Tag - Cile

A 52 anni dal Golpe del 1973: l’attualità del potere operaio dei Cordoni
Una nuova commemorazione del colpo di stato militare del 1973 ci chiama. Sono trascorsi 52 anni da quando la controrivoluzione, sostenuta dall’imperialismo statunitense e eseguita dalla borghesia cilena attraverso le sue forze armate, ha sanguinosamente stroncato la più profonda ondata rivoluzionaria della nostra storia. Quell’11 settembre non è stato abbattuto […] L'articolo A 52 anni dal Golpe del 1973: l’attualità del potere operaio dei Cordoni su Contropiano.
Cile: nubi minacciose sulla contesa elettorale
Secondo i sondaggi, è molto probabile che più della metà della popolazione cilena rimanga insoddisfatta di chiunque vincerà la corsa presidenziale. Né la vittoria di una candidata comunista, né l’eventuale vittoria del leader del Partito Repubblicano, potranno soddisfare quel centro politico frammentato che non è stato in grado di imporre qualcuno del proprio settore all’interno dei due maggiori raggruppamenti, sia nel centro-sinistra che nel centro-destra. Finora, coloro che hanno maggiori possibilità di passare al secondo turno elettorale sono Jeannette Jara (sinistra) e José Antonio Kast (destra). Vale a dire, gli estremi dell’arcobaleno politico cileno. Si stanno compiendo enormi sforzi a montare delle campagne di terrore a danno di entrambi i candidati. Tuttavia, queste manovre non hanno influenzato le intenzioni di voto dei cittadini cileni. Molto più impatto sembra avere la serie di errori commessi dagli stessi contendenti, così come dai partiti che rappresentano. Ma questo può al massimo favorire il voto nullo o bianco, posizione che è stata insinuata dai democratici cristiani, dagli autodefiniti socialisti “democratici” e da alcuni leader di altre formazioni riluttanti al trionfo dei candidati che oggi sono meglio quotati. Va considerato che, parallelamente, gli elettori dovranno rinnovare tutti i membri della Camera dei deputati e metà del Senato in elezioni che stanno gradualmente concentrando gli interessi dei partiti. Soprattutto quando si presume che chiunque sarà il futuro presidente della Repubblica non otterrà una maggioranza parlamentare che gli consenta di governare senza grandi intoppi con il potere legislativo. In sostanza, i partiti politici scommettono che sarà in entrambe le camere che si giocherà la grande battaglia per il proprio futuro politico e quello del Paese. Per questo motivo molti analisti prevedono una situazione di ingovernabilità e di nuovi conflitti sociali. È in questo senso che si spiegano le tensioni vissute dalla candidata Jara e dalla sua stessa comunità. Per quanto il Partito Comunista abbia concesso autonomia alla candidata del partito di governo, in pratica il PC disapprova quella che definisce la posizione socialdemocratica assunta da lei nel tentativo di ottenere sostegno e fiducia degli otto partiti che rappresentano la sua candidatura. Sembra che i comunisti non vogliano che le loro posizioni più radicali vengano offuscate, il che potrebbe compromettere le loro aspirazioni di aumentare la loro rappresentanza di deputati e senatori. Questo raffreddamento dei dirigenti comunisti nei confronti della loro candidata presidenziale sarebbe favorito dalla constatazione che il sostegno popolare a Jeannette Jara sembra aver raggiunto il limite massimo, oltre alle scarse possibilità che avrebbe nella disputa con uno qualsiasi dei tre candidati della destra. Vale a dire, lo stesso Kast, Evelyn Matthei e Johannes Kaiser. In definitiva, né l’anticomunismo né l’antipinochetismo sono riusciti a influenzare in modo significativo le campagne elettorali. La cosa più chiara è che i cileni preferiscono una soluzione radicale piuttosto che la continuità, in una chiara espressione del malcontento generale nei confronti di tutti i principali attori politici e partiti. A poco più di due mesi dal voto, c’è ancora il 25% degli elettori senza un candidato e apparentemente senza un grande interesse a votare. Sebbene il voto sia obbligatorio, ciò influirà comunque sui risultati. È evidente che l’opposizione è più sicura della vittoria e del buon risultato elettorale di tutti i suoi candidati presidenziali. Ma questo entusiasmo non riesce a dissuadere i suoi partiti dalle aspre controversie in tutto il settore. E se si suppone anche che al secondo turno saranno tutti costretti a trovare un accordo elettorale, non mancano coloro che prevedono che Kast non troverà persone delle file di Renovación Nacional o dell’UDI disposte a entrare a far parte del suo governo. Sapendo, inoltre, che nemmeno i repubblicani entrerebbero a far parte di un eventuale governo di Evelyn Matthei. Da parte del governo, c’è molta più vocazione al potere. I suoi partiti hanno già co-governato nell’amministrazione di Gabriel Boric e, prima ancora, in quella della Nueva Mayoría (Michelle Bachelet) e della Concertación Democrática (Patricio Aylwin, Ricardo Lagos ed Eduardo Frei). Ma la vittoria alle primarie di Jeannette Jara ha incrinato la piena armonia. Una situazione che potrebbe diventare più evidente al momento dell’insediamento del nuovo potere legislativo. Queste tensioni hanno provocato il fallimento del presidente Boric nell’imporre la piena unità del suo settore, il che ha portato alla nascita di una lista parallela di candidati al Congresso Nazionale. Si tratta del Partito Umanista e dei Verdi Regionalisti. Una scissione elettorale che ha provocato l’ira del capo dello Stato e lo ha portato a destituire dal suo incarico il ministro dell’Agricoltura, Esteban Valenzuela, militante di un partito del settore. Considerato da molti uno dei suoi segretari di Stato più efficienti, in quella che è stata definita una vendetta del presidente. Questo incidente dimostra la perdita di leadership di Boric e la decisione dei partiti politici di governo di ignorare i suoi desideri e le sue istruzioni, in un panorama che certamente cospira contro le intenzioni presidenziali di Jeannette Jara. In questo scenario polarizzato, sembra che le candidature presidenziali di Franco Parisi, Marco Enríquez Ominami ed Eduardo Artes abbiano poche possibilità di raccogliere molti sostenitori, di “rubare”, come si dice, voti ai principali avversari. Si presume già che ottenere le firme dei cittadini per iscriversi alle elezioni ufficiali sia un buon affare, poiché il Registro Nazionale Elettorale dovrà concedere dei fondi anche ai candidati alla presidenza e alle migliaia di candidati al Congresso Nazionale. Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Juan Pablo Cárdenas
Cile, fallisce la consultazione di Boric al popolo mapuche: “Il territorio non è in vendita”
La Commissione Presidenziale per la Pace e la Comprensione è un’iniziativa dell’amministrazione di Gabriel Boric, formata da membri del sistema politico dello Stato cileno nel 2023, “con l’obiettivo di guidare un processo di dialogo e accordi per canalizzare istituzionalmente le richieste di restituzione delle terre e di riparazione da parte del popolo mapuche e raccomandare misure praticabili per una pace duratura e la comprensione reciproca tra gli attori delle regioni di Biobío, La Araucanía, Los Ríos e Los Lagos”. Il rapporto finale della commissione è stato consegnato a Boric il 6 maggio 2025, a La Moneda. E il 13 agosto è iniziata una consultazione con alcune comunità mapuche in merito alla proposta del documento governativo. Finora gli obiettivi della commissione stanno fallendo clamorosamente contro la dignità di un intero popolo. Il werken (una delle autorità tradizionali del popolo mapuche che svolge funzioni di consigliere e portavoce, N.d.t.) della comunità di Pepiukelen de Pargua, Francisco Vera Millaquen, in merito alla consultazione ha sottolineato che “il nuovo sistema di gestione della terra che ci viene proposto è un modo molto elegante per definire la spoliazione dei nostri territori, dal Biobío al sud, da parte dello Stato cileno. Ricordiamoci che nel 1825, dopo 14 anni di guerra, su richiesta delle autorità cilene, fu firmato il Trattato di pace di Tapihue, in cui fummo riconosciuti come Stato sovrano e libero. Oltre ad essere un patto di pace tra le due nazioni, costituiva un accordo di collaborazione reciproca”, aggiungendo che “tuttavia, lo stesso esercito cileno, anni dopo, invase le nostre terre con il sangue e il fuoco”. Vera Millaquen ha ricordato che “nel 2003, sotto il governo di Lagos Escobar, le autorità cilene hanno redatto un documento intitolato “Rapporto sulla Verità Storica e Nuovo Accordo”). In esso si riconosce la perdita del territorio mapuche per responsabilità dello Stato cileno in modo assolutamente arbitrario e illegale. Inoltre, indica che un totale di 10 milioni di ettari sono stati sottratti al nostro popolo. Quel territorio non è mai stato restituito. Infatti, dal 1993, con vari mezzi, sono stati restituiti solo circa 700 mila ettari e ora il rapporto dell’ultima commissione dice che saranno restituiti circa 300 mila ettari in più. Cioè, solo il 10% di tutto il territorio mapuche riconosciuto dalle stesse istituzioni cilene”, e l’autorità mapuche ha aggiunto che ”fortunatamente l’attuale proposta del governo viene respinta dalla stragrande maggioranza della popolazione indigena e persino da enti internazionali. In sintesi, ci troviamo di fronte a un processo illegale che ha preso in considerazione solo una parte del nostro popolo. Non bisogna dimenticare che praticamente il 50% della nazione mapuche vive a Santiago e Valparaíso, e queste regioni non sono state prese in considerazione per la consultazione”. Da parte sua, Sergio Santos Millalen, werken del gruppo mapuche Pikvun Mapu, ha riferito che, alla luce delle procedure derivanti dalla relazione della Commissione Presidenziale per la Pace e la Comprensione, “il Ministero dello Sviluppo Sociale e della Famiglia, con la Risoluzione n. 244 del 27 giugno 2025, ha negato la partecipazione alla consultazione di tutto il popolo mapuche, coinvolgendo solo metà della nostra gente. Ciò viola la convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro firmata dallo Stato cileno” e ha comunicato che “abbiamo presentato ricorso di tutela contro tale misura unilaterale alla Corte d’Appello di Santiago. A tal proposito, la Corte Suprema deve ancora pronunciarsi. Per il resto, noi Mapuche delle regioni di Santiago, Valparaíso e O’Higgins ci autoconvocheremo per respingere la presente consultazione, perché mira esclusivamente a creare un catasto dei terreni, senza una visione del territorio. Non accetteremo i risultati di questa commissione presidenziale. Anzi, la affronteremo sul piano politico, storico e giuridico”. Sergio Santos ha affermato con veemenza che “Il territorio non è in vendita; il territorio ancestrale va difeso”». > “La consultazione mira a imporre una legge di punto finale (estinzione > dell’azione penale, N.d.t.) alla legittima restituzione territoriale dei > Mapuche” Le comunità di Purén de La Araucanía hanno sottolineato che “attraverso la consultazione il governo intende legittimare le decisioni della Commissione per la Pace e la Comprensione, che rappresenta una narrazione di negazionismo e colonialismo nei confronti del popolo mapuche e dei suoi diritti”, e hanno avvertito che “questo sistema cerca di imporre una legge di punto finale alla legittima restituzione territoriale del nostro popolo”. La nuova politica faciliterà l’ingresso della terra mapuche nel mercato della vendita, dell’affitto, del trasferimento e del comodato, consentendo l’installazione e la realizzazione di progetti immobiliari, minerari, stradali, centrali elettriche, dighe, forestali e piani estrattivi senza alcuna protezione per la nostra gente”. I Mapuche di Purén hanno enfatizzato che l’iniziativa governativa in corso “non farà altro che aumentare il conflitto e la militarizzazione nel nostro territorio”. D’altra parte, il 13 agosto, gli apo ülmen, i machi e i rappresentanti della provincia di Osorno hanno deciso di respingere la consultazione, sostenendo che essa è “dannosa, in malafede e priva della volontà politica di dare una soluzione reale alla nostra storica rivendicazione. Pretendiamo che il governo ritiri la consultazione; il governo non offre garanzie che i nostri diritti saranno tutelati in Parlamento, dove sarà discusso il disegno di legge risultante dalla consultazione indigena, il che viola i diritti tutelati dagli strumenti del diritto internazionale”, e hanno spiegato che “lo Stato, attraverso questa consultazione, ci offre compensazioni in cambio del nostro diritto territoriale, quando il territorio è un bene intransigibile e un elemento inalienabile di ogni mapuche. Lo Stato non ha l’autorità morale per parlare di Pace e Comprensione in circostanze in cui continuano le perquisizioni alle autorità spirituali in diversi territori, mentre ci sono prigionieri politici e le regioni si trovano in stato di Emergenza”. Allo stesso modo, le comunità indigene di Puerto Varas, Llanquihue e Frutillar hanno ripudiato il nuovo sistema di gestione delle terre e denunciato “la totale mancanza di legittimità dell’intero processo. Fin dall’inizio, lo Stato cileno non è stato in grado di convocare le autorità mapuche pertinenti, né le comunità che hanno fatto parte dell’organizzazione politica del nostro territorio. La misura mette in pericolo il nostro diritto ancestrale alla terra e riduce la nostra lotta storica a semplici atti amministrativi e logiche di mercato”. Allo stesso modo, hanno affermato che “i meccanismi di indennizzo proposti dallo Stato cileno sono pensati solo per avvantaggiare i latifondisti, trattandoli come “vittime di conflitti”. Ma noi siamo consapevoli che essi sono stati gli unici favoriti da quando sono arrivati nel nostro territorio per derubarci e spogliarci con l’inganno e la violenza”. Ancora una volta, l’amministrazione attuale dello Stato cileno, con un atteggiamento razzista, vede le comunità indigene come contadini poveri, braccianti agricoli, folklore e massa corruttibile e colonizzabile, quando invece si tratta di un popolo diverso da quello cileno, con una propria cultura, organizzazione, modo di produrre e vivere, cosmovisione, legame speciale e specifico con la natura.   Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Andrés Figueroa Cornejo
La ballerina cilena contro la repressione e l’insurrezione del Royal Ballet and Opera britannico contro il genocidio a Gaza
L’immagine è commovente e sublime: una ballerina in pieno grand jeté, sospesa in aria con una bandiera cilena che sventola sopra la sua testa, mentre dietro di lei si ergono un blindato con idrante e un altro con munizioni, simboli della criminale repressione statale nella Santiago del Cile del 2019. Il rosso del suo vestito sventola come una ferita aperta. Il suo corpo, in perfetta tensione, non fugge: affronta il nemico con nient’altro che un tutù come armatura, perché l’altra la porta nello spirito. Lei tutta, il suo corpo, la sua anima e la sua danza, si sono elevate di fronte all’infamia in mezzo alla strada, posizionandosi come una barricata umana. Quella foto scattata durante le rivolte sociali cilene dell’ottobre 2019 ha condensato in un unico gesto la volontà di un popolo che ha deciso di non collaborare con l’ingiustizia e di affrontare il terrorismo di Stato, in gran parte con le armi della creatività e della convinzione fragorosa della dignità. Ogni rivoluzione inizia con le barricate e il caos, come in Cile quell’ottobre, e in mezzo al fumo e alla confusione, all’improvviso, capisci che tutto è stato compreso e sappiamo che siamo tutti dalla stessa parte quando sono gli artisti più classici e colti a portare in strada le loro danze, le loro opere e i loro strumenti. E oggi, quando vedo che dal cuore di una delle più illustri istituzioni britanniche è sbocciato di nuovo lo stesso gesto, non posso che placare il mio cuore grazie alla certezza che deriva dal sapere, dall’essere sicura che ormai tutti sanno che, dopo aver tanto parlato di Gaza e aver riempito le strade di marce interminabili, ormai siamo tutti, tutti noi, dalla stessa parte. Questo è un passo enorme. Da questo nessuno torna indietro uguale. Anche se poi la notizia non apparirà molto sulla stampa e nessun altro presterà attenzione alla questione, la verità vissuta dimostra che non si torna indietro uguali, ma consapevoli di essere germi di vita e di pace. La decisione del Royal Ballet and Opera, la più grande e famosa delle quattro principali compagnie di balletto del Regno Unito, di cancellare la rappresentazione della Tosca a Tel Aviv non è una questione amministrativa, né una semplice riprogrammazione per motivi di sicurezza. È una frattura etica. Un atto di insurrezione morale nel cuore dell’apparato culturale europeo, guidato non dai direttori ma dai corpi di ballerini, tecnici, artisti di scena e lavoratori amministrativi che hanno firmato una lettera interna, forte e senza retorica. Hanno rifiutato di recarsi in Israele. Hanno rifiutato di collaborare. Hanno rifiutato di diventare complici. La cancellazione, confermata il 4 agosto 2025, è radicata nella protesta di 182 membri del Royal Ballet and Opera, che hanno denunciato non solo i crimini di guerra a Gaza, ma anche il doppio linguaggio dell’istituzione, che mesi prima aveva offerto spettacoli gratuiti ai soldati israeliani dopo la produzione congiunta di Turandot. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’incidente del 19 luglio, durante una rappresentazione del Trovatore, in cui l’artista Daniel Perry ha sventolato una bandiera palestinese sul palco. Il direttore artistico Oliver Mears ha cercato di strappargliela nel bel mezzo dello spettacolo, un gesto autoritario che ha scatenato un’ondata di indignazione interna. A differenza di altri atti simbolici, questa volta ci sono state conseguenze strutturali: il Royal Ballet and Opera non si esibirà in Israele, non finché Gaza sarà un territorio assediato, bombardato, assassinato. Non finché gli ospedali saranno fatti saltare in aria, come è successo alla clinica dell’ONU ridotta in macerie la notte del 5 agosto. E non finché il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, insieme al suo Ministro della Difesa Yoav Gallant, continuerà ad annunciare la preparazione di un’“invasione definitiva” per occupare la Striscia di Gaza. “La guerra continuerà fino a quando tutta Gaza sarà sotto il controllo israeliano”, ha dichiarato Gallant da Tel Aviv. La reazione internazionale non si è fatta attendere. L’ONU, attraverso diversi relatori speciali, ha denunciato la decisione come un appello all’annessione forzata e una violazione del diritto internazionale umanitario. Artists for Palestine UK ha salutato la decisione del Royal Ballet and Opera come “una vittoria morale e politica senza precedenti nel panorama culturale britannico”. Voci inaspettate sono arrivate dall’interno di Israele: una rete di medici, rabbini ed ex soldati ha pubblicato un comunicato in cui si afferma che “bombardare gli ospedali a Gaza è un crimine, non una necessità”. Si tratta degli stessi settori che, mesi fa, avevano protestato quando l’attacco all’ospedale Al-Shifa era stato giustificato come un “obiettivo militare”. La rottura simbolica all’interno del Royal Ballet and Opera è anche stilistica. Coreografi e direttori musicali si sono dimessi in silenzio. Ballerini veterani hanno consegnato lettere private di dimissioni o di ripudio. Le reti interne hanno fatto trapelare testimonianze di “logoramento morale” e “frattura irreversibile” tra la direzione esecutiva e i team artistici. Alex Beard, amministratore delegato del RBO, ha addotto pubblicamente ragioni di “sicurezza”, ma internamente è ritenuto responsabile di non aver protetto l’integrità etica del suo cast. Nel mezzo del collasso della civiltà, questo gesto del RBO si inserisce in una nuova genealogia della resistenza, non quella delle barricate violente, ma quella delle barricate estetiche, sensibili e disobbedienti. Come la ballerina cilena davanti al blindato, questi corpi artistici si alzano, sospesi nell’aria della storia, per ricordarci che anche la bellezza può e deve sapere quando dire no. Basta. Mai più. Fonti: https://artistsforpalestine.org.uk/2025/08/04/victory-for-staff-as-royal-ballet-and-opera-pulls-tel-aviv-production/ https://www.aa.com.tr/en/culture/royal-ballet-and-opera-members-reject-future-performances-in-israel-back-palestinian-flag-protest/3650301 https://www.euronews.com/culture/2025/08/05/uks-royal-ballet-and-opera-cancels-2026-israel-show-after-staff-protest-on-gaza-stance https://www.nytimes.com/2025/08/05/arts/music/british-opera-royal-tosca-israel-letter.html https://www.thenationalnews.com/arts-culture/music-stage/2025/08/06/royal-ballet-and-opera-cancels-tel-aviv-show-after-staff-protest-gaza-war/ https://www.timesofisrael.com/uk-royal-opera-cancels-2026-production-of-tosca-in-israel-after-staff-protest/ Traduzione dall’inglese di Anna Polo     Claudia Aranda
Il litio, il potere e la dignità
> La battaglia finale è già iniziata IL NUOVO PETROLIO BIANCO Non c’è risorsa più contesa oggi del litio. Non perché sia magico, ma perché è necessario. Senza litio non ci sono auto elettriche, non si producono batterie, non c’è transizione energetica, non ci sarà futuro tecnologico. Dietro il discorso sulla sostenibilità e il cambiamento verde c’è qualcos’altro: una corsa disperata al controllo del nuovo petrolio bianco, una febbre globale in cui tutti lo vogliono, ma pochi lo possiedono. E la cosa più brutale è che chi lo possiede, spesso non lo controlla. SETTE PAESI DETENGONO L’85% DEL PIANETA Sette paesi concentrano l’85% delle riserve mondiali di litio: Bolivia, Argentina, Cile, Australia, Cina, Canada, Africa meridionale (Zimbabwe, RDC, Namibia) e Messico. Ma i paradossi sono feroci. Il Cile lo possiede ma lo ha ceduto a privati. L’Argentina lo possiede ma lo frammenta tra le province. La Bolivia lo custodisce ma lo sottoutilizza. L’Africa ne soffre. L’Australia lo esporta grezzo. Il Canada investe nel suo sfruttamento ma non lo trasforma. Il Messico lo ha nazionalizzato e non ha la tecnologia. E la Cina, che ha poco litio in casa, controlla il mercato mondiale. Il paradosso non è geologico, è politico. CILE, IL LITIO SPERPERATO In Cile, con quasi l’11% delle riserve globali, le società private SQM e Albemarle hanno esportato nel 2023 litio per più di 8,6 miliardi di dollari. Ma lo Stato ha ricevuto poco più di 2,7 miliardi di dollari. La maggior parte del business rimane in mani private. Non esiste un impianto nazionale di batterie, non esiste un’industria propria, non esiste un vero e proprio piano statale. Le saline del deserto di Atacama sono l’epicentro del modello estrattivista con l’etichetta della modernità. Il litio cileno continua ad essere sperperato come il salnitro e il rame e saccheggiato com’è sempre avvenuto nella storia. ARGENTINA, PROVINCE RICCHE, PAESINI ARIDI L’Argentina è il paese con il maggior numero di nuovi progetti approvati. Detiene il 21% delle riserve globali e, a differenza del Cile, le province controllano la risorsa. Ma tale controllo è stato ceduto tramite concessioni a società straniere come Livent, Ganfeng o Allkem. Nel 2023 il Paese ha esportato circa 700 milioni di dollari, una cifra marginale rispetto al suo potenziale. Le comunità locali reclamano acqua, informazioni e consultazioni preventive. Il litio viene portato via, ma lo sviluppo non arriva. BOLIVIA, SOVRANITÀ IN COSTRUZIONE Con il 21% delle riserve globali, la Bolivia è il gigante dormiente del litio. La sua scommessa su un’azienda statale è stata coraggiosa ma lenta. Oggi cerca alleanze con Russia, Cina e Germania per industrializzare la sua ricchezza. Nel 2023 ha firmato accordi per oltre 1 miliardo di dollari per installare impianti pilota di batterie e idrossido. Ma non esporta ancora in grandi volumi. Ha il litio ma non la tecnologia. Ha la sovranità ma le manca il tempo. Sarà troppo tardi quando si sveglierà? AUSTRALIA, UN SUPERMERCATO SENZA INDUSTRIA Con il 13% delle riserve globali, l’Australia è il più grande produttore mondiale, esportando oltre 330.000 tonnellate di LCE (carbonato di litio equivalente) all’anno e generando un fatturato di 18,6 miliardi di dollari. Ma quasi tutto questo litio viene esportato senza essere lavorato. Oltre l’80% va in Cina. I giacimenti di Greenbushes, Mount Marion, Wodgina e Mount Holland sono di importanza mondiale. Ma il Paese non possiede un’industria di batterie, non dispone di un’azienda nazionale del litio e non ha una politica sovrana. È un supermercato minerario mascherato da potenza tecnologica. LA CINA NON LO POSSIEDE MA LO CONTROLLA La Cina possiede solo il 7% delle riserve globali, ma questo è poco importante. Ha investito in oltre 50 progetti legati al litio in tutto il mondo. Controlla parte della SQM in Cile, domina i giacimenti in Argentina e Africa e possiede aziende in Australia. Oltre il 70% del litio mondiale passa attraverso impianti cinesi prima di essere trasformato in batterie. E oltre l’80% delle batterie per auto elettriche viene prodotto in Cina. Il Paese non ha bisogno di possedere il litio, ma punta a controllarne la lavorazione. E lo ha già fatto. AFRICA, IL SACCHEGGIO PIÙ RAPIDO DELLA STORIA L’Africa possiede il 12% delle riserve globali di litio. Zimbabwe, Repubblica Democratica del Congo e Namibia concentrano i giacimenti più importanti. Aziende cinesi e fondi canadesi gestiscono già miniere come Arcadia, Bikita o Manono. Ma i benefici non arrivano. Le comunità vivono senza acqua potabile, né scuole, né strade. I contratti non sono pubblici e le miniere funzionano come enclavi coloniali. La storia del coltan, dell’oro e dei diamanti si ripete, solo che ora si chiama litio. E viene esportato più velocemente che mai. IL CANADA, IL POTERE NELL’OMBRA Il Canada non solo possiede litio, ma opera anche attraverso fondi d’investimento. Aziende come Lithium Americas, Sigma Lithium o Neo Lithium partecipano a operazioni chiave in Argentina, Stati Uniti, Africa e nello stesso Canada. Il Paese possiede solo circa il 3% delle riserve globali, ma ne controlla molto di più attraverso investimenti incrociati. Ha potere finanziario, non tecnologico. E funge da perno tra Cina e Stati Uniti, negoziando l’accesso alle materie prime ed esportando litio grezzo. Un attore freddo, strategico, senza bandiera visibile ma con un forte potere finanziario. MESSICO, LA NAZIONALIZZAZIONE CHE METTE A DISAGIO Il Messico non ha riserve grandi, ma è determinato. Con quasi il 2% del litio mondiale concentrato a Sonora, nel 2022 il Paese ha deciso di dichiarare il litio risorsa strategica e di creare LitioMX, un’azienda statale con controllo assoluto sulla sua esplorazione e sfruttamento. La misura non è piaciuta a Washington né ai capitali privati, ma ha inviato un segnale chiaro: il litio non sarà più un business privato, ma una politica di Stato. Il giacimento di Sonora, inizialmente controllato inizialmente da Bacanora Lithium (con sede in Canada) e dal suo partner cinese Ganfeng Lithium, è una delle riserve più grandi di roccia dell’America Latina, con un potenziale di oltre 8 milioni di tonnellate di LCE. Dopo la nazionalizzazione, i contratti sono stati sottoposti a revisione, generando tensioni diplomatiche e pressioni incrociate da parte degli investitori stranieri. Ma la decisione sovrana ha cambiato le carte in tavola. Il Messico non produce ancora su larga scala, ma sta gettando le basi per farlo senza cedere il controllo. La nazionalizzazione del litio in Messico ha segnato una rottura con la logica estrattivista dominante. Mentre paesi come il Cile delegano il controllo a società private o negoziano accordi misti con attori controversi come SQM, il Messico ha scelto la strada più difficile, affrontando le multinazionali, assumendosi i costi iniziali e costruendo da zero un’azienda statale. LitioMX non produce ancora, ma la sua sola esistenza rappresenta un modello alternativo che mette a disagio le lobby minerarie. In questo scenario, Canada e Cina giocano su due fronti. Mentre le loro aziende fanno pressione per mantenere i contratti, i loro governi negoziano con cautela. Il Messico, dal canto suo, resiste. Con errori, con ritardi, ma anche con dignità. Perché c’è qualcosa che non si misura in tonnellate o in prezzi di mercato, ed è il diritto di decidere sul sottosuolo. E quel diritto, anche se non è quotato in borsa, vale più di tutto il litio del pianeta. QUANTO LITIO RIMANE E PER QUANTO TEMPO? Le riserve mondiali accertate bastano per altri 60 anni. Non è molto tempo. L’Australia potrebbe esaurire le sue miniere in 30 anni, il Cile e l’Argentina in 40, l’Africa in 15 se il ritmo rimane quello attuale. La Cina dovrà continuare ad acquistare all’estero. La Bolivia ha litio per 70 anni, ma non ne ha ancora sfruttato nemmeno l’1%. Il Canada sta ancora esplorando. Ma la verità è che se il litio non viene nazionalizzato ora, quando ci proveranno, non ci sarà più nulla da difendere. LO SPECCHIO ROTTO DEL LITIO La storia del litio è la storia del mondo. Chi lo possiede non lo domina. Chi lo domina non lo possiede. Chi lo lavora non lo produce. E chi lo consuma guarda dall’altra parte. Ci sono aziende che guadagnano miliardi e popolazioni che non dispongono di acqua potabile. Ci sono governi che firmano contratti cedendo la sovranità sulla risorsa per decenni. Ci sono belle parole sul futuro verde mentre le saline si prosciugano. E tutto questo sta accadendo oggi, adesso. Non è fantascienza. UN MODELLO ESAURITO, UN’URGENZA REALE Si può cambiare il modello? Sì. Quando? Adesso. Perché tra 5 anni sarà già troppo tardi. La nazionalizzazione del litio non è un’utopia, è un’urgenza. Creare aziende pubbliche, raffinare alla fonte, esigere il trasferimento tecnologico, garantire valore aggiunto. Basta con le concessioni infinite, basta con i contratti opachi, basta con le cessioni mascherate da investimenti. Il litio non può continuare a essere il bottino delle stesse aziende, deve diventare la base di un modello diverso. IL LITIO APPARTIENE ALLE POPOLAZIONI CHE LO POSSIEDONO, NON A CHI LO DESIDERA Questo non è un appello alla guerra, né all’isolamento. È un grido di difesa, di dignità, di logica storica. Non si può permettere che una risorsa strategica, pulita e fondamentale per il futuro dell’umanità rimanga nelle mani di cinque multinazionali. Il litio non appartiene a Tesla, non appartiene a Tianqi, non appartiene ai fondi d’investimento di Toronto. Il litio appartiene ai popoli che lo hanno sotto i piedi e solo loro devono decidere cosa farne e come. PERCHÉ IL LITIO NON È PIÙ UN MINERALE Non c’è tempo per le mezze misure, o viene nazionalizzato o sperperato. O viene difeso o viene svenduto. Questa è la battaglia del 21° secolo. E il litio è in prima linea. Chi vuole capire il potere, guardi la mappa. Chi vuole cambiare la storia, inizi da questa risorsa. Perché il litio non è più un minerale, è uno specchio che riflette chi siamo… e quale futuro siamo disposti a costruire. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Thomas Schmid, con l’ausilio di un traduttore automatico. Mauricio Herrera Kahn
Raffaella Carrà artista del popolo
Oggi fa clamore sui media che i comunisti cileni e che Jeannette Jara, anch’essa comunista, candidata della sinistra unita alle elezioni presidenziali di novembre, abbiano adottato Raffaella Carrà come icona elettorale. La grande artista ha sempre avuto una popolarità enorme nei paesi di lingua spagnola e in America Latina e […] L'articolo Raffaella Carrà artista del popolo su Contropiano.
La lotta per l’acqua: il trattato Cile-Emirati e il rischio del saccheggio idrico in Patagonia
QUANDO UN ACCORDO COMMERCIALE SI TRASFORMA IN UN SEGNALE DI ALLARME ECOLOGICO Il recente ingresso dell’Accordo di Libero Scambio tra Cile ed Emirati Arabi Uniti  nella Camera dei Deputati cilena è stato celebrato dai settori politici e imprenditoriali come una pietra miliare nella strategia di diversificazione del mercato del Paese sudamericano. Gli Emirati, potenza finanziaria e commerciale del Golfo, offrono un accesso preferenziale a uno dei Paesi con il più alto reddito pro capite al mondo. L’accordo prevede sgravi tariffari per i prodotti cileni, come frutta, vino e alimenti trasformati, e apre le porte a investimenti in infrastrutture e logistica. Tuttavia, nelle sue pagine, il trattato contiene silenzi preoccupanti. Non si parla nemmeno una volta di ghiacciai, né dell’acqua dolce come bene strategico, né del territorio della Patagonia, dove si trovano i più grandi serbatoi naturali di acqua dell’emisfero meridionale. E questo silenzio, nel contesto di un accordo con un Paese che già importa ghiaccio glaciale dalla Groenlandia, è un segnale di allarme. GLI EMIRATI E IL COMMERCIO DELL’IMPENSABILE: L’ACQUA COME BENE DI LUSSO Gli Emirati sono uno dei Paesi più aridi del mondo. La sua sopravvivenza idrica dipende dalla desalinizzazione, dalle importazioni di acqua in bottiglia e da strategie a lungo termine per garantire l’approvvigionamento delle aree urbane e turistiche. Nel 2024, testate come The Guardian e Khaleej Times hanno documentato l’inizio di importazioni regolari di ghiaccio glaciale dalla Groenlandia, destinato a cocktail di lusso ed esperienze esclusive a Dubai. Oltre al suo esotismo, questa pratica rivela una realtà strutturale: gli Emirati Arabi Uniti hanno bisogno di fonti esterne di acqua pura e hanno iniziato a costruire catene logistiche per ottenerla da aree lontane, con accordi bilaterali e tramite trattati commerciali. In questo contesto va letto l’accordo di libero scambio con il Cile, Paese che ha già mostrato interesse commerciale a sfruttare l’acqua glaciale per l’esportazione. CILE: GHIACCIAI SENZA LEGGE, RISORSE NON TUTELATE Nonostante sia uno dei Paesi con la maggiore copertura glaciale al di fuori delle zone polari, il Cile non ha ancora una legislazione che protegga in modo completo questi ecosistemi. Le normative attuali tutelano solo i ghiacciai situati in aree protette, lasciando vaste aree – soprattutto in Patagonia – esposte alle attività estrattive. Ad oggi non esiste un divieto esplicito di esportazione di acqua dolce allo stato naturale o congelato. Il codice dell’acqua, riformato nel 2022, ha compiuto progressi nel dare priorità al consumo umano e alla natura dell’acqua come bene nazionale per uso pubblico, ma mantiene aree grigie che potrebbero essere utilizzate da soggetti privati per acquisire i diritti di utilizzo dell’acqua di fusione glaciale. IL DISEGNO DI LEGGE CHE POTREBBE SALVARE LA SOVRANITÀ IDRICA In questo contesto, il Disegno di Legge per la Protezione dei Ghiacciai, in discussione in Parlamento dal 2019, emerge come uno strumento cruciale. Il suo articolo 6 vieta espressamente qualsiasi forma di rimozione, trasferimento o uso industriale dei ghiacciai, degli ambienti periglaciali e subglaciali. Questa formulazione include esplicitamente l’imbottigliamento o l’esportazione di acqua proveniente dai ghiacciai. Se approvata, questa legge metterebbe legalmente al riparo il Cile da qualsiasi rivendicazione commerciale nell’ambito dell’accordo di libero scambio con gli Emirati Arabi Uniti. Ma il suo rinvio – dovuto a pressioni settoriali, alla mancanza di priorità legislativa o all’indifferenza politica – mantiene aperta una porta pericolosa. TRATTATO CILE-EMIRATI E RISCHIO GIURIDICO: L’ACQUA COME MERCE NON ESCLUSA La versione ufficiale del trattato Cile-Emirati contiene clausole di protezione degli investimenti e meccanismi di risoluzione delle controversie tra investitore e Stato. Pur riconoscendo il diritto sovrano degli Stati di regolamentare per obiettivi legittimi come la protezione dell’ambiente, non esclude espressamente le risorse idriche naturali dal commercio bilaterale. Ciò implica che, in assenza di una legge nazionale che vieti l’esportazione di acqua glaciale, una società degli Emirati potrebbe acquisire diritti o sviluppare operazioni in quest’area. Se poi lo Stato cileno decidesse di revocare queste autorizzazioni per motivi ambientali senza una chiara base legale, potrebbe esporsi a cause internazionali e a risarcimenti. RACCOMANDAZIONI URGENTI PER PREVENIRE L’APPROPRIAZIONE PER OMISSIONE Dichiarazione interpretativa legata alla ratifica: Il Congresso dovrebbe accompagnare l’approvazione del trattato con una dichiarazione interpretativa che escluda dal commercio bilaterale qualsiasi forma di estrazione, imbottigliamento o esportazione di acqua proveniente dai ghiacciai. Approvazione immediata del Disegno di Legge sui Ghiacciai: la sua approvazione risolverebbe l’attuale vuoto normativo e costituirebbe una garanzia strutturale della sovranità idrica. Moratoria legale preventiva: fino a quando non sarà in vigore una legislazione solida, si raccomanda di stabilire una moratoria esplicita sulle esportazioni di acqua naturale dalle aree dei ghiacciai. Revisione ambientale di tutti gli accordi di libero scambio: in futuro, ogni nuovo accordo commerciale dovrebbe essere sottoposto a un rigoroso esame ambientale, compresa una clausola di esclusione per i beni comuni strategici. CONCLUSIONE: L’ACQUA NON SI DIFENDE DA SOLA L’accordo di libero scambio con gli Emirati Arabi Uniti è una legittima opportunità commerciale. Ma senza una chiara regolamentazione interna, può diventare una porta di accesso all’estrattivismo idrico di lusso. La Patagonia, silenziosa e vasta, non è rappresentata nei trattati. Spetta al Congresso cileno decidere se l’acqua che appartiene a tutti sarà trasformata in una merce per pochi. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid Claudia Aranda
Il dilemma della cautela: l’inerzia del Cile di fronte al genocidio a Gaza e il coraggio del Brasile
Mi rivolgo a Lei, Signor Presidente. Mentre il Brasile fa un passo avanti con sanzioni decise, la classica cautela del presidente Boric si rivela un’inerzia che condanna il Cile a essere un semplice spettatore di fronte al passaggio storico del genocidio. Questo editoriale analizza criticamente la differenza tra le risposte di Cile e Brasile di fronte al genocidio a Gaza. Sostiene che, mentre il Brasile impone sanzioni militari e diplomatiche come espressione di una leadership audace e pragmatica, la posizione cilena, ancorata a una cautela divenuta inerzia, rappresenta una rinuncia al dovere morale. L’inazione del Cile non è una strategia diplomatica sostenibile. La recente apertura al dibattito sul riconoscimento della Palestina nei Paesi occidentali evidenzia l’inutilità di tale cautela. Il governo Boric e il Parlamento cileno devono rispondere all’imperativo storico e unirsi a un fronte comune in grado di fermare il genocidio. Lo stesso presidente Boric ha formalmente definito i fatti di Gaza un “genocidio”. Questo riconoscimento verbale colloca il Cile, almeno a parole, dalla parte giusta della storia, ma tale atto politico e morale, inizialmente coraggioso, impone una conseguenza logica: agire con coerenza. Non c’è più spazio per invocare la cautela tradizionale come giustificazione dell’inazione o dell’eccessiva moderazione. Una volta nominato il crimine, viene tracciata una linea che obbliga ad agire con i fatti. La notizia che il Brasile ha imposto sanzioni decise contro Israele — sospendendo le esportazioni militari, ritirando il proprio ambasciatore e aderendo al caso presso la Corte Internazionale di Giustizia — è un faro che illumina l’oscurità dell’inazione e uno specchio in cui il Cile deve guardarsi. Il Brasile non si è limitato alla condanna verbale. Le sue azioni — la sospensione delle esportazioni militari, la rottura dei canali diplomatici e la partecipazione attiva alla Corte — dimostrano una leadership disposta a sostenere costi concreti per esercitare una pressione reale. Il Brasile pone la vita di migliaia di palestinesi al di sopra della convenienza politica e del profitto commerciale. Chiama l’America Latina a unirsi per fermare ciò che è stato chiaramente definito un genocidio. Il Cile ha compiuto alcuni passi, come il ritiro temporaneo del proprio ambasciatore, il sostegno a iniziative parlamentari che mettono in discussione il commercio con prodotti provenienti da insediamenti illegali, nonché dichiarazioni forti in forum multilaterali. Ma quando chi governa ha definito i fatti come genocidio, queste risposte risultano chiaramente insufficienti. La responsabilità principale ricade sul presidente Boric e sul Congresso, che devono superare i calcoli politici ed economici che finora hanno frenato un’azione più incisiva. Paesi tradizionalmente allineati all’Occidente — compresi alcuni con stretti legami con Israele — stanno inviando segnali inequivocabili che lo status quo non è più sostenibile. Il dibattito sul riconoscimento dello Stato di Palestina non è più un tabù nemmeno in nazioni come il Canada, il che sottolinea l’inconsistenza della cautela cilena. L’unica “perdita” reale sarebbero tensioni diplomatiche e alcuni costi commerciali che impallidiscono di fronte alla gravità del crimine. La storia giudicherà duramente coloro che sono rimasti nella comoda zona dell’inazione mentre continuava la barbarie. La cautela, in questo contesto, non è prudenza ma rinuncia e il suo prezzo sarà storico e morale. Signor Presidente, lei ha già riconosciuto che ciò che accade a Gaza è un genocidio. E quella parola cambia tutto. Ogni successiva cautela — per pressioni economiche, calcolo elettorale o timore di ritorsioni — diventa indifendibile di fronte a quell’azione. La storia non giudicherà il suo bilancio diplomatico, ma se è stato all’altezza del crimine che lei stesso ha denunciato. Questo editoriale non chiede impulsività, ma coerenza. Non si tratta di agire per pressione, ma di fare ciò che è giusto — perché è già stato detto che ciò che accade è inaccettabile. Il Congresso, che ha giustamente ascoltato il grido della società civile, deve comprendere che la paralisi è anch’essa una forma di complicità. In questo passaggio storico, alcune ambiguità costano vite. Se il Cile, dopo aver ammesso il genocidio, continua a scegliere la cautela, sarà l’umanità intera a pagare questo passaggio storico con il sangue — come è sempre accaduto quando si è taciuto di fronte all’orrore. Rispettosamente, Claudia Aranda Claudia Aranda
L’orizzonte strategico non è più a sinistra
OGNI TANTO, LA SINISTRA SI ENTUSIASMA PER LE ULTIME NOVITÀ MEDIATICHE CHE PROMETTONO TEMPI FELICI. IN QUESTI GIORNI, I NOMI DEL SOCIALISTA ZOHRAN MAMDANI, COME POSSIBILE SINDACO DI NEW YORK, E DI JEANETTE JARA, COME CANDIDATA ALLA PRESIDENZA PER I PROGRESSISTI CILENI, SONO MOTIVO DI GIOIA PER TANTI. ENTUSIASMI ANCHE PIÙ FORTI SI SONO REGISTRATI QUALCHE ANNO FA ANCHE IN EUROPA CON L’ASCESA DI PODEMOS IN SPAGNA E SYRIZA IN GRECIA. MA PER RICONOSCERE QUALCOSA IN GRADO DI RICONSEGNARE SIGNIFICATO ALLA PAROLA SINISTRA FORSE BISOGNEREBBE CAMBIARE SGUARDO, DARE MENO IMPORTANZA ALLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA. IN AMÉRICA LATINA, AD ESEMPIO, SECONDO RAÚL ZIBECHI, SONO LE RIAPPROPRIAZIONI TERRITORIALI, PROMOSSE DA ATTORI COLLETTIVI NELLE AREE RURALI E URBANE, A POSSEDERE “LA PROFONDITÀ STRATEGICA CHE LA SINISTRA HA PERSO ASSESTANDOSI NELLA ZONA DI COMFORT DELLO STATO E DELLE ISTITUZIONI…” Tratta dalla pag. fb della rete brasiliana Teia Dos Povos  -------------------------------------------------------------------------------- Di tanto in tanto, la sinistra si entusiasma per le ultime novità mediatiche che promettono tempi felici, solo per vedere questo fervore svanire senza conseguenze, poiché raramente si guarda indietro per valutarne i risultati. In questi giorni, i nomi del socialista Zohran Mamdani, come possibile sindaco di New York, e di Jeanette Jara, come candidata alla presidenza per i progressisti cileni, sono motivo di gioia e speranza. Per alcuni analisti e per il quotidiano di sinistra Sin Permiso, la vittoria di Mamdani alle primarie democratiche ha causato un “terremoto politico” così profondo che, secondo l’analista, “le ramificazioni di questa inversione di tendenza si faranno sentire per anni, in tutti gli Stati Uniti e nel mondo sviluppato”. Essendo socialista, musulmano e filo-palestinese, la sinistra si illude che il suo arrivo a sindaco della città simbolo cambierà le cose, nonostante tutte le prove contrarie. Per il settimanale di sinistra El Siglo, il comunista cileno Jara incarna “la reale possibilità che il popolo governi con la propria voce, le proprie richieste e la propria dignità in prima linea”. Per i media progressisti, come Página 12 in Argentina, il semplice fatto che Jara non provenga dall’élite incarna “la speranza di una vita migliore”. La sinistra assomiglia sempre più ai media mainstream che tanto critica. Un entusiasmo enorme, espresso in titoli di giornale, produce effetti immediati ma di breve durata. Una volta esaurito l’effetto, non si chiedono che fine abbiano fatto quelle speranze che erano riuscite a entusiasmare i loro seguaci. Credo sia necessario ricordare le esplosioni di passione che hanno caratterizzato l’ascesa di Podemos in Spagna e l’ascesa al potere di Syriza in Grecia. Sono solo fuochi d’artificio destinati a tenere a galla una sinistra traballante, che ha perso ogni spessore strategico, incapace di andare oltre effimere manovre tattiche che non cambiano nulla e vengono presto dimenticate. Mi sembra strano che molti cileni stiano di nuovo cadendo nella trappola. Sono stati ingannati da figure come la leader studentesca Camila Vallejo, che nel 2011 promise di cambiare il Paese e che l’opportunista quotidiano britannico The Guardian ha paragonato al Subcomandante Marcos. Sono ancora più sorpreso che la memoria collettiva non possa nemmeno risalire al 2019, quando un’Assemblea Costituente (convocata dalla destra e solo da una figura di sinistra, l’attuale presidente Gabriel Boric) ha spinto gran parte del movimento sociale a sciogliere le assemblee regionali e a recarsi alle urne. Vorrei fare un paragone. Lo scorso fine settimana, tre compagni brasiliani vicini alla Teia dos Povos (la straordinaria Rete brasiliane dei Popoli riunisce comunità, popoli e organizzazioni politiche rurali e urbane che promuovono percorsi di emancipazione collettiva per costruire un’alleanza nera, indigena e popolare, “il nostro obiettivo non è essere un movimento sociale che abbracci gli altri, vogliamo camminare insieme, non produrre un’unità monolitica…”, ndr) hanno visitato una mezza dozzina di riappropriazioni (bonifiche territoriali) del popolo Guarani Kaiowá nello stato del Mato Grosso do Sul, vicino al confine con il Paraguay. Negli scambi che abbiamo avuto, hanno descritto la potenza di questi spazi, uno dei quali occupa seicento ettari, la diversità delle colture e la forza delle comunità riterritorializzate. Uno degli insediamenti sta contestando 11.000 ettari di terreno con l’agroindustria, sebbene “si trovino in una situazione di grande vulnerabilità, con attacchi notturni da parte di uomini armati dei proprietari terrieri con cui si contendono il territorio ancestrale, che passano a bordo di camion 4×4 e sparano alla comunità. Sono riusciti a rimanere nella zona a intermittenza per 47 anni di riappropriazione”, dice la compagna Silvia Adoue. Riguardo a quello spazio, Pakurity, compa Esteban del Cerro scrive su Quilombo Invisível che dalla riconquista del 1986, “ci sono stati decenni di permanenza e movimento a Pakurity attraverso altri mezzi: lavori temporanei nell’azienda, utilizzo della foresta vicina per l’estrazione di piante medicinali, erbe, radici e frutta, caccia e pesca; spostamenti di famiglie nella regione; memoria dei defunti e degli antenati”. Il testo conclude: “Da nord a sud del continente, i popoli indigeni si fanno portavoce del grido zapatista per i beni comuni e la non-proprietà, e le riconquiste continuano a chiarire che la via dell’insurrezione è la via per la vittoria. L’insurrezione dimostra anche che il recupero delle terre ci dà speranza, anche in mezzo alle trincee, per un nuovo modo di relazionarci con gli esseri viventi“. La terra trasformata in territorio apre orizzonti di vita. Le riappropriazioni territoriali in tutto il continente, sostenute da attori collettivi nelle aree rurali e urbane, possiedono la profondità strategica che la sinistra ha perso assestandosi nella zona di comfort dello Stato e delle istituzioni. Non sorprende più che coloro che celebrano minime “vittorie” elettorali stiano voltando le spalle alle lotte che stanno ricostruendo il movimento popolare, impegnandosi per la sopravvivenza collettiva durante la tempesta sistemica che ci sta colpendo. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su La Jornada (qui con l’autorizzazione dell’autore, che da oltre dieci anni di prende cura anche di Comune). Traduzione di Comune. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GIORGIO AGAMBEN: > Il medioevo prossimo venturo -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’orizzonte strategico non è più a sinistra proviene da Comune-info.
Tomás Hirsch: “Jeannette Jara rappresenta la speranza che in Cile sia possibile cambiare le cose in modo profondo”
Il 29 giugno in Cile Jeannette Jara ha vinto le primarie della sinistra e sarà la candidata delle forze democratiche, progressiste, indipendenti e umaniste alle elezioni presidenziali che si terranno a novembre, dove dovrà affrontare i rappresentanti della destra e dell’estrema destra. Discutiamo della situazione politica e sociale del Paese, delle prospettive aperte da questa vittoria e delle proposte della coalizione di sinistra con Tomás Hirsch, deputato e presidente di Acción Humanista, che ha partecipato con entusiasmo alla campagna elettorale che ha portato alla schiacciante vittoria di Jeannette Jara. Dopo quasi quattro anni di governo Boric, come vedi la situazione politica e sociale in Cile? Quali sono stati i principali progressi in questo periodo e quali le sconfitte? Indubbiamente in questi quasi quattro anni di governo del presidente Gabriel Boric, a cui abbiamo partecipato come Acción Humanista, sono stati compiuti importanti progressi, ma non abbastanza da poter dire che il Cile è un Paese in cui esistono una vera giustizia sociale e diritti sociali garantiti come quelli a cui aspiriamo. Sono stati fatti dei progressi, ma c’è ancora molta strada da fare. Perché c’è ancora molta strada da fare? Fondamentalmente perché, pur stando al governo, non avevamo la maggioranza al Congresso e questo ha significato un impedimento permanente da parte della destra a realizzare le principali trasformazioni proposte nel nostro programma di governo. Si trattava di trasformazioni strutturali nei settori della sanità, dell’istruzione, della casa, del lavoro e delle pensioni. Allo stesso tempo, la sconfitta subita nel plebiscito per l’approvazione di una nuova Costituzione è stata un colpo durissimo, che ha generato frustrazione e smobilitazione in molte persone. Da quel momento in poi c’è stato un cambiamento nelle priorità del governo, con una forte enfasi sulla sicurezza e su altre questioni che non erano incluse nel programma iniziale. In breve, credo che ci siano stati grandi progressi nei diritti delle donne, nei diritti del lavoro, nella riforma del sistema pensionistico e in quella del sistema educativo, per finire con il sistema di crediti e pagamenti per gli studenti, ma c’è ancora molta strada da fare e questa è la possibilità che si apre con un governo guidato da Jeannette Jara. Jeannette Jara ha sconfitto Carolina Tohá, la candidata del Socialismo Democratico, che fino a pochi mesi fa i sondaggi davano per sicura vincitrice. Quali sono stati, secondo te, gli elementi che l’hanno portata alla vittoria?   Credo che ci siano diversi elementi che hanno contribuito alla vittoria di Jeannette Jara. In primo luogo, le sue caratteristiche personali. La gente la percepisce come una persona genuina, sincera, vera, che non finge di essere ciò che non è, riconoscibile come una persona che viene dal popolo, con una madre che era una donna delle pulizie, con lei stessa che è stata una lavoratrice stagionale in gioventù, una bracciante agricola, ma allo stesso tempo come una persona che come Ministra del Lavoro è riuscita a far approvare importanti leggi come la riduzione della giornata lavorativa, l’aumento del salario minimo e la riforma del sistema pensionistico. In breve, direi che c’è un rifiuto dell’élite politica, un rifiuto di un ritorno alla vecchia Concertación, espresso nel voto molto basso per Carolina Tohá, che è stata percepita come un membro dell’élite, come una persona “distante”, che spiegava come dovrebbero essere le cose. La gente è stanca di quelli che vengono a pontificare, che vengono a spiegare dall’alto come dovrebbero essere le cose. Allo stesso tempo, credo che ci sia un’aspirazione a muoversi verso trasformazioni profonde come quelle proposte da Jeannette Jara e un rifiuto, una distanza da ciò che si percepiva di Carolina Tohá, come una politica che voleva rifondare, riprendere quella che era la vecchia Concertación. C’è stato anche un voto punitivo per il Frente Amplio, che credo rifletta anche la frustrazione per ciò che questo governo non ha fatto, per tutte le promesse e gli impegni non mantenuti, anche se in molti casi questo mancato adempimento è dovuto al fatto che l’opposizione di destra ha la maggioranza al Congresso. Jeannette Jara rappresenta quindi la speranza, il ritorno della speranza che sia possibile cambiare le cose in modo profondo. Credo che questo elemento abbia avuto una forte influenza, rafforzato anche dalle sue caratteristiche personali. Jeannette viene percepita come una persona molto semplice, comunicativa, che vive e conosce davvero i problemi di cui soffre la stragrande maggioranza della gente. In un certo senso queste elezioni primarie sono state definite come una scelta tra “popolo ed élite”. Vedi delle analogie con un’altra vittoria inaspettata e incoraggiante, quella di Zohran Kwame Mamdani alle primarie del Partito Democratico per il candidato sindaco di New York?  Si possono certamente riconoscere delle analogie con la vittoria molto incoraggiante di Zohran Kwame Mamdani alle primarie del Partito Democratico per la candidatura a sindaco di New York. In Cile e negli USA queste vittorie esprimono una ribellione alle vecchie proposte conservatrici che promettono, ma alla fine non cambiano nulla. Credo che entrambi rappresentino la freschezza del nuovo, la possibilità di cambiare, le speranze delle nuove generazioni. In breve, mi sembra che ci siano delle analogie e che ci siano anche delle somiglianze con quanto abbiamo visto in Messico con l’elezione e le politiche portate avanti da Claudia Sheinbaum, l’attuale presidente del Paese. Che cosa ha spinto Acción Humanista a sostenere la candidatura di Jeannette Jara? In Acción Humanista abbiamo deciso di sostenere Jeannette Jara diversi mesi fa, quando nessuno la vedeva come una candidata con possibilità di vincere le elezioni primarie. La decisione è stata presa in un ampio consiglio generale all’unanimità e grazie a un registro di coerenza. Abbiamo ritenuto che fosse la cosa giusta da fare, che non si trattava di un calcolo elettorale, ma che dovevamo fare la nostra scelta sulla base di un registro di coerenza, che lei rappresentava le aspirazioni più sentite del mondo dell’umanesimo, che la sua proposta rifletteva le nostre priorità, le nostre lotte fondamentali. Va sottolineato che, oltre ai comunisti, il suo partito, Acción Humanista è stata l’unico altro partito a sostenerla alle primarie. Da questo punto di vista, tralasciando tutti i calcoli, e pensando all’epoca che molto probabilmente non avrebbe vinto, c’è stato un consenso per appoggiare la sua candidatura. Lo abbiamo fatto in modo molto attivo, ci siamo uniti al suo direttivo, siamo stati tra i principali portavoce della sua campagna, sia la deputata e vicepresidente di Acción Humanista, Ana María Gazmuri, sia il nostro sindaco Joel Olmos, sia io, come deputato e presidente di Acción Humanista. La nostra gente ha partecipato molto attivamente in tutte le regioni e i Comuni in cui siamo presenti. Abbiamo anche creato un legame umano molto stretto con Jeannette e credo che siamo riusciti a dare un contributo in termini di sguardo, di stile, di atteggiamento, di collocazione dell’umanesimo nel rapporto che stavamo costruendo con lei, che andava avanti già da prima e che ora è proiettato verso il primo turno delle elezioni,  a novembre. Valutando la nostra decisione ora che Jeannette ha vinto con una maggioranza schiacciante alle primarie, crediamo che sia stato un atto molto valido, che ci permette di guardare al futuro con grande speranza. Come umanisti siamo molto impegnati a continuare a lavorare insieme, a contribuire con uomini e donne ai rispettivi team di lavoro, a collaborare negli aspetti programmatici, editoriali, organizzativi e comunicativi. Sappiamo che in questa nuova fase confluiranno anche le équipe degli altri partiti progressisti che hanno perso alle primarie e hanno promesso il loro sostegno, per cui si formerà un direttivo molto più ampio e diversificato e continueremo a contribuire con la visione e le proposte dell’umanesimo. Quali sono i punti principali del programma della sinistra? I punti principali del programma sono, in primo luogo, passare da un salario minimo, che è già cresciuto molto con questo governo, a quello che noi chiamiamo un salario vitale, cioè un salario che permetta a una famiglia di vivere in modo decente e dignitoso.  In secondo luogo, portare avanti e approfondire la riforma del sistema pensionistico, auspicabilmente fino a porre fine alle “Administradoras de Fondos de Pensiones” ( AFP)[1].  In terzo luogo, portare avanti un modello di sviluppo e crescita con una migliore distribuzione del reddito, dando priorità ai progressi verso un maggiore valore aggiunto nell’economia del Paese, che è fondamentalmente un’economia estrattivista ed esportatrice di materie prime. Quarto, migliorare le condizioni nello sfruttamento dei nostri minerali, aumentando le royalties e puntando a recuperare l’industria del litio come industria strategica per il nostro Paese. Quinto, fare progressi nella riforma del sistema sanitario, rafforzando la sanità pubblica, che oggi soffre ancora di enormi carenze a causa della mancanza di finanziamenti adeguati che le permettano di competere meglio con i sistemi sanitari privati. In sesto luogo, una politica che ponga l’accento sulla protezione dell’ambiente, tenendo conto delle crisi climatiche, del riscaldamento globale e dei rischi che queste crisi climatiche comportano oggi per il nostro Paese. Pertanto, i criteri ambientali costituiscono un aspetto strategico e fondamentale del nostro programma di governo. Settimo, rafforzare e far progredire le relazioni internazionali con la nostra regione, mantenendo i legami con i Paesi dei cinque continenti, ma promuovendo una politica di pace, soprattutto nella nostra regione latinoamericana. Questi sono alcuni degli aspetti del programma di governo, che in questa fase sarà arricchito con le proposte programmatiche degli altri candidati che hanno partecipato alle primarie e hanno perso. Ci siamo impegnati a includere anche le loro proposte, per elaborare un programma comune a tutto il progressismo e l’umanesimo. Quali prospettive vedi per le elezioni presidenziali di novembre? Qualche tempo fa si dava per scontato che le elezioni di novembre sarebbero state vinte dalla candidata di destra Evelyn Matthei e c’era anche il rischio che vincesse un candidato di estrema destra come José Antonio Kast. Oggi direi che questo scenario è cambiato. I primi sondaggi dopo le primarie danno un ottimo primo posto a Jeannette Jara, molto più avanti di Matthei e Kast. Naturalmente il panorama è ancora aperto, mancano cinque mesi e possono succedere molte cose, ma credo che oggi sia un’elezione aperta e che il mondo della sinistra, del progressismo e dell’umanesimo possa vincere. Metteremo tutto in gioco per ottenere questa vittoria, che probabilmente non sarà al primo turno di novembre, ma al secondo turno di dicembre. Oggi Jeannette Jara è chiaramente una candidata molto competitiva, che sta generando una grande speranza in molte persone, soprattutto tra i giovani. Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo [1] Un sistema istituito nel 1981 dal regime militare di Pinochet, affidando le pensioni a società finanziarie private che gestivano i contributi dei lavoratori senza alcun intervento statale o contributo da parte dei datori di lavoro. Anna Polo