migliore in tal senso. Sottrarremo allora i bambini anche a tutti quei nuclei familiari che hanno ragazzi con problemi di bullismo, e a tutti coloro i cui figli trascorrono molte ore chiusi in casa davanti a internet? Ricordiamo che la sindrome da ritiro sociale “hikikomori” è in continuo aumento nella nostra società. Se questo non accade dobbiamo ritenere che la dottrina pedagogica a fondamento dell’ordinanza sia ideologicamente orientata: essa ritiene un sistema educativo idoneo, anche se causa ritiro sociale e violenza, e l’altro non idoneo, nonostante non ci siano prove attuali che dimostrino la sua idoneità a creare simili condotte. Ma anche se questo rischio di socialità ridotta fosse reale, non si può in alcun modo immaginare di intervenire allontanando forzatamente il minore dal proprio nucleo familiare, impedendo il rapporto con il padre e una relazione normale e libera con la madre, che ricordiamo si trova nella medesima struttura impossibilitata a vederli liberamente: quella con i genitori è la relazione primaria per sperimentare l’alterità. In alcun modo la frequentazione dei propri pari può essere considerata in alternativa al rapporto con i genitori, da cui i figli, soprattutto nei primi anni di vita, traggono sicurezza, protezione, senso di appartenenza, riconoscimento. Nella sentenza si parla poi di come questi bambini abbiano un ritardo rispetto ai bambini della loro età. Viene introdotto un concetto di “metro”: qual è insomma il metro di questo paragone se noi abbiamo bambini, e persino adulti, che non conoscono affatto la propria lingua, che sono abituati a ripetere slogan anziché chiedersi il perché delle cose, che hanno perso ogni forma di sapere, mestiere, conoscenza, sia di tipo letterario artistico che di tipo manuale? L’ordinanza spiega anche che la decisione sia maturata perché la famiglia avrebbe danneggiato i bambini esponendoli a livello mediatico nel programma “Le Iene”. Si fa qui riferimento a delle normative internazionali che prevedono la tutela della privacy. Stupisce un uso così improprio delle fonti indicate: queste norme tutelano da violazioni della privacy compiute da terzi che siano in conflitto di interessi con gli interessati. Vi si potrebbe ricorrere, quindi, per proteggere e risarcire la famiglia dalla vergognosa esposizione mediatica del loro caso, ma su questo mi sembra che ben poco sia stato fatto. La famiglia aveva un atteggiamento piuttosto riservato, non essendo nemmeno presente sui social: dobbiamo presumere abbiamo partecipato alla trasmissione per avere quell’ascolto che dalle istituzioni non riuscivano ad avere, per dimostrare agli italiani di essere in grado di curare i loro figli, perché avevano il terrore di perderli. Ma in alcun modo possiamo immaginare che volessero danneggiare i propri figli, come emerge dall’ordinanza. Che dire allora di tutti quei genitori che fanno uso intensivo dei social, condividendo foto e spezzoni della vita dei propri figli, e ancor di più di coloro che traggono da questa attività seguiti professionali, vendite, introiti di diverso genere? Si tratta di famiglie di “influencer” sotto gli occhi di tutti, a cui non risulta siano mai stati sottratti i figli. A questi si aggiungono tutti quei minori che aprono illegalmente account e ne fanno un uso quanto meno improprio, evidentemente senza adeguato controllo dei genitori. Vi chiedo: che ruolo dà la nostra società alla diversità, non a parole, nei fatti? Simili condotte mediatiche e giudiziarie sono pericolosamente prossime alla vera e propria persecuzione delle minoranze. Questi provvedimenti sembrano fare continuo riferimento a un concetto di “norma”, che come sappiamo nelle varie epoche ha sempre generato violenza e oscenità. Quali sono il ruolo del diritto e della psicologia nel farci comprendere un simile concetto, in che modo possono aiutarci a non farcene schiacciare? Urge una riforma urgente e radicale dell’intero sistema di sottrazione di minore in Italia. I casi di allontanamento devono essere di extrema ratio perché nessuna casa famiglia né famiglia affidataria potrà mai garantire quel senso di appartenenza che il bambino sperimenta con le proprie radici. Il legame con i genitori va preservato ad ogni costo, fatti salvi casi estremi di violenza non risolvibili e non gestibili altrimenti ove non vi sia neppure l’aiuto di altri familiari. In tutti gli altri casi, nonostante il rilievo di alcune criticità, lo Stato deve aiutare in ogni modo il nucleo familiare a farcela in autonomia. Inoltre, le decisioni di allontanamento devono essere riviste ciclicamente e in tempi brevi e mai si dovrebbe venire a sapere di genitori che per anni non riescono più ad avere un contatto che sia uno con i loro figli o che non sappiano neppure dove siano stati destinati. Sono certa che qualora le istituzioni iniziassero un cammino di risanamento di questo strappo, istituendo commissioni esterne e professionisti indipendenti; qualora facessero marcia indietro su alcune valutazioni parziali o superficiali, e attribuissero le responsabilità laddove rinvenute, il patto di fiducia tra Stato e cittadini tornerà a saldarsi e il malcontento popolare scemerà automaticamente e i cittadini acquisiranno nuova fiducia per digerire quei casi comunque dolorosi, ma residuali, di allontanamento. Qualora questo non accadesse il patto di fiducia già gravemente compromesso non potrà che spezzarsi una volta per tutte. Nonostante tutto, ho fiducia.   ROSANNA PIERLEONI Rosanna Pierleoni nasce nel 1984 ad Avezzano. Dopo il liceo classico, consegue la laurea magistrale in giurisprudenza all’Università Tor Vergata di Roma. Completa poi tre master interdisciplinari che le forniscono competenze psico-educative e giuridiche nell’ambito dei minori e della famiglia, con abilitazione alla mediazione familiare e alla consulenza specialistica. È autrice di un saggio sull’adozione internazionale e di diversi romanzi.   Redazione Italia
I figli sono proprietà di uno Stato opprimente lontano dalla gente
Come se si potesse inventare la felicità negli occhi di tre bimbi piccoli, come se fosse finto l’amore dato da due genitori, la cura messa, come fossero inventati il contesto di una casa nel bosco rimessa negli anni con impegno, e uno stile di vita scelto consapevolmente, come fosse uno scherzo o un set cinematografico, il trauma di una separazione imposta, la violenza di Stato. Come se fosse fasulla l’ennesima raccapricciante disposizione di un tribunale dei minori le cui motivazioni anche in questo caso, paiono folli e aberranti, e manco è la prima ne sarà l’ultima volta di un simile schifo, bambini separati dalle famiglie per futili motivi o per vere e proprie falsità, e invece fare finta di niente e permettere situazioni di vero e proprio degrado, di violenza, di pericolo. Come se fosse falso vero che nel 2014 i bambini in case famiglia erano 20.000 Nel 2025 sono 44.000 (più del doppio) e che i soldi che le case famiglia prendono come sovvenzione sono 1 miliardo e passa l’anno, approssimativamente 25.000 euro a bambino l’anno. Sì, è tutto finto, togliamogli i bambini, mettiamoli in una struttura asettica e imponiamo loro  tutta una serie di cose, compreso il trattamento sanitario obbligatorio per legge, alias la serie di vaccini obbligatori all’asilo. Dai, forza! già che ci siamo spargiamo in giro pure che è tutto finto, il loro amore, il loro legame, la cura l’uno per l’altro, il loro impegno, le loro scelte portate avanti per anni, il loro dolore, l’ingiustizia subita, il trauma dei bambini…. tutto finto, tutto una commedia, funzionale a distogliere, coraggio, andiamo a scriverlo o a dirlo in giro, tanto è tutta “roba” degli altri, mica la nostra vero??! Al di là delle strumentalizzazioni dell’idiota di turno, compreso qualcuno al governo. Ma qualcuno ha veramente compreso il messaggio che è stato passato?? No??! Il messaggio è chiarissimo. Il messaggio è che, anche i figli sono una proprietà dello Stato. Di uno Stato che fa sempre più paura, di uno Stato sempre meno capace di essere vicino ai bisogni delle persone, uno Stato sempre più lontano dal rappresentare un reale aiuto e che in cambio invece è sempre più opprimente nell’imporre la propria violenza, uno Stato che dispone regole sempre più spesso applicate in modo cieco, senza intelligenza né costrutto alcuno, tanto più forti e aberranti verso i deboli e tanto più permissive verso i forti e gli arroganti. Uno Stato fatto da istituzioni che funzionano sempre più ad uso e consumo di pochi, dove sempre di più la corruzione la fa da padrona, dove menefreghismo e il lasciar fare anche dinanzi a palesi storture, sono diventati il contesto di fondo quotidiano. Uno Stato dove fanno da padroni i più arroganti, i più ammanicati, i più corrotti, i più figli di puttana, che usano il potere delle istituzioni come fosse cosa propria, invece che per metterle al servizio generale. Uno Stato che per sua mano anche in questo caso invece che essere di aiuto, ha prodotto un trauma enorme a 5 persone, di cui 3 bambini piccoli, sani, belli, accuditi con cura, e con la felicità negli occhi come non si vede più nei bambini di oggi. Una violenza inaudita, con motivazioni strumentali, e sicuramente lontanissime dal motivare una violenza e un danno simili. Se si adottassero gli stessi criteri stringenti che sono stati adottati per questa famiglia, non ne rimarrebbe più uno di bambino in famiglia. Strappare i figli a due genitori amorevoli come Nathan e Catherine é un messaggio chiarissimo, lampante: io Stato, siccome non sei remissivo, non fai come dico io, non ti adegui alle mie disposizioni, giuste o sbagliate che siano, sebbene i tuoi figli siano con evidenza felici, nonostante siano accuditi, nonostante siano sani e belli come il sole, sereni e spensierati, nonostante vengano istruiti avvalendosi dell’educazione parentale, e che sappiano già due lingue meglio di tantissimi altri bambini, conoscano la scienza applicata, la biologia dal vivo, nonostante conoscano la matematica e affrontino gli esami come tutti gli altri bambini, nonostante i vostri figli abbiano comunque contatto e relazioni con altri bambini del paese vicino e di figli di amici vari. Io Stato, ve li tolgo i figli, li strappo dal loro ambiente, li strappo dalle vostre braccia che li hanno cresciuti con amore e cura, gli produco un trauma e un danno enorme, produco a giustificazione una serie di motivazioni per mano di un giudice, motivazioni oltremodo opinabili, strumentali, spesso inesistenti, ma io Stato, lo posso fare, ti tolgo i figli per metterli in una struttura fredda e asettica con persone sconosciute, e non solo, io Stato, non ti permetto nemmeno di stare coi tuoi figli in questa struttura, perché così ho deciso. Io Stato, per mano di una singola persona, chiamata giudice, così ho deciso. Questo è il messaggio Io Stato, sempre più lontano da tutto e da tutti, io lo posso fare, tanto non pago niente, tanto non mi costa niente, tanto faccio come voglio senza rendere conto a nessuno, meno che mai alla popolazione e alla gente. Io Stato dispongo come voglio, e al tempo stesso ( testimonianza vera di una ex insegnante in pensione) me ne frego se sul mio territorio invece ho migliaia di “alunni che non si sa se mangiassero, con chi dormissero, se dormissero, dove dormissero…[…] Alunni che non si è mai saputo come mai non si lavassero. […] Altri che ho implorato padri perché me li mandassero a scuola che sparivano per mesi. Altri alunni che erano morti dentro, senza curiosità e scintilla negli occhi, lobotomizzati davanti al triangolino in questo gioco di omologazione di anime verso il basso.[…] Alunni sessualizzati a sei anni,  altri con gli attacchi d’ansia da prestazione, sempre a sei anni. Altri alunni ancora, certificati per caratteristiche caratteriali, perché è un magico mondo in cui si “prendono soldi”… “Ho visto di tutto in questi 35 anni in cui faccio la maestra elementare, tranne i servizi sociali, quelli li ho visti veramente poco. Molto poco. Troppo poco. Guarda quanto diventano reali e si preoccupano invece, quando ci sono di mezzo bambini felici…. Perché in questo mondo che abbiamo costruito ad arte per essere una merda invivibile, come si permette qualcuno di dare ai figli gli strumenti per sopravvivere? Chi cazzo sono convinti di essere? A volte provo talmente tanto schifo…” Questa sopra la testimonianza di una ex insegnante di questo stesso Stato che strappa i figli a suo insindacabile giudizio, a genitori amorevoli, ma poi permette tutto questo e anche di molto peggio. Uno Stato dove si vuole rendere “normale” la patologia e si rende patologica la normalità. Chi ancora ha un’anima dentro, nonostante che ci viva, a questo Stato di cose, non si sente più di appartenere. Luca Cellini
“Non è isolamento, è libertà”, la vita della famiglia che vive nel bosco in Abruzzo raccontata da dentro
In seguito al caso della famiglia che vive nel bosco in Abruzzo, pubblichiamo questo post con conseguente video intervista della famiglia anglo-australiana, vittima di un abuso di potere disciplinare, oltre che una repressione amministrativa derivante da un forte ignoranza educativa che rispecchia perfettamente la nostra società odierna follemente superficiale e consumista. Oggi vi portiamo a conoscere Nathan, Catherine e i loro stupendi figli. Una famiglia molto unità, insieme hanno fatto una scelta, vivere liberi nel bosco. Una storia di amore, di cura, di scelte consapevoli, di tempo che rallenta passato insieme, di fatiche anche, ma di tanta  bellezza. Ciò fino che non è intervenuta la “mano” dello Stato. Catherine Birmingham è un’ex cavallerizza con passaporto maltese. Nathan Trevallion faceva lo chef prima di diventare imprenditore di mobili pregiati. Nathan e Catherine si sono conosciuti a Bali in Indonesia «nel 2016, dove Nathan viveva già da sei anni e lavorava prima come chef e poi come commerciante di mobili di pregio. Invece io sono arrivata lì dopo aver lavorato per diversi anni in Germania e in Giappone come istruttrice di equitazione di massimo livello. Abbiamo fatto amicizia passeggiando sulla spiaggia insieme ai nostri sette cani, dove giorno dopo giorno ci siamo innamorati». Nel cuore dell’Abruzzo, tra alberi e silenzi, questa famiglia anglo-australiana ha costruito con le proprie mani una casa da 20.000 euro, vivono off-grid, con la corrente in casa prodotta da pannelli fotovoltaici ma senza essere attaccati alla rete elettrica nazionale, perciò senza bollette né sprechi, hanno l’acqua in casa per lavarsi, per cucinare ma non attraverso la rete idrica bensì stoccata dentro fusti di acciaio inox. Mangiano i loro prodotti quelli della coltivazione del loro orto, passano moltissimo tempo insieme crescendo i loro figli con il metodo unschooling, che non significa che i figli non apprendono ciò che gli serve, bensì che sono i genitori stessi a insegnare ai figli, non una ma più lingue da parlare, le basi della matematica, delle scienze, della biologia, del disegno, della storia, ecc. Una scelta di vita voluta, cercata, affrontata con amore, che ha fatto il giro del web e spaccato l’opinione pubblica: utopia o pericolo? libertà o abbandono? Guardate il video e ognuno si faccia una propria idea. Il Tribunale per i Minorenni dell’Aquila ha deciso: che i tre bambini dovevano essere allontanati dai loro genitori, la famiglia venire spaccata, genitori da una parte e bambini da inserire in una “comunità educativa”. Intorno, un’ondata di proteste. La domanda da porsi è dov’è il confine tra tutela e ingiustizia, abuso, violenza di Stato? Chi decide cosa significa “vivere bene”? In questo video si può vedere chi sono davvero Nathan e Catherine. Come vivono, cosa pensano, perché hanno scelto questa strada. Poche ore fa i loro figli sono stati portati via. Uno schieramento di carabinieri in borghese e assistenti sociali si sono presentati nella loro abitazione e hanno prelevato i tre bambini di Nathan e Catherine. Questa non è più solo la storia di Nathan e Catherine, è diventata una battaglia per la libertà, la giustizia e il diritto di vivere in modo diverso. Redazione Italia
Manovra del governo e disastro Termoli: salta la gigafactory, affonda l’industria
La possibile rinuncia di ACC alla Gigafactory di Termoli arriva mentre il Governo Meloni presenta una manovra economica che non stanzia un euro per salvare l’industria, non interviene sul costo dell’energia, non pianifica la transizione e non impone alcuna condizionalità agli incentivi pubblici. Il risultato è davanti a tutti: un […] L'articolo Manovra del governo e disastro Termoli: salta la gigafactory, affonda l’industria su Contropiano.
Educare per prevenire: l’Abruzzo ha bisogno ora della legge sull’educazione di genere
Presentata una proposta di legge regionale dal Partito Democratico In Abruzzo il 28 ottobre è stata  presentata in Consiglio Regionale una proposta di legge che potrebbe segnare una svolta concreta nella prevenzione della violenza di genere: la legge regionale per la “promozione dell’educazione alla parità di genere e alla prevenzione delle discriminazioni e della violenza di genere nelle istituzioni scolastiche, universitarie e formative”, presentata dal consigliere regionale Silvio Paolucci (Partito Democratico), primo firmatario. Un testo semplice ma essenziale, che individua nella scuola e nelle istituzioni formative il primo presidio per costruire una società libera da stereotipi, discriminazioni e violenze. La proposta prevede percorsi strutturati di educazione di genere, rivolti non solo agli studenti e alle studentesse, ma anche al personale docente e alle figure educative, con l’obiettivo di fornire strumenti per riconoscere e contrastare le disuguaglianze, e promuovere relazioni basate sul rispetto reciproco. Ma ciò che rende questa legge particolarmente importante è la previsione di uno stanziamento di fondi regionali dedicati, indispensabili per trasformare le parole in azioni concrete. La legge, infatti, non si limita a promuovere “progetti” estemporanei, ma prevede un impegno strutturale e continuativo della Regione, riconoscendo il valore dell’educazione come strumento di prevenzione e trasformazione sociale. È una legge che va approvata subito. Non tra qualche mese, non “quando ci saranno le condizioni”. Il tempo politico, in questo caso, coincide con il tempo della responsabilità: a dicembre si discute il bilancio regionale, e solo un’approvazione tempestiva consentirebbe di destinare risorse già nel prossimo esercizio finanziario, permettendo così alle scuole e alle università abruzzesi di attivare percorsi formativi dal prossimo anno scolastico. Ogni rinvio rischia di tradursi in un anno perso — e un anno perso, su questi temi, significa continuare a contare i numeri della violenza come se fossero fatalità. L’educazione di genere non è un “tema culturale” di nicchia, ma un’urgenza collettiva. Riguarda tutte e tutti. E non può essere lasciata alla buona volontà delle singole famiglie, che spesso non dispongono degli strumenti o delle competenze per affrontare con profondità questioni complesse come il consenso, la parità, la libertà nelle relazioni. Educare al rispetto è un compito pubblico, e come tale deve essere sostenuto da politiche pubbliche, istituzioni e risorse dedicate. Non si tratta di “insegnare un’ideologia”, come spesso qualcuno tenta di ridurre il discorso. Si tratta di insegnare a vivere in una società più giusta, di prevenire la violenza prima che si manifesti, di dare alle nuove generazioni il linguaggio per nominare ciò che subiscono o vedono accadere, e per intervenire. Perché la violenza di genere non nasce dal nulla: è il risultato di stereotipi che si imparano, di ruoli che si impongono, di silenzi che si tramandano. Ecco perché questa legge non è un dettaglio amministrativo, ma una scelta politica di civiltà. Serve coraggio per approvarla ora, senza tergiversare, senza farsi frenare dal calcolo o dal timore di aprire un dibattito pubblico acceso. Ma la politica regionale ha il dovere di assumersi questa responsabilità: quella di investire sull’educazione come prima forma di prevenzione, di mettere le nuove generazioni nelle condizioni di crescere libere da modelli tossici, di costruire un Abruzzo che non si limiti a condannare la violenza dopo che è accaduta, ma che agisca prima, attraverso la conoscenza, il pensiero critico e la cultura del rispetto. È tempo che la Regione Abruzzo mostri con i fatti da che parte sta. La violenza di genere si combatte anche nei bilanci, con le scelte di spesa e con la volontà di rendere stabile un impegno educativo che troppo spesso viene affidato solo alle emergenze. Ogni legge che parla di educazione è una legge che parla di futuro. Ma questa, in particolare, parla del futuro delle relazioni, dei corpi, dei diritti. Per questo non può aspettare.   Benedetta La Penna
Raccontare un femminicidio senza uccidere due volte
I femminicidi non sono fatti privati, sono questioni politiche Ho scelto di non scrivere subito del femminicidio di Lettomanoppello, accaduto il 9 ottobre. Non per distacco, ma per rispetto. Perché troppe volte, dopo un femminicidio, assistiamo a una corsa a occupare lo spazio del dolore — politici in cerca di consenso, media affamati di titoli, commentatori pronti a riempire il silenzio con parole vuote. Io credo che prima di parlare, serva ascoltare. Perché le parole contano, e quando sono sbagliate, possono ferire una seconda volta. E in effetti, ancora una volta, le parole sono state sbagliate. Nei giorni successivi al FEMMINICIDIO di Cleria Mancini, uccisa dall’ex marito Antonio Mancini, il racconto mediatico si è subito piegato verso la giustificazione, verso la spettacolarizzazione. I titoli dei giornali hanno parlato di “raptus”, di “tragedia familiare”, di un uomo “fuori di sé”, “pazzo”, “accecato dalla gelosia”. Ecco cos’è la narrazione tossica. È quella che, invece di nominare la violenza per ciò che è — un atto di potere — la svuota di significato politico. È quella che sposta il focus dall’assassinio di una donna alla disperazione dell’uomo che l’ha uccisa. È quella che descrive il carnefice come una vittima delle proprie emozioni, riducendo la violenza patriarcale a un gesto di follia individuale. Chiamare un femminicida “pazzo” non è solo un errore lessicale. È un modo per deresponsabilizzare — lui, e con lui la società intera. Se era “pazzo”, allora non poteva controllarsi. Se era “fuori di sé”, allora non c’era premeditazione. Se è “un raptus”, allora nessuno poteva evitarlo. Così, in un colpo solo, si cancella l’origine sistemica della violenza maschile e si solleva la collettività dal dovere di interrogarsi su cosa l’abbia resa possibile. Ma la verità è che non c’è nessun raptus. Ci sono dinamiche di controllo, di possesso, di dominio. C’è un uomo che non accetta la libertà della donna accanto a sé, e una cultura che, in mille modi sottili, lo autorizza a pensare che quella libertà gli appartenga. Emanuela voleva vivere la sua vita, e per questo è stata uccisa. È questo che bisogna dire. Tutto il resto — “il gesto di follia”, “il momento di buio”, “la mente malata” — sono tentativi di spostare lo sguardo, di allontanare la violenza da noi, di ridurla a un fatto privato. Invece no: i femminicidi non sono fatti privati, sono questioni politiche. Accadono perché esiste un sistema che educa alla sopraffazione, che assegna agli uomini il potere e alle donne la colpa. Accadono perché lo Stato continua a tagliare risorse ai centri antiviolenza, perché la stampa continua a raccontare la violenza come un’anomalia, e non come un sintomo di un ordine sociale malato. La narrazione tossica non è solo una cattiva abitudine giornalistica. È un dispositivo culturale di difesa. Serve a mantenere l’illusione che la violenza sia eccezionale, imprevedibile, non nostra. Ma ogni volta che leggiamo “una donna è stata trovata morta” invece di “un uomo l’ha uccisa”, cancelliamo il soggetto. Ogni volta che scriviamo “lui l’amava troppo”, legittimiamo l’idea che l’amore possa essere una scusa per la violenza. Ogni volta che un giornale titola “tragedia della gelosia”, stiamo dicendo alle prossime Emanuele che la loro libertà è pericolosa. Per questo oggi non scrivo per commentare, ma per denunciare. Per dire che il modo in cui raccontiamo i femminicidi è parte del problema. Che il giornalismo, se non cambia sguardo, diventa complice. Fare cultura femminista significa questo: smontare le parole che proteggono il potere, nominare la violenza per quello che è, ridare voce e dignità alle donne che non possono più parlare. Cleria Mancini non è morta per un raptus. È stata uccisa da un uomo e da una cultura che gli ha permesso di credere che il suo corpo e la sua vita gli appartenessero. Raccontarlo senza ipocrisie è il primo passo per impedire che accada ancora. Le parole non bastano, ma sono l’inizio di ogni cambiamento. E allora che questo cambiamento cominci da noi — da chi scrive, da chi legge, da chi ascolta, da chi insegna. Perché ogni volta che scegliamo di raccontare la verità, togliamo ossigeno alla cultura della violenza e restituiamo giustizia a chi non può più difendersi. Benedetta La Penna
Ombrina Mare poteva essere bocciato
L’Italia vince arbitrato internazionale contro la multinazionale proponente Centomila presenze in due manifestazioni, a Pescara nel 2013 (40.000) e a Lanciano nel 2015 (60.000). Ombrina Mare 2, progetto petrolifero al largo della costa teatina, è nome legato ad una stagione di ampia partecipazione sociale all’opposizione a quella che i movimenti ambientalisti definirono “deriva petrolifera”. Tutto iniziò, nel 2007, contro il progetto del Centro Oli ad Ortona, primo di una lunghissima lista di progetti di estrazione a terra e a mare contro cui si espresse un vastissimo fronte di associazioni, cittadini, istituzioni e partiti politici. Nel 2007 erano pochissimi i no al progetto ortonese, otto anni dopo alla manifestazione di Lanciano parteciparono praticamente tutti i partiti politici e le istituzioni locali e persino la Chiesa cattolica. Dopo il disastro al largo del Golfo del Messico nel 2010 l’Italia cambiò la legge sulle concessioni, imponendo un limite a quelle in mare, e l’iter autorizzativo di Ombrina Mare 2 si bloccò. Due anni dopo il governo Monti con un decreto dell’allora ministro Corrado Passera eliminò questo limite e l’iter fu riavviato. Partì la vasta opposizione popolare che culminò nelle due manifestazioni e portò ad un nuovo cambio di rotta che portò alla bocciatura definitiva del progetto. La Rockhopper, multinazionale proponente, dopo qualche anno decise di trascinare l’Italia in un arbitrato internazionale sulla base del Trattato della Carta dell’Energia, nonostante il nostro Paese ne era uscito anni prima. Ad agosto 2022 l’Italia fu condannata a risarcire 190 milioni di euro alla multinazionale. Lo Stato italiano ha presentato appello contro questa condanna in base al Trattato Internazionale per il Regolamento delle Controversie relative agli Investimenti. Appello che è stato vinto dall’Italia portando così all’annullamento della condanna a risarcire la Rockhopper. La notizia è stata resa nota dalla stessa multinazionale. «La questione del risarcimento da 190 milioni di euro aveva avuto una vasta eco in Italia dove, invece di contestare le folli clausole capestro contenute nel Trattato dell’Energia improvvidamente firmato a metà anni ’90 dai nostri governanti, era stata montata ad arte una feroce critica alla sacrosanta protesta anti-trivelle del popolo abruzzese – ha sottolineato Augusto De Sanctis, Forum H2O – Avevamo ragione allora a contestare sia la deriva fossile, in piena epoca di crisi climatica, sia il trattato dell’Energia, da cui poi si è ritirata pure la UE. Il clima non lo si difende a chiacchiere o addirittura scavando nuovi pozzi di petrolio per giunta in un mare chiuso come l’Adriatico; serve invece abbandonare subito tutte le fossili». «Con grande gioia oggi possiamo festeggiare la sconfitta della società petrolifera Rockhopper che aveva chiesto un risarcimento di 190 milioni di euro all’Italia: riceveranno 0 euro e non potranno più ricattare la nostra comunità come avevano fatto – esulta alla notizia della cancellazione del risarcimento Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Rivendico con orgoglio che siamo riusciti a fermare il devastante progetto di una gigantesca raffineria galleggiante Ombrina 2 davanti al Parco della Costa Teatina solo grazie a un meravigliosa mobilitazione popolare NoOmbrina che ha costretto tutte le forze politiche nazionali a dire no». «Vorrei abbracciare tutte le persone con cui abbiamo condiviso una lunga lotta ecologista e comunitaria in difesa dei beni comuni, del nostro mare e della nostra terra, dall’irresponsabilità politica e dal saccheggio di un capitalismo predatorio – conclude Acerbo – La lotta contro il progetto Ombrina2 è stata (come quella contro la Sangrochimica ngli anni ’70) ha dimostrato che il popolo unito può vincere e con lo stesso spirito invito domenica e lunedì ad andare a votare in massa per i referendum». Alessio Di Florio