Sentirsi parte di una narrazione a più voci
TRA MILLE DIFFICOLTÀ E CONTRADDIZIONI IL MONDO CONTADINO RACCOGLIE OGGI SEMPRE
PIÙ ESPERIENZE DIVERSE DI RITORNO ALLA TERRA E DI CREAZIONE DI COMUNITÀ LEGATE
ALL’AGRICOLTURA CONTADINA, COME PRATICHE CARICHE DI SENSO, RICCHE DI NUOVE E
VECCHIE DOMANDE. QUESTO UNIVERSO È GIÀ IN GRADO DI INDICARE STRADE DI
DISOBBEDIENZA, OFFRIRE SAPERI, ROMPERE L’INDIVIDUALISMO DELLA SOCIETÀ
ATOMIZZATA. SI TRATTA PERÒ DI NON DIMENTICARE MAI CHE I CAMBIAMENTI CULTURALI
NON AVVENGONO IN MESI O ANNI MA IN DECENNI E PER QUESTO QUALSIASI ECOSISTEMA
DEVE RESTARE APERTO, MA SI TRATTA ANCHE DI NON DELEGITTIMARE, SCREDITARE,
ISOLARE ESPERIENZE DIVERSE DALLA PROPRIA. ALCUNE RIFLESSIONI DALLA TRE GIORNI
“STORIE E RESISTENZE CONTADINE” IN VAL PELLICE
Raccolte d’autunno: Ortica per il pasto, Prugnolo-Sambuco&Biancospino per la
composta. Foto di Daniela Di Bartolo
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In giugno ho partecipato per un giorno e una notte all’incontro “Storie e
resistenze contadine” in Val Pellice. Un luogo incantevole, una cornice bella e
accogliente, fra uno spazio per le tende, un prato al centro che ospita un
grande cerchio, un bellissimo torrente d’acqua fresca e cristallina che
attraversa lo spazio comunitario quasi a rigenerarlo e a ricordare che nulla è
fermo. E ancora: una cucina aperta e un operoso collettivo che sforna ottimo
cibo, una spina di birra artigianale e un box di ottimo barbera a offerta libera
stanno a ricordare che la fiducia è una pratica e un esercizio politico
essenziale.
Una comunità biodiversa si pone delle domande nella creazione di esperienze e
pratiche di contadinanza a partire da una critica radicale al modello dominante
che considera la città come il grande parassita, il mostro che tutto colonizza,
tutto sussume, tutto mercifica, tutto intossica e abbruttisce fuori e dentro di
noi. La critica alla città come fonte ed emblema del problema, contesto
mortifico da lasciarsi alle spalle per dare vita ad altre forme di economia e di
autonomia, a partire dalla cura della terra come cura di noi stessi e noi stesse
e dall’autoproduzione di cibo, come primo passo di autosussistenza e
autodeterminazione. Città come epicentro dell’inutile e del fittizio, che non
risponde ad alcun bisgno se non a quello della sopravvivenza e delle
perpetuazione del capitalismo. La città irradia modelli e gerarchie come fossero
assiomi assoluti e immodificabili ed espande la dipendenza dal denaro e la
cupidigia dell’accumulo come unica prospettiva che avviluppa tutto, a partire
dal pensiero.
Nella convivialità dell’incontro colpisce la presenza giovanile, che costituisce
la maggioranza delle e dei presenti e l’eterogeneità dei partecipanti, tra chi
da tempo lavora con la terra, chi si sta avvicinando, chi ne è affascinato e sta
pensando a come lasciare la città, chi si muove in funzione di raccolte e lavori
temporanei senza avere riferimenti fissi. C’è chi conduce piccole aziende
agricole che di fatto sono piccole imprese, chi non ne vuole saperne di
burocrazia e compromessi e si dedica a sviluppare progetti di sussistenza
nell’informalità, chi in modo comunitario, chi in forma collettiva. Diverso
anche il rapporto col denaro tra chi riceve contributi pubblici per portare
avanti il proprio progetto e chi li rifiuta, chi ha contratto dei debiti per
avere accesso a trattore e altre forme di tecnologia e vive fatiche e ansie
legate a mole di lavoro, costi e debiti che allontanano dalle speranze
originarie di una vita armonica e serena in natura e chi ha deciso di proseguire
secondo un approccio rigorosamente low tech, vivendo diverse forme di fatiche.
Una ragazza racconta il timore di lasciare la città e un lavoretto che le
garantisce delle entrate certe anche solo per mantenersi una macchina e qualche
minima tutela e certezza.
Nella pluralità delle visioni e nell’apertura del confronto, un contadino della
Val Pellice contesta il carattere antispecistico dato alla tre giorni e al
relativo menu. La dimensione del rapporto con le bestie anche crudele ma non
industriale fa parte dell’agricoltura, delle pratiche ancestrali e della storia
dell’uomo (leggi anche ).
Tra diversi racconti ed esperienze che esprimono soprattutto spinte embrionali e
recenti tentativi di avvicinarsi alla terra, spiccano esperienze più solide,
durature e con le idee chiare. Atelier Paysan con il suo articolatissimo lavoro
“Liberare la terra dalle macchine” approfondisce nella storia i meccanismi
politici, economici e culturali di espropriazione che hanno relegato il settore
primario ai margini delle civiltà europee e denuncia le minacce e i pericoli di
controproduttività insiti nell’agricoltura 4.0, dominata dall’alta tecnologia e
dalla dipendenza da grandi capitali, dalla proprietà delle sementi e dai nuovi
ogm. A fronte delle concrete minacce rivolte alla sovranità alimentare di tutti
e tutte, Atelier Paysan propone la sfida di un ritorno diretto alla terra per un
milione di contadini e del recupero delle pratiche, dei metodi e dei contenuti
dell’educazione popolare per un cambiamento più profondo e integrale. Per la
rivoluzione sociale sono necessarie alleanze e strategie con vari settori della
popolazione, per cambiare i rapporti di forza a partire dal legame con la terra.
Servono ecosistemi aperti e dinamici, non esistono isole felici: la comunità
chiuse alla lunga implodono…
Il livello e la portata della discussione si alza molto. A comprenderlo e
reggerlo ci sono diversi contadini storici. Nonostante il Italia le realtà
agricole, controllate da grandi organizzazioni di secondo livello molto colluse
col sistema, stentino a dar vita a movimenti politici di massa, è rimasta viva
dall’inizio del terzo millennio una rete di agricoltori che era riuscita nel
2013 a fare approvare una legge nazionale che definiva il concetto di
“Contadinanza”, a protezione dalle politiche, dalle leggi e dalle normative che
privilegiano le grandi imprese. L’impegno, seppur frastagliato, era quello di
dar vita a cooperative territoriali integrali, che possano garantire sicurezza
alimentare e sociale sui territori, con l’idea di uscire da una dimensione di
minoritarietà e marginalità, per fondere i movimenti per i diritti politici e
sindacali con quelli contadini, in nome della sovranità territoriale locale. Un
tentativo che con molta fatica ha coinvolto circa 250 realtà agricole solo in
Piemonte…
A fronte di tante esperienze diverse e di nuove e vecchie domande quello che
accomuna è vedere nel ritorno alla terra e nella creazione di comunità radicate
nella terra una possibile via per resistere al dominio, e praticare sentieri
generativi e in qualche modo carichi di senso, maggiore libertà e felicità
mentre il futuro si fa sempre più tetro e il disastro intorno incombe.
Accomuna il rifiuto di un mercato che penetra ogni ambito della vita in una
escalation che porta inevitabilmente alla guerra, di un paesaggio dentro e fuori
di noi che si uniforma, di un sistema normativo inibente e senza senso che
atrofizza gusto e sensi, rende asettiche pratiche e relazioni e insapore il
cibo, di un sistema di controllo che si articola in vari apparati e disegni
concorrendo in modo coordinato alla devastazione. Espropriazione dell’acqua,
della terra e della possibilità di coltivare e produrre cibo sono la prima forma
di attacco e annichilimento, materiale e spirituale. In questo senso un pensiero
non può che andare alla Palestina.
In questo senso un movimento verso un ritorno reale alla terra pare l’unica
forma di irriducibilità e resistenza.
Nell’incontro emerge dunque la visione di un sistema totalitario e totalizzante
che fa della mercificazione, dell’estrattivismo, del controllo e della paura le
principali forme di dominio, dall’altra una molteplicità di esperienze e
percorsi di lotta ed emancipazione a partire dal ritorno alla terra.
In realtà quello che percepisco e che vorrei mettere in luce in questo testo è
che il problema è non solo esterno ma anche interno al movimento. Il problema
siamo anche noi. Mi riferisco, di fondo, a una mancanza di rispetto ai percorsi
personali e collettivi. Quella biodiversità delle esperienze che sopra
descrivevo, anziché essere un punto di forza diventa un terreno di conflitti,
denigrazioni, screditamenti, diffamazioni, diaspore. Si erigono feudi per
mettere in campo espressioni di narcisismo, edonismo, nichilismo per espiare
drammi, fallimenti, frustrazioni, ambizioni e incapacità personali. Continuiamo
a guardare, denunciare, colpevolizzare il nemico fuori senza riconoscere i
limiti e blocchi che abbiamo dentro. “La mia o la nostra esperienza è sempre la
più giusta, la più rivoluzionaria e radicale…”. Manca di fondo un’etica e una
pratica fondata sul rispetto e il supporto ai percorsi altri. Uno dei principali
ostacoli alla creazione di un movimento più allargato e al dipanarsi di
alternative credibili è la tendenza interna ai movimenti di giudicare,
delegittimare, screditare, isolare esperienze diverse dalla propria che
rappresentano invece percorsi che ciascuno, secondo propri equilibri e
sensibilità, intraprende per provare a vivere nel modo più libero e coerente
possibile gestendo le proprie contraddizioni in una cornice oppressiva e in un
momento storico deprimente ma proprio per questo colmo di domande e di possibili
scelte radicali. In permacultura il concetto di omeostasi si riferisce alla
capacità della natura di rafforzarsi e far fronte ai pericoli grazie alla
capacita di creare relazioni tanto più solide quanto più agite da soggetti
biodiversi. Noi facciamo esattamente il contrario e in questo modo ci
indeboliamo. Si tratta invece di accogliere i precari equilibri e gli ecosistemi
personali che ogni persona e realtà sta costruendo e di inventare forme creative
di mutuo aiuto, fuori dal sistema e dal pensiero dominante.
Evitare il reduzionismo che porta a vedere il mondo e le prospettive di
cambiamento da un solo tema e angolatura, visto che tutto è collegato. Ciascuno
di noi contiene moltitudine e si tratta di accettare che ognuno sceglie e riesce
a gestire ambiti di antagonismo e radicalità e ambiti di negoziazione e
convergenza perché non ne ha le forze o sente anche di impazzire e implodere nel
combattere contro tutto e tutti. In qualche caso riesce ad agire senza denaro e
secondo le pratiche che sente proprie dedicando tempo, energie e amore, in altri
deve scendere a patti. Chi decide di occupare e chi ritiene aver più margine di
azione tenendo aperto un circolo ARCI, chi decide di comprare la terra e chi
valuta che la terra non può essere comprata, chi ritiene imprescindibile il
rifiuto verso ogni pratica burocratica e chi decide di aprire una piccola
impresa o cooperativa agricola per avere risorse per partire e riconoscersi un
reddito, chi sceglie per la certificazione biologica e chi no… si tratta di
porsi in una posizione di ascolto e apprendimento senza la pretesa di sentirsi
più rivoluzionario e più radicale degli altri. Per essere più esplicito: si
tratta di imparare a non romperci i coglioni e di perderci in quisquiglie e
rivalità personali e di utilizzare tutte le energie a supportarci, a creare un
ecosistema basato su rispetto e fiducia e una cornice versatile in cui tutti e
tutte in diversi momenti possano trovare spazio e dare supporto, secondo una
disciplina e delle pratiche condivise.
Stefania Consigliere ci ricorda il valore della molteplicità. Siamo cresciuti
nel dualismo dell’o/o, pro o contro, con me o contro di me invece dobbiamo
imparare a ragionare con la categoria dell’e/e….
Più esperienze, più relazioni, più percorsi, più forme di intreccio, più esiti,
più collaborazione. Di fondo più rispetto e supporto riconoscendo che non ci
siano gerarchie ma nemmeno uniche certezze e verità o modelli validi per tutti.
Servono disobbedienza, opposizione, massa critica, esperienze concrete che
possano essere di riferimento.
Servono saperi che rischiano di essere persi e depredati. Saperi tecnici legati
alla natura e all’agricoltura ma anche saperi di base. Anche cooperare, come ci
ricorda sempre Stefania Consigliere, è un sapere, una parte di noi da riprendere
e coltivare in una società atomizzata che ha fatto dell’individualismo l’unica
forma di sacralità fino a farci sentire tutti soli e divisi…
Si tratta di interrogarsi sul lavoro: ripensare forme di lavoro basate
sull’economia di sussistenza e centrate sul valore d’uso del nostro impegno e
delle nostre relazioni di scambio e/o difendere i diritti conquistati dai nostri
padri e nonni all’interno dei rapporti di lavoro salariato? Per quale approccio
tendere considerando che ciascuno dei due approcci è portatore di un diverso
modo di intendere il tempo, le relazioni, la proprietà?
Si tratta di calibrare sforzi e fatiche legate al lavoro, stabilire un
equilibrio nella gestione del tempo, mettendo al centro e calibrando il valore
del limite e della misura che per ciascuno è soggettivo e diverso. Si tratta di
provare a star bene ricostruendo un tessuto di relazioni resistenti, nella
convivialità, secondo l’accezione di Ivan Illich, equiparando il più possibile
mezzi e fini: liberarsi liberandosi! I cammini si tracciano camminando,
caminando se hace il camino…
Ma ci vuole tempo… Sempre Stefania Consigliere ci ricorda che i cambiamenti
culturali non avvengono in mesi o anni ma in decenni. L’importante è che gli
ecosistemi siano aperti nello sviluppo e nelle relazioni e che dibattito e
confronto siano ricchi, generativi e trasformativi.
Il potere si gongola della nostre divisioni, deride i nostri numeri, si beffa
delle nostre fatiche ma non dorme sonni tranquilli quando sappiamo organizzarci,
radicare delle pratiche e delle esperienze credibili che sappiano contaminare e
avvicinare altri giovani (non a caso si discuteva a Monza come a Venaus come
oggi i più giovani siano le principali vittime delle più severe repressioni,
quasi in una logica preventiva e intimidatoria).
Uno dei più grandi apprendimenti che possiamo acquisire oggi è l’importanza
della centratura personale. La dimensione delle emozioni e dello spirito che
aiutano nelle scelte. Forse non è tanto l’appartenenza alla classe, non sono gli
slogan e le parole d’ordine di un movimento o di un’ideologia che ci portano a
scelte e percorso coraggiosi ma è un profondo sentire personale, una connessione
con se stessi, col pianeta, con la vita, col genius loci dei territori che
abitiamo, le relazioni e le forme di armonia invisibili che ci legano agli
altri, umani e non.
Forse è questa parte del sentire, a volte estromessa dai movimenti più orientati
a sensi di appartenenza basati su altre categorie e dimensioni, quella che può
dare autenticità e profondità alle scelte e favorire tante contaminazioni
liberatrici. Rassegnazione, disincanto, senso di inutilità sono tra le
principali armi del potere per infondere passività, assuefazione e
sottomissione. Come ci suggerisce Marco Deriu la rabbia non può essere l’unica
emozione che ci muove. La rivolta passa dal reincanto del mondo, dal ritrovare
meraviglia, gioia, magia, dal riappropriarsi della consapevolezza di sé,
coltivando l’immaginazione del possibile.
Sentirsi parte di una narrazione a più voci, che faccia del valore e della
pratica della biodiversità il proprio paradigma, senza dover aderire a un
modello monolitico o a delle certezze definitive e incontrovertibili da
difendere, ci può aiutare a trovare lo spirito e il coraggio per affrontare
sotto mille forme e prospettive l’attacco all’umano e al pianeta da cui insieme
dobbiamo difenderci contrattaccando. La chiave della biodiversità ci può anche
aiutare a vedere intorno a noi tanti e sempre nuovi possibili amici e alleati e
a trovare nuove chiavi per interpretare incontri generativi ed esperienze
significative come quelle vissute in Val Pellice.
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