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Sentirsi parte di una narrazione a più voci
TRA MILLE DIFFICOLTÀ E CONTRADDIZIONI IL MONDO CONTADINO RACCOGLIE OGGI SEMPRE PIÙ ESPERIENZE DIVERSE DI RITORNO ALLA TERRA E DI CREAZIONE DI COMUNITÀ LEGATE ALL’AGRICOLTURA CONTADINA, COME PRATICHE CARICHE DI SENSO, RICCHE DI NUOVE E VECCHIE DOMANDE. QUESTO UNIVERSO È GIÀ IN GRADO DI INDICARE STRADE DI DISOBBEDIENZA, OFFRIRE SAPERI, ROMPERE L’INDIVIDUALISMO DELLA SOCIETÀ ATOMIZZATA. SI TRATTA PERÒ DI NON DIMENTICARE MAI CHE I CAMBIAMENTI CULTURALI NON AVVENGONO IN MESI O ANNI MA IN DECENNI E PER QUESTO QUALSIASI ECOSISTEMA DEVE RESTARE APERTO, MA SI TRATTA ANCHE DI NON DELEGITTIMARE, SCREDITARE, ISOLARE ESPERIENZE DIVERSE DALLA PROPRIA. ALCUNE RIFLESSIONI DALLA TRE GIORNI “STORIE E RESISTENZE CONTADINE” IN VAL PELLICE Raccolte d’autunno: Ortica per il pasto, Prugnolo-Sambuco&Biancospino per la composta. Foto di Daniela Di Bartolo -------------------------------------------------------------------------------- In giugno ho partecipato per un giorno e una notte all’incontro “Storie e resistenze contadine” in Val Pellice. Un luogo incantevole, una cornice bella e accogliente, fra uno spazio per le tende, un prato al centro che ospita un grande cerchio, un bellissimo torrente d’acqua fresca e cristallina che attraversa lo spazio comunitario quasi a rigenerarlo e a ricordare che nulla è fermo. E ancora: una cucina aperta e un operoso collettivo che sforna ottimo cibo, una spina di birra artigianale e un box di ottimo barbera a offerta libera stanno a ricordare che la fiducia è una pratica e un esercizio politico essenziale. Una comunità biodiversa si pone delle domande nella creazione di esperienze e pratiche di contadinanza a partire da una critica radicale al modello dominante che considera la città come il grande parassita, il mostro che tutto colonizza, tutto sussume, tutto mercifica, tutto intossica e abbruttisce fuori e dentro di noi. La critica alla città come fonte ed emblema del problema, contesto mortifico da lasciarsi alle spalle per dare vita ad altre forme di economia e di autonomia, a partire dalla cura della terra come cura di noi stessi e noi stesse e dall’autoproduzione di cibo, come primo passo di autosussistenza e autodeterminazione. Città come epicentro dell’inutile e del fittizio, che non risponde ad alcun bisgno se non a quello della sopravvivenza e delle perpetuazione del capitalismo. La città irradia modelli e gerarchie come fossero assiomi assoluti e immodificabili ed espande la dipendenza dal denaro e la cupidigia dell’accumulo come unica prospettiva che avviluppa tutto, a partire dal pensiero. Nella convivialità dell’incontro colpisce la presenza giovanile, che costituisce la maggioranza delle e dei presenti e l’eterogeneità dei partecipanti, tra chi da tempo lavora con la terra, chi si sta avvicinando, chi ne è affascinato e sta pensando a come lasciare la città, chi si muove in funzione di raccolte e lavori temporanei senza avere riferimenti fissi. C’è chi conduce piccole aziende agricole che di fatto sono piccole imprese, chi non ne vuole saperne di burocrazia e compromessi e si dedica a sviluppare progetti di sussistenza nell’informalità, chi in modo comunitario, chi in forma collettiva. Diverso anche il rapporto col denaro tra chi riceve contributi pubblici per portare avanti il proprio progetto e chi li rifiuta, chi ha contratto dei debiti per avere accesso a trattore e altre forme di tecnologia e vive fatiche e ansie legate a mole di lavoro, costi e debiti che allontanano dalle speranze originarie di una vita armonica e serena in natura e chi ha deciso di proseguire secondo un approccio rigorosamente low tech, vivendo diverse forme di fatiche. Una ragazza racconta il timore di lasciare la città e un lavoretto che le garantisce delle entrate certe anche solo per mantenersi una macchina e qualche minima tutela e certezza. Nella pluralità delle visioni e nell’apertura del confronto, un contadino della Val Pellice contesta il carattere antispecistico dato alla tre giorni e al relativo menu. La dimensione del rapporto con le bestie anche crudele ma non industriale fa parte dell’agricoltura, delle pratiche ancestrali e della storia dell’uomo (leggi anche ). Tra diversi racconti ed esperienze che esprimono soprattutto spinte embrionali e recenti tentativi di avvicinarsi alla terra, spiccano esperienze più solide, durature e con le idee chiare. Atelier Paysan con il suo articolatissimo lavoro “Liberare la terra dalle macchine” approfondisce nella storia i meccanismi politici, economici e culturali di espropriazione che hanno relegato il settore primario ai margini delle civiltà europee e denuncia le minacce e i pericoli di controproduttività insiti nell’agricoltura 4.0, dominata dall’alta tecnologia e dalla dipendenza da grandi capitali, dalla proprietà delle sementi e dai nuovi ogm. A fronte delle concrete minacce rivolte alla sovranità alimentare di tutti e tutte, Atelier Paysan propone la sfida di un ritorno diretto alla terra per un milione di contadini e del recupero delle pratiche, dei metodi e dei contenuti dell’educazione popolare per un cambiamento più profondo e integrale. Per la rivoluzione sociale sono necessarie alleanze e strategie con vari settori della popolazione, per cambiare i rapporti di forza a partire dal legame con la terra. Servono ecosistemi aperti e dinamici, non esistono isole felici: la comunità chiuse alla lunga implodono… Il livello e la portata della discussione si alza molto. A comprenderlo e reggerlo ci sono diversi contadini storici. Nonostante il Italia le realtà agricole, controllate da grandi organizzazioni di secondo livello molto colluse col sistema, stentino a dar vita a movimenti politici di massa, è rimasta viva dall’inizio del terzo millennio una rete di agricoltori che era riuscita nel 2013 a fare approvare una legge nazionale che definiva il concetto di “Contadinanza”, a protezione dalle politiche, dalle leggi e dalle normative che privilegiano le grandi imprese. L’impegno, seppur frastagliato, era quello di dar vita a cooperative territoriali integrali, che possano garantire sicurezza alimentare e sociale sui territori, con l’idea di uscire da una dimensione di minoritarietà e marginalità, per fondere i movimenti per i diritti politici e sindacali con quelli contadini, in nome della sovranità territoriale locale. Un tentativo che con molta fatica ha coinvolto circa 250 realtà agricole solo in Piemonte… A fronte di tante esperienze diverse e di nuove e vecchie domande quello che accomuna è vedere nel ritorno alla terra e nella creazione di comunità radicate nella terra una possibile via per resistere al dominio, e praticare sentieri generativi e in qualche modo carichi di senso, maggiore libertà e felicità mentre il futuro si fa sempre più tetro e il disastro intorno incombe. Accomuna il rifiuto di un mercato che penetra ogni ambito della vita in una escalation che porta inevitabilmente alla guerra, di un paesaggio dentro e fuori di noi che si uniforma, di un sistema normativo inibente e senza senso che atrofizza gusto e sensi, rende asettiche pratiche e relazioni e insapore il cibo, di un sistema di controllo che si articola in vari apparati e disegni concorrendo in modo coordinato alla devastazione. Espropriazione dell’acqua, della terra e della possibilità di coltivare e produrre cibo sono la prima forma di attacco e annichilimento, materiale e spirituale. In questo senso un pensiero non può che andare alla Palestina. In questo senso un movimento verso un ritorno reale alla terra pare l’unica forma di irriducibilità e resistenza. Nell’incontro emerge dunque la visione di un sistema totalitario e totalizzante che fa della mercificazione, dell’estrattivismo, del controllo e della paura le principali forme di dominio, dall’altra una molteplicità di esperienze e percorsi di lotta ed emancipazione a partire dal ritorno alla terra. In realtà quello che percepisco e che vorrei mettere in luce in questo testo è che il problema è non solo esterno ma anche interno al movimento. Il problema siamo anche noi. Mi riferisco, di fondo, a una mancanza di rispetto ai percorsi personali e collettivi. Quella biodiversità delle esperienze che sopra descrivevo, anziché essere un punto di forza diventa un terreno di conflitti, denigrazioni, screditamenti, diffamazioni, diaspore. Si erigono feudi per mettere in campo espressioni di narcisismo, edonismo, nichilismo per espiare drammi, fallimenti, frustrazioni, ambizioni e incapacità personali. Continuiamo a guardare, denunciare, colpevolizzare il nemico fuori senza riconoscere i limiti e blocchi che abbiamo dentro. “La mia o la nostra esperienza è sempre la più giusta, la più rivoluzionaria e radicale…”. Manca di fondo un’etica e una pratica fondata sul rispetto e il supporto ai percorsi altri. Uno dei principali ostacoli alla creazione di un movimento più allargato e al dipanarsi di alternative credibili è la tendenza interna ai movimenti di giudicare, delegittimare, screditare, isolare esperienze diverse dalla propria che rappresentano invece percorsi che ciascuno, secondo propri equilibri e sensibilità, intraprende per provare a vivere nel modo più libero e coerente possibile gestendo le proprie contraddizioni in una cornice oppressiva e in un momento storico deprimente ma proprio per questo colmo di domande e di possibili scelte radicali. In permacultura il concetto di omeostasi si riferisce alla capacità della natura di rafforzarsi e far fronte ai pericoli grazie alla capacita di creare relazioni tanto più solide quanto più agite da soggetti biodiversi. Noi facciamo esattamente il contrario e in questo modo ci indeboliamo. Si tratta invece di accogliere i precari equilibri e gli ecosistemi personali che ogni persona e realtà sta costruendo e di inventare forme creative di mutuo aiuto, fuori dal sistema e dal pensiero dominante. Evitare il reduzionismo che porta a vedere il mondo e le prospettive di cambiamento da un solo tema e angolatura, visto che tutto è collegato. Ciascuno di noi contiene moltitudine e si tratta di accettare che ognuno sceglie e riesce a gestire ambiti di antagonismo e radicalità e ambiti di negoziazione e convergenza perché non ne ha le forze o sente anche di impazzire e implodere nel combattere contro tutto e tutti. In qualche caso riesce ad agire senza denaro e secondo le pratiche che sente proprie dedicando tempo, energie e amore, in altri deve scendere a patti. Chi decide di occupare e chi ritiene aver più margine di azione tenendo aperto un circolo ARCI, chi decide di comprare la terra e chi valuta che la terra non può essere comprata, chi ritiene imprescindibile il rifiuto verso ogni pratica burocratica e chi decide di aprire una piccola impresa o cooperativa agricola per avere risorse per partire e riconoscersi un reddito, chi sceglie per la certificazione biologica e chi no… si tratta di porsi in una posizione di ascolto e apprendimento senza la pretesa di sentirsi più rivoluzionario e più radicale degli altri. Per essere più esplicito: si tratta di imparare a non romperci i coglioni e di perderci in quisquiglie e rivalità personali e di utilizzare tutte le energie a supportarci, a creare un ecosistema basato su rispetto e fiducia e una cornice versatile in cui tutti e tutte in diversi momenti possano trovare spazio e dare supporto, secondo una disciplina e delle pratiche condivise. Stefania Consigliere ci ricorda il valore della molteplicità. Siamo cresciuti nel dualismo dell’o/o, pro o contro, con me o contro di me invece dobbiamo imparare a ragionare con la categoria dell’e/e…. Più esperienze, più relazioni, più percorsi, più forme di intreccio, più esiti, più collaborazione. Di fondo più rispetto e supporto riconoscendo che non ci siano gerarchie ma nemmeno uniche certezze e verità o modelli validi per tutti. Servono disobbedienza, opposizione, massa critica, esperienze concrete che possano essere di riferimento. Servono saperi che rischiano di essere persi e depredati. Saperi tecnici legati alla natura e all’agricoltura ma anche saperi di base. Anche cooperare, come ci ricorda sempre Stefania Consigliere, è un sapere, una parte di noi da riprendere e coltivare in una società atomizzata che ha fatto dell’individualismo l’unica forma di sacralità fino a farci sentire tutti soli e divisi… Si tratta di interrogarsi sul lavoro: ripensare forme di lavoro basate sull’economia di sussistenza e centrate sul valore d’uso del nostro impegno e delle nostre relazioni di scambio e/o difendere i diritti conquistati dai nostri padri e nonni all’interno dei rapporti di lavoro salariato? Per quale approccio tendere considerando che ciascuno dei due approcci è portatore di un diverso modo di intendere il tempo, le relazioni, la proprietà? Si tratta di calibrare sforzi e fatiche legate al lavoro, stabilire un equilibrio nella gestione del tempo, mettendo al centro e calibrando il valore del limite e della misura che per ciascuno è soggettivo e diverso. Si tratta di provare a star bene ricostruendo un tessuto di relazioni resistenti, nella convivialità, secondo l’accezione di Ivan Illich, equiparando il più possibile mezzi e fini: liberarsi liberandosi! I cammini si tracciano camminando, caminando se hace il camino… Ma ci vuole tempo… Sempre Stefania Consigliere ci ricorda che i cambiamenti culturali non avvengono in mesi o anni ma in decenni. L’importante è che gli ecosistemi siano aperti nello sviluppo e nelle relazioni e che dibattito e confronto siano ricchi, generativi e trasformativi. Il potere si gongola della nostre divisioni, deride i nostri numeri, si beffa delle nostre fatiche ma non dorme sonni tranquilli quando sappiamo organizzarci, radicare delle pratiche e delle esperienze credibili che sappiano contaminare e avvicinare altri giovani (non a caso si discuteva a Monza come a Venaus come oggi i più giovani siano le principali vittime delle più severe repressioni, quasi in una logica preventiva e intimidatoria). Uno dei più grandi apprendimenti che possiamo acquisire oggi è l’importanza della centratura personale. La dimensione delle emozioni e dello spirito che aiutano nelle scelte. Forse non è tanto l’appartenenza alla classe, non sono gli slogan e le parole d’ordine di un movimento o di un’ideologia che ci portano a scelte e percorso coraggiosi ma è un profondo sentire personale, una connessione con se stessi, col pianeta, con la vita, col genius loci dei territori che abitiamo, le relazioni e le forme di armonia invisibili che ci legano agli altri, umani e non. Forse è questa parte del sentire, a volte estromessa dai movimenti più orientati a sensi di appartenenza basati su altre categorie e dimensioni, quella che può dare autenticità e profondità alle scelte e favorire tante contaminazioni liberatrici. Rassegnazione, disincanto, senso di inutilità sono tra le principali armi del potere per infondere passività, assuefazione e sottomissione. Come ci suggerisce Marco Deriu la rabbia non può essere l’unica emozione che ci muove. La rivolta passa dal reincanto del mondo, dal ritrovare meraviglia, gioia, magia, dal riappropriarsi della consapevolezza di sé, coltivando l’immaginazione del possibile. Sentirsi parte di una narrazione a più voci, che faccia del valore e della pratica della biodiversità il proprio paradigma, senza dover aderire a un modello monolitico o a delle certezze definitive e incontrovertibili da difendere, ci può aiutare a trovare lo spirito e il coraggio per affrontare sotto mille forme e prospettive l’attacco all’umano e al pianeta da cui insieme dobbiamo difenderci contrattaccando. La chiave della biodiversità ci può anche aiutare a vedere intorno a noi tanti e sempre nuovi possibili amici e alleati e a trovare nuove chiavi per interpretare incontri generativi ed esperienze significative come quelle vissute in Val Pellice. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Sentirsi parte di una narrazione a più voci proviene da Comune-info.
“Te, nome di polvere e stella”, una poesia di Yuleisy Cruz Lezcano
Ho scritto questa poesia per dare voce a un dolore spesso invisibile, quello degli uomini e delle donne che lavorano la terra, nelle campagne di Cerignola (FG) 1 e oltre, e che troppo spesso trovano la morte in silenzio, schiacciati da macchine che dovrebbero nutrirci.  Il grave incidente del 28 agosto, che ha tolto la vita a un uomo africano alla guida di un trattore ribaltatosi, è solo l’ultimo di una lunga serie di tragedie che colpiscono chi coltiva la terra.  La poesia vuole andare oltre i fatti, sfidare il silenzio che circonda queste morti e restituire dignità a chi, come “Te”, perde la vita senza un nome, senza un riconoscimento, destinato a diventare solo un’ombra nel racconto collettivo.  Con immagini simboliche e metafore, ho cercato di trasformare il dolore in un grido sommesso, per ricordare che dietro ogni incidente c’è una storia umana, una radice che affonda lontano, un destino spezzato che non può più essere ignorato. Yuleisy Cruz Lezcano 2 TE, NOME DI POLVERE E STELLA Te, il tuo nome non ha suoni udibili,  è una ferita che non chiama,  una sillaba di morte consonante,  un battesimo dato dalla terra,  sottovoce, sotto zolla, sotto peso. Te, destinato a una stella inesplosa d’agosto,  che il cielo ha dimenticato di nominare.  Radice d’Africa sei, e radice che non urla,  sei la fiamma che non chiede di ardere. Un trattore ti ha inghiottito come fa il buio col fiato,  ti ha preso la schiena, l’orizzonte,  ti ha restituito solo al silenzio. Lui, Te, e l’Altro,  morti che già si conoscono  come le note dello stesso spartito,  ognuna una cicatrice nel campo,  ognuna una pagina stracciata dal sole. Nessuno doma la zattera d’attesa  su cui salpate ogni mattina.  Nessuno ferma le tempeste impetuose  che rapiscono il respiro e il nome. Sei caduto come un ramo spezzato  prima della primavera,  e nessuna mano ha fermato il gelo. Il fiume Ofanto, testimone cieco,  ti ha visto sparire,  ma non saprà mai raccontarti. Te, hai lasciato il cuore appeso a un ramo,  e nessuno lo ha raccolto. 1. Leggi la notizia su Foggia Today ↩︎ 2. Yuleisy Cruz Lezcano è una poetessa, scrittrice, attivista e professionista della salute, nata a Cuba e residente a Marzabotto, in provincia di Bologna. Laureata in Scienze Biologiche e successivamente in Scienze Infermieristiche e Ostetriche presso l’Università di Bologna, ha saputo coniugare una solida formazione scientifica con una profonda sensibilità umanistica ↩︎
Rosarno Film Festival “Fuori dal Ghetto”: online il bando della 4ª edizione
È online il bando per partecipare alla quarta edizione del Rosarno Film Festival – Fuori dal Ghetto, l’iniziativa culturale che, ormai da quattro anni, intreccia cinema, lotte sociali e diritti dei lavoratori agricoli. Il festival si svolgerà tra ottobre e novembre 2025, in concomitanza con la stagione di raccolta degli agrumi nella Piana di Gioia Tauro, e vedrà ancora una volta la partecipazione diretta dei braccianti e degli studenti delle scuole superiori, che comporranno la giuria chiamata a premiare i cortometraggi in concorso. Quest’anno il tema centrale sarà lo sfruttamento del lavoro e la sicurezza sul lavoro, una delle emergenze sociali più gravi e diffuse in Italia. Il concorso intende accendere i riflettori su violazioni quotidiane legate a orari, salari, contributi, ferie e condizioni di salute, che toccano trasversalmente il mondo agricolo da nord a sud: dalla Piana di Gioia Tauro in Calabria a Saluzzo in Piemonte, da Nardò in Puglia a Latina nel Lazio, fino a Ragusa in Sicilia. Il lavoro nero, il caporalato e le pratiche di sfruttamento colpiscono infatti non solo i lavoratori stranieri ma anche molti italiani, alimentando ghettizzazione e invisibilità. La rassegna cerca perciò di raccogliere storie di vita: racconti di accoglienza negata e soprusi, ma anche esperienze di riscatto, di convivenza e lavoro regolare che mostrano come sia possibile costruire economie solidali e comunità resilienti, capaci di contrastare spopolamento ed emarginazione. Fuori dal Ghetto nasce con l’obiettivo di dare voce a chi vive condizioni di sfruttamento e marginalità, trasformando il cinema in uno strumento di denuncia, dialogo e inclusione. Nel corso delle edizioni, l’evento è cresciuto in visibilità e partecipazione, attirando associazioni, registi, attori e attivisti dall’Italia e dall’estero. Il festival è promosso da Mediterranea Hope – Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Rete Comunità Solidali e S.O.S. Rosarno, con l’adesione di una rete sempre più ampia di realtà sociali, culturali e solidali, tra cui Sea Watch, ResQ, ZaLab, Campagne Aperte, RiMaflow, Acmos, ICS – Consorzio Italiano Solidarietà, oltre a numerose associazioni e collettivi impegnati nei territori. MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE * Le opere dovranno avere una durata massima di 20 minuti. * Formato consigliato: Mpg4 (1920×1080), max 2 GB, preferibilmente tramite WeTransfer. * La selezione è a cura della direzione artistica, che informerà gli autori del risultato tramite telefono o email. * I lavori devono essere inviati entro il 30 settembre 2025 Scarica il bando
“Trama recisa”, una poesia di Yuleisy Cruz Lezcano
Ho scritto questa poesia per dare voce all’orrore silenzioso che ha segnato la fine di Satnam Singh, bracciante indiano, morto il 19 giugno 2024 dopo essere stato ferito gravemente sul lavoro e abbandonato, con il braccio amputato chiuso in una cassetta, davanti alla sua abitazione, senza che nessuno chiamasse i soccorsi. La sua agonia, la sua solitudine e la sua morte non possono e non devono essere normalizzate. È proprio in questo abbandono disumano, in questo rifiuto di soccorrere un uomo ferito, che si manifesta il volto più feroce dello sfruttamento: quello che nega l’umanità, che considera il corpo del lavoratore come un pezzo da usare e gettare. Non si tratta solo di negligenza. Si tratta di una scelta brutale, di una cultura dell’impunità e della disumanizzazione che continua a colpire i più vulnerabili, spesso migranti, invisibili agli occhi dello Stato e della società.Ho scelto la poesia come strumento per raccontare questa storia perché la poesia può rompere il muro dell’indifferenza. La poesia non fa sconti, entra nel dolore, lo rende visibile. Può scavare dove la cronaca si ferma. Può restituire dignità a chi è stato trattato come scarto. Scrivere versi su Satnam Singh non è stato un esercizio di stile, ma un atto di rabbia, di empatia, di giustizia. Attraverso questa poesia ho voluto denunciare non solo il caporalato, lo sfruttamento e la violenza sistemica nei campi agricoli italiani, ma soprattutto l’orrore dell’abbandono. L’atto di non prestare soccorso a un uomo morente è un crimine morale oltre che penale. È il segno di una società malata, in cui il profitto viene prima della vita umana. Satnam Singh è stato tradito due volte: prima dal lavoro che lo ha ferito, poi dalle mani che lo hanno lasciato morire. Con la poesia ho cercato di fare ciò che altri non hanno fatto per lui: restare, ascoltare, raccontare, chiamare aiuto. Perché il silenzio non sia più complice. Yuleisy Cruz Lezcano 1 Trama recisa Satnam camminava in silenzio, con i piedi immersi nella polvere di un campo che non era suo, sotto un cielo che prometteva pioggia ma non giustizia. Portava negli occhi il riflesso del Punjab, terra di grano e canti lontani. Era uno dei tanti, uno dei senza volto, foglia caduta in un autunno che nessuno ha mai voluto contare. Il suo nome su nessuna busta paga, si aggrappava ai solchi della terra, tra le voci dei compagni e i silenzi del padrone. Poi venne il giorno della ferita, il ferro parlò al posto del mondo. Il sangue cadde lento, come una firma mai scritta. Un urlo muto si frantumò contro l’acciaio, un braccio strappato, gettato come scarto, l’abbandono scolpito nel volto della terra, dove nessuno vede il sangue dei dimenticati. Il braccio, stelo infranto sotto il peso d’una tempesta muta restò lì, come foglia morta, tra l’odore amaro di sangue e silenzio. Sul ciglio della strada, l’uomo gettato, in una borsa il suo braccio mutilato divenne un grido che neppure la polvere osò coprire. Ora il suo corpo non lavora più. Riposa tra le crepe di uno Stato che dimentica chi raccoglie il cibo con mani senza diritti. Satnam è diventato simbolo, non per scelta, ma perché l’ingiustizia ha bisogno di volti da ignorare e tombe senza lapide. A Latina è tornato tutto com’era, la nebbia dei verbali, la maschera dei contratti, l’invisibilità come mestiere. 1. Yuleisy Cruz Lezcano è una poetessa, scrittrice, attivista e professionista della salute, nata a Cuba e residente a Marzabotto, in provincia di Bologna. Laureata in Scienze Biologiche e successivamente in Scienze Infermieristiche e Ostetriche presso l’Università di Bologna, ha saputo coniugare una solida formazione scientifica con una profonda sensibilità umanistica ↩︎
La guerra minaccia i semi
-------------------------------------------------------------------------------- Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Nel 2025, in un mondo scosso da crisi geopolitiche, anche i semi diventano vittime della guerra. Da Khartoum a Charkiv, da Gaza ai monti dell’Afghanistan, le banche genetiche che custodiscono la biodiversità agricola mondiale subiscono attacchi, saccheggi, chiusure forzate. E con loro rischiano di scomparire le varietà tradizionali di cereali, legumi e ortaggi adattate nei secoli a climi estremi, suoli poveri e parassiti locali. Veri e propri tesori genetici oggi più che mai preziosi, in un mondo sempre più caldo e instabile. Per salvare questo patrimonio, gli scienziati si affidano a un luogo remoto e gelido. Da 2008 il Global Seed Vault alle isole Svalbard, scavato nel permafrost artico norvegese, conserva in condizioni sicure milioni di semi provenienti da ogni angolo del Pianeta. Una sorta di Arca di Noè vegetale pensata per resistere a guerre e disastri naturali. I semi minacciati dalla guerra in Sudan, Ucraina e Palestina Il caso più drammatico è forse quello del Sudan. Come racconta il giornalista Fred Pearce su Yale Environmental 360, a Wad Medani, lungo il Nilo Azzurro, la banca nazionale dei semi custodiva varietà ancestrali di sorgo e miglio perlato, coltivate da millenni e fondamentali per l’adattamento ai climi aridi. Ma nel dicembre 2023, all’inizio della guerra civile, le milizie paramilitari delle Rapid Support Forces (Rsf) hanno invaso il centro. Quando i ricercatori sono riusciti a tornare, tredici mesi dopo, hanno trovato congelatori svuotati e semi sparsi ovunque. Il direttore delle risorse genetiche, Ali Babiker, ha recuperato quel che restava da una stazione di ricerca a Elobeid e, nel febbraio scorso, ha spedito i semi alle Svalbard. Ma solo un quarto della collezione sudanese è stato finora messo in salvo. Simile la sorte dell’Ucraina. Prima della guerra, il Paese era tra i maggiori esportatori di grano al mondo grazie anche alla banca genetica di Charkiv, tra le dieci più grandi a livello globale. Nel 2022, però, un bombardamento russo ha colpito l’istituto. Parte della collezione è stata salvata e trasferita in un luogo segreto a ovest, ma molte varietà restano in territori occupati. Solo 2.780 campioni — su 154mila totali — sono oggi duplicati alle Svalbard. In Palestina, invece, la banca dei semi di Hebron — gestita dalla Union of Agricultural Work Committees (Uawc) — continua a operare nonostante le pressioni israeliane. Dal 2003 raccoglie varietà locali di ortaggi coltivati tra Cisgiordania e Gaza. Nonostante nel 2021 Israele abbia designato la Uawc come organizzazione terroristica, l’Unione europea e le Nazioni Unite continuano a collaborare con i suoi ricercatori. Nell’ottobre scorso i primi semi palestinesi sono arrivati al Global Seed Vault: un segnale di speranza in un contesto altamente instabile. Le banche dei semi a rischio: cause e territori coinvolti Molti dei centri di origine delle colture mondiali — luoghi dove i primi agricoltori hanno addomesticato grano, orzo, lenticchie — coincidono oggi con zone di conflitto. Afghanistan, Iraq, Siria, Yemen. In questi territori i semi non sono solo cibo: sono memoria, cultura, resilienza. In Afghanistan, ad esempio, le banche genetiche sono state sistematicamente distrutte sin dagli anni ’70. Le collezioni sono state rubate, disperse, bruciate. Anche in Iraq la guerra ha fatto il suo corso, con la distruzione nel 2003 del centro di Abu Ghraib. Ma alcuni ricercatori, prevedendo che qualcosa di simile potesse accadere, avevano già inviato i campioni all’Icarda (International Center for Agricultural Research in the Dry Areas) di Aleppo, in Siria. Quei semi hanno poi attraversato nuove guerre e, poco prima dell’assalto dell’Isis, sono stati trasferiti in Libano, Marocco e alle isole Svalbard. Un viaggio travagliato che ha permesso di preservare varietà di grano, orzo e legumi antichissimi, ora usati per selezionare nuove piante resistenti alla siccità. Come se non bastasse la guerra, anche i cambiamenti climatici causati dall’uomo e i conseguenti eventi meteorologici estremi stanno minacciando la sopravvivenza dei semi a livello globale. Lo scorso anno, riporta Pearce, le isole Svalbard hanno prelevato semi duplicati dalla banca genetica nazionale filippina di Los Baños. Quest’ultima ha perso più di metà della sua collezione due volte, prima a causa di un tifone nel 2006 e poi a causa di un incendio nel 2012. Le banche dei semi minacciate anche dai tagli ai finanziamenti La rivoluzione verde degli anni ’60 ha permesso di sfamare miliardi di persone, introducendo – specie nei Paesi del Sud del mondo – sementi ad alta resa, fertilizzanti chimici e tecniche moderne di irrigazione. Ma ha anche ridotto drasticamente la varietà genetica delle colture. Oggi la maggior parte dei campi coltivati nel mondo si basa su poche varietà selezionate per produrre il massimo con l’uso intensivo di fertilizzanti e irrigazione. Senza la ricchezza genetica dei semi tradizionali, però, sarà impossibile affrontare le nuove sfide: parassiti, malattie, siccità, ondate di calore.  Era il 1921 quando il famoso agronomo Nikolai Vavilov fondò la prima banca dei semi al mondo, in Russia. Oggi la maggior parte delle nazioni dispone delle proprie strutture, supportate da 11 banche internazionali gestite nell’ambito di una partnership nota come Cgiar (Consultative Group on International Agricultural Research), finanziata in gran parte dai governi. Eppure, proprio oggi, questo sistema globale vacilla. Gli Stati Uniti, attraverso Usaid, erano tra i principali donatori della rete Cgiar. Ma, con i tagli alla cooperazione internazionale stabiliti dal presidente Donald Trump, molte banche dei semi che fanno parte di questa alleanza rischiano la chiusura. Il centro statunitense di Fort Collins ha subito licenziamenti, ad esempio, e il Regno Unito, attraverso il Millennium Seed Bank, denuncia un clima crescente di sfiducia. A proposito di sfiducia, persino la Norvegia, sede del “caveau dell’Apocalisse” (come è chiamato il centro di conservazione delle Svalbard), comincia a essere vista con sospetto dagli altri Stati. Lo storico interesse russo sulle isole Svalbard sta alimentando i timori: alcuni governi esitano a inviare i propri semi, temendo per la loro sovranità genetica. I semi come patrimonio da proteggere dalle guerre Conservare i semi del passato significa garantire cibo nel futuro. Significa poter selezionare piante più resilienti, più adatte ai cambiamenti climatici, meno dipendenti da input chimici. Significa difendere la biodiversità agricola, che è alla base della nostra sopravvivenza. Le guerre bruciano archivi genetici che hanno richiesto secoli per formarsi. Ma, ogni volta che un ricercatore riesce a salvare un campione e spedirlo alle Svalbard, quella memoria vegetale trova rifugio tra i ghiacci. Finché ci saranno semi da proteggere, ci sarà ancora una possibilità di riscrivere la storia. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Valori -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI DANIELA DI BARTOLO: > Salviamo i semi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La guerra minaccia i semi proviene da Comune-info.
Rompere ghettizzazione e invisibilità
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Il concorso della rassegna Fuori dal ghetto. Rosarno Filmfestival quest’anno avrà come tema centrale lo sfruttamento del lavoro. La sicurezza sul lavoro. Al centro dunque c’è il contrasto allo sfruttamento lavorativo che rappresenta una piaga diffusa su tutto il territorio nazionale, caratterizzato dalla violazione in materia di orario di lavoro, salari, contributi, diritti alle ferie, salute e sicurezza lavorativa. Dalla Piana di Gioia Tauro in Calabria a Saluzzo in Piemonte, a Nardò Puglia, a Latina nel Lazio, a Ragusa in Sicilia, lavoro nero, grigio e caporalato rimangono elementi strutturali sui quali intervenire. Non solo per i lavoratori stranieri ma per tutti i lavoratori e lavoratrici. L’agricoltura crea infatti posti di lavoro per i migranti ma il sistema non riesce a costruire processi di accoglienza degna in grado di interrompere i processi di ghettizzazione e invisibilità. Per questo la rassegna cerca di raccogliere soprattutto storie di vita: storie di accoglienza negata, storie di soprusi ma anche storie di riscatto nella quali la convivenza e lavoro regolare costruiscono economie in grado di rispondere a processi di spopolamento, di crescita collettiva. È importante testimoniare e documentare. Le opere potranno avere una durata massima di 20 minuti. Le opere possono essere inviate in formato con estensione Mpg4 con dimensione massima di 2 GB (si consiglia di inviare I film in formato 1920×1080 con wetransfer). La selezione delle opere è a cura e a giudizio insindacabile della direzione artistica. Al termine della pre-selezione gli autori verranno informati sul risultato telefonicamente o via email. Le opere andranno inviate all’indirizzo email fuoridalghetto2022@gmail.com entro e non oltre il 30 settembre 2025. Data la particolarità del concorso non ci saranno premi in denaro. I vincitori (primo e secondo) riceveranno un cesto di prodotti agricoli della Cooperativa Mani e Terra di Rosarno, inoltre le opere verranno proiettate in tutti gli spazi che organizzeranno eventi e aderiranno al Fuori dal Ghetto. “Il cinema non è solo una fabbrica di sogni – ha detto Ken Loach – È anche strumento di indagine sociale e di supporto alle pratiche sociali, di critica e denuncia delle tante forme di sfruttamento, strumento di raccordo conoscitivo tra culture diverse”. Spiega Ibrahim Diabate, ghanese, operatore di Mediterranean Hope: “Questo festival ci dà la possibilità di dialogare con il territorio e istituzioni. Essere considerati. Dieci anni fa non era possibile. Il nostro punto di vista non viene mai ascoltato. La giuria per il concorso sarà composta da lavoratori braccianti e studenti e cerca di sanare questa mancanza, questo collegamento con il territorio”. Fuori dal ghetto. Rosarno Filmfestival è promosso da Mediterranea Hope– Federazioni delle Chiese Evangeliche in Italia, Rete delle Comunità Solidali/Recosol, S.O.S Rosarno con l’adesione di Sea Watch, ResQ, Campagne Aperte, Impresa Sociale Sankara/Caulonia, Ass. Coopisa Cooperazione in Sanità/Reggio Calabria), Ass. Culturale Terra dei Morgeti/San Giorgio Morgeto, Ass. Santa Barbara/San Ferdinando, Equo Sud/eggio Calabria, La Coperta della Memoria Piana di Gioia Tauro, Faro Fabbrica dei Saperi Kiwi impresa sociale/Rosarno, Autogestione in movimento Fuorimercato/Milano, Acmos e Cascina Arzilla/Torino, ICS Consorzio Italiano Solidarietà/Trieste, RiMaflow/Milano, I.C S Trieste. E ancora: Comune-info, Confronti, Altreconomia, Volere la Luna, Pressenza stampa Internazionale, ZaLab laboratorio indipendente/Padova, Carovane Migranti/Torino. Bando GhettoDownload -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Rompere ghettizzazione e invisibilità proviene da Comune-info.
Mondeggi non è uno spezzatino
GESTIRE IN MODO COMUNITARIO E FARE AGROECOLOGIA: LE SFIDE DI MONDEGGI BENE COMUNE POSSONO APRIRE SCENARI INEDITI ANCHE ALLE AMMINISTRAZIONI LOCALI. SAPRANNO ASCOLTARE? -------------------------------------------------------------------------------- La comunità allargata che ha ridato vita e gestisce Mondeggi da undici anni è ancora in attesa che Città Metropolitana di Firenze pubblichi l’avviso di coprogettazione finalizzato a costruire il futuro della fattoria nel segno della condivisione e della partecipazione, come previsto dal codice degli appalti pubblici e dal codice del terzo settore. Intanto però filtrano indiscrezioni a mezzo stampa su quello che sarà o non sarà la Mondeggi futura. Dopo mesi di lavoro collettivo e di difficile e faticosa interlocuzione, emergono scenari che farebbero cadere uno dei principi fondanti dell’esperienza di Mondeggi: il bene comune. Siamo a conoscenza e condividiamo le funzioni sociali individuate da Città Metropolitana per il futuro di Mondeggi. Il progetto costruito dal basso da Mondeggi Bene Comune e la rete di associazioni e cooperative sociali del territorio le ha previste tutte, integrandole tra loro e con la gestione agroecologica dei terreni. Rigettiamo tuttavia con forza la logica di una “Mondeggi spezzatino” che vede ogni casolare vincolato a una specifica funzione sociale e quindi a uno specifico soggetto gestore: questa modalità da “condominio di associazioni”, non solo porterebbe alla perdita dell’essenza del bene comune e della sua gestione comunitaria ma metterebbe a rischio la sostenibilità anche economica dell’intero progetto. Lo abbiamo affermato e condiviso fin dal primo incontro della rete Mondeggi 2026 e lo abbiamo comunicato nei numerosi incontri che abbiamo avuto con dirigenti e politici della Città Metropolitana. La comunità di Mondeggi continua a credere che sia possibile fare un salto di qualità uscendo da modalità vecchie che non rispecchiano la realtà della fattoria come bene comune, che è fatta di incontri, connessioni, corresponsabilità, sperimentazione, agroecologia. È per noi assolutamente necessario che siano le realtà che parteciperanno alla coprogettazione a decidere collettivamente quali spazi usare e come. Non siamo disposti a cedere su questo punto. Vediamo se Città Metropolitana e Comune di Bagno a Ripoli sapranno ascoltare; per il bene del territorio e della grande esperienza collettiva di Mondeggi. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Mondeggi non è uno spezzatino proviene da Comune-info.
Perché l’agricoltura contadina sarà a Parma
A PARMA HA SEDE L’AGENZIA EUROPEA PER LA SICUREZZA ALIMENTARE, CHE STA GIOCANDO UN RUOLO IMPORTANTE NEI PROCESSI DI DEREGOLAMENTAZIONE DEI NUOVI OGM E DI MANIPOLAZIONE GENETICA DI PIANTE E ANIMALI. A PARMA HA ANCHE SEDE L’AZIENDA BIOLOGICA PODERE STUARD, ATTUALMENTE AL CENTRO DELL’ALLARMANTE SITUAZIONE CHE LA VEDE PROTAGONISTA DELLA SPERIMENTAZIONE IN CAMPO DI POMODORI GENETICAMENTE MODIFICATI. “CI RIVOLGIAMO A CONTADINE E CONTADINI, CONSUMATRICI E CONSUMATORI, ASSOCIAZIONI, GRUPPI D’ACQUISTO, COMUNITÀ DI SUPPORTO DELL’AGRICOLTURA, EMPORI SOLIDALI, AZIENDE E COOPERATIVE, TECNICI AGRICOLI, RICERCATRICI E RICERCATORI RESPONSABILI, PER COSTRUIRE UN’OPPOSIZIONE COMUNE CONTRO L’AVANZARE DEI NUOVI OGM…”. APPELLO PER LA MANIFESTAZIONE NAZIONALE CONTRO I NUOVI OGM Foto di Riccardo Troisi -------------------------------------------------------------------------------- APPELLO PER LA MANIFESTAZIONE A PARMA CONTRO I NUOVI OGM E NON SOLO Cambiare il Campo è un gruppo di attiviste e attivisti, contadine e contadini, di diverse zone d’Italia, provenienti da diverse realtà, gruppi, collettivi e associazioni, rurali e cittadine che lavorano per unire le forze e per difendere e sviluppare i sistemi agroecologici di produzione, distribuzione e consumo del cibo. Ci rivolgiamo a contadine e contadini, consumatrici e consumatori, associazioni, gruppi d’acquisto, comunità di supporto dell’agricoltura, empori solidali, aziende e cooperative, tecnici agricoli, ricercatrici e ricercatori responsabili, per costruire un’opposizione comune contro l’avanzare dei nuovi OGM (TEA, NBT, NGT). Diciamo SÌ all’agricoltura contadina agroecologica, diffusa sui territori, di prossimità e svincolata dal capitale finanziario, che produce un cibo sano, non inquina e non distrugge l’ambiente. Diciamo SÌ al favorire la rigenerazione naturale della biodiversità, alla conservazione del suolo e dell’acqua, vere ricchezze delle comunità ed efficaci difese dalle avversità. SÌ al fondamentale diritto dei contadini e delle contadine di conservare, riprodurre, selezionare partecipativamente e scambiare liberamente le proprie sementi. Diciamo SÌ all’autodeterminazione alimentare, alla costruzione di reti di piccola scala basate su relazioni di solidarietà e mutualismo, a sostegno dell’agricoltura contadina, col lavoro della terra in autogestione collettiva, non schiava delle leggi di mercato. Sosteniamo le realtà contadine, preservandole dalla scomparsa ed incentivando il ritorno alla terra per l’agroecologia in contrapposizione alle multinazionali dell’agricoltura e dell’alimentazione industriale. Diciamo NO all’agricoltura 4.0 e alle altre soluzioni tecnoindustriali per la sperimentazione, la coltivazione e la deregolamentazione degli organismi geneticamente modificati: TEA (Tecniche di Evoluzione Assistita), NBT (New Breeding Techniques) o NGT (New Genetic Techniques), tutti nuovi nomi per nascondere quel che già ci fu propinato e contro i quali lottammo con successo 30 anni fa, i vecchi OGM. Diciamo NO al cibo prodotto in laboratorio, non vogliamo essere le cavie di questa deriva scientista! Diciamo NO al saccheggio e alla distruzione dei beni ambientali, alla “digitalizzazione” dell’attività agricola, sempre più dispendiosa, inquinante ed energivora. Non possiamo rimanere indifferenti al perpetrarsi dell’ennesima soluzione tecnologica per risolvere problemi provocati proprio da tecnologie e metodi chimico-industriali. Forti interessi lobbistici condizionano la politica, l’informazione e i grandi sindacati agricoli, le molteplici agenzie per la sicurezza alimentare, ambientale e per lo sviluppo agricolo, nonché gran parte della ricerca pubblica e privata. La violenza operata dai sistemi di potere e la loro indifferenza per la salute pubblica è sempre più evidente e opprimente sulle nostre vite. Ci ritroveremo a Parma, dove ha sede l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA), che sta giocando un ruolo importante nei processi di deregolamentazione dei nuovi OGM e di manipolazione genetica di piante e animali. A Parma dove ha sede l’azienda biologica Podere Stuard, attualmente al centro dell’allarmante situazione che la vede protagonista della sperimentazione in campo di pomodori geneticamente modificati. Vi invitiamo a una partecipazione popolare: fermare l’avanzata dei nuovi OGM che minacciano ambiente, sistemi alimentari e salute pubblica è cosa urgente! SABATO 14 GIUGNO 2025, VIENI A PARMA! Faremo un corteo e ci sarà cibo, musica, teatro e performaces. Ritrovo alle ore 15:30 davanti alla Stazione FS, piazza Carlo Alberto Dalla Chiesa, per muoversi attraverso la città fino al Parco Ex Eridania. -------------------------------------------------------------------------------- CAMBIARE IL CAMPO! Per la Convergenza Agroecologica e Sociale -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Perché l’agricoltura contadina sarà a Parma proviene da Comune-info.